Cittadinanza, capitalismo, mercato e politica. Quale rapporto? Una riflessione

di Filippo Barbera

La dotazione di diritti sociali che ha caratterizzato il modello di cittadinanza del capitalismo organizzato (“fordista-keynesiano” o dei “30 gloriosi”) si basava sull’offerta di beni e servizi pubblici finalizzati alla “de-mercificazione” dei bisogni della vita quotidiana. La nota classificazione di Esping-Andersen dei “Tre mondi del capitalismo del benessere” era basata appunto sulla de-mercificazione, vale a dire sulla misura in cui il benessere di un individuo può essere indipendente dal mercato, in particolare rispetto a pensioni, indennità di disoccupazione e assicurazione contro i rischi di salute.

Dagli anni ’80 in poi, le politiche di privatizzazione hanno influenzato i regimi di welfare del capitalismo, così come l’organizzazione dei servizi pubblici. La spina dorsale di queste riforme è stata il c.d. neoliberalismo, che ha reso possibile una diversa concezione della cittadinanza. Una concezione non più ancorata all’idea che la cittadinanza vada protetta dalle forze del mercato. Secondo la concezione della cittadinanza tipica del periodo “fordista-keynesiano”, il riconoscimento dei diritti si traduce nella capacità dell’individuo di raggiungere funzionamenti-chiave (ad esempio, essere sano, istruito, mobile), indipendentemente dal mercato. I processi di inclusione sociale sono quindi consistiti nell’estensione della cittadinanza contro le forze di mercato. Il riconoscimento del potere di “voice collettiva” ha svolto un ruolo chiave in questi processi di de-mercificazione contro il mercato, poiché partiti politici, sindacati e interessi organizzati hanno negoziato le estensioni dei confini per escludere le dinamiche di mercato dai diritti di cittadinanza.

Al contrario, la concezione della cittadinanza all’interno delle riforme neoliberali è stata costruita sul riconoscimento a cercare e ottenere le opportunità di cittadinanza all’interno del mercato. Qui l’inclusione sociale è “inclusione nel mercato” e quindi, per poter essere inclusi, il potere di scelta individuale gioca un ruolo cruciale. Le riforme neoliberali, invece di potenziare l’inclusione individuale e paritaria all’interno del mercato, hanno però favorito relazioni asimmetriche tra capitale e lavoro, diminuendo progressivamente tanto il potere di “voice collettiva” e organizzata che quello di scelta individuale. Nel capitalismo finanziarizzato il percorso da “sudditi a cittadini” si è radicalmente invertito, diventando un percorso da “cittadini a sudditi”. Nel capitalismo contemporaneo è così in atto un processo di esclusione di un’ampia porzione di persone dall’accesso a beni e servizi fondamentali necessari per la vita quotidiana. Disoccupazione di lunga durata ed esclusione dal mercato del lavoro; fallimenti; esclusione finanziaria e difficoltà di accesso al mercato immobiliare; discriminazione nell’accesso ai servizi pubblici; scivolamento nella povertà assoluta; insicurezza ambientale; internamento dei soggetti marginali; policrisi sistemiche. Data la potenza di questi processi, il capitalismo contemporaneo riduce lo spazio della cittadinanza, dove né la “libertà dei moderni” (scelta individuale) né la “libertà degli antichi” (voice collettiva) sono più a portata di mano.

Come ricostruire lo spazio della cittadinanza? Proponiamo due leve: la prima, potenziare le “infrastrutture fondamentali” (sociali, civili, logistiche, verdi) che connettono le persone e le famiglie ai beni e ai servizi di base. Le infrastrutture sono “economia fondamentale”: l’insieme di beni e servizi necessari alla vita quotidiana, accessibili a tutti i cittadini in maniera indipendente dal reddito o dal luogo di residenza. Potenziare, poi, il reddito di cittadinanza e mettere le persone in grado di rifiutare offerte di lavoro indegne. Potenziare quindi la “libertà individuale” attraverso la de-mercificazione dei diritti fondamentali. La seconda, potenziando la costruzione della “voice collettiva”, tipica della “libertà degli antichi”.

In entrambi i casi, occorre ribadire che l’illusione che i sistemi liberal-democratici potessero reggersi solo sulla politica disintermediata, affiancata dalla comunicazione massmediale, è miseramente crollata. Creare nuove narrazioni identificanti è certamente importante, anzi è necessario. Il “discorso del re” e il carisma individuale possiedono un potere di mobilitazione importante. Tale potere, però, per generare scopi comuni deve radicarsi in spazi organizzati e rispondere a interessi oggettivi di classi e gruppi sociali, articolarsi nella fisicità di una sfera pubblica aperta alla capacità di futuro dei soggetti marginali, avvalersi di spazi intermedi per l’elaborazione politica, rinnovare le forme della mobilitazione e dell’organizzazione. Lo schiavo che passa la vita a remare al ritmo della frusta non deve attendere il “discorso del re” che gli sveli finalmente i suoi interessi e lo induca così a ribellarsi all’oppressione. Piuttosto, i suoi interessi oggettivi si trasformeranno in azione politica quando si daranno le condizioni per la mobilitazione e l’organizzazione collettiva. Per la formazione di un’identità condivisa con altri rematori e per la messa in comune del proprio bisogno vicino all’esperienza (le catene mi tagliano la carne) con una soluzione collettivamente più giusta (nessuno deve vivere in catene) che chiama in causa la mobilitazione per una diversa organizzazione sociale (lottiamo insieme per abolire la schiavitù).

Sono l’organizzazione collettiva e l’intermediazione politica, insieme alle storia/narrazioni che da queste nascono, che possono nutrire la capacità di futuro all’insegna del “noi”. Non tanto la narrazione disintermediata dotata di potere identificante. Ne scrivo nel mio libro in uscita per Laterza in ottobre “Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica”.