Materiali del Programma

La scrit­tu­ra del pro­gram­ma ha richie­sto un lavo­ro col­let­ti­vo con il con­tri­bu­to di chi cono­sce i diver­si temi coper­ti nel­le nostre 120 pro­po­ste per l’I­ta­lia di cui abbia­mo biso­gno. In que­sta pagi­na tro­va­te alcu­ni dei mate­ria­li di lavo­ro che abbia­mo usa­to nel­lo svi­lup­po del pro­gram­ma di Unio­ne Popo­la­re con il con­tri­bu­to di ricer­ca­to­ri e ricer­ca­tri­ci e attiviste/i e esperti/e atti­vi nel­la socie­tà civi­le e in cam­pa­gne socia­li e ambientali.

Indice

Premessa

TEMI DI SFONDO

Società di mercato

Cooperazione, competizione, concorrenza

Diseguaglianze e mobilità sociale

Economia fondamentale

Meritocrazia

Ambiente

Uno Stato dalla parte del cittadino

ECONOMIA E LAVORO

Occupazione pubblica

Lavoro povero e flessibilità

Il salario minimo come strategia

Le nuove forme di lavoro autonomo

Economia per la cultura e la creatività

Settori strategici e lavori essenziali

TERRITORIO E GOVERNO LOCALE

Mezzogiorno e divari regionali

Aree interne

Accoglienza diffusa e inclusione dei nuovi abitanti stranieri nelle aree interne

Agricoltura

Politica agricola, economia contadina e svolta ecologica

Turismi e turismo per il futuro

Regioni ed enti locali

AZIONE PUBBLICA

Lotta alle mafie

Per una politica del credito pubblico

La giustizia fiscale

Servizi pubblici locali a rilevanza economica e a rete

Per una società digitale giusta

Sanità: il quadro generale

Sanità: falsi problemi e nuove soluzioni

Scuola

Università e ricerca

Il patrimonio culturale

Giustizia penale, sicurezza, comunità

CITTADINANZA E POLITICHE SOCIALI 

Diritti di cittadinanza

Costo della vita

Casa

Famiglie

Politiche sociali

PREMESSA


Que­ste sche­de sono sta­te scrit­te da ricer­ca­tri­ci, ricer­ca­to­ri, professionisti/e e attiviste/i che han­no mes­so a dispo­si­zio­ne il loro tem­po e com­pe­ten­ze, su base volon­ta­ria, con l’obiettivo di con­tri­bui­re alla reda­zio­ne di “mate­ria­li di lavo­ro” uti­li alla costru­zio­ne di un’agenda radi­ca­le e inno­va­ti­va. Lo sco­po è quel­lo di con­di­vi­de­re paro­le chia­ve, pro­spet­ti­ve e sen­si­bi­li­tà su alcu­ni temi di inte­res­se col­let­ti­vo e pub­bli­co. Le sche­de qui rac­col­te sono, anzi­tut­to, mate­ria­le di stu­dio e di ana­li­si: ele­men­ti essen­zia­li per la for­ma­zio­ne poli­ti­ca ad ampio rag­gio e trop­po a lun­go tra­scu­ra­ti. La lista dei temi trat­ta­ti non è esau­sti­va, ma copre un ragio­ne­vo­le nume­ro di ambi­ti e può esse­re via via amplia­ta. Insie­me ad altro mate­ria­le, que­ste sche­de han­no for­ni­to alcu­ni degli ele­men­ti con­flui­ti poi nel pro­gram­ma, la cui respon­sa­bi­li­tà ulti­ma è ovvia­men­te poli­ti­ca e non coin­vol­ge le per­so­ne che han­no con­tri­bui­to alla ste­su­ra del­le sche­de e men che meno le loro isti­tu­zio­ni e orga­niz­za­zio­ni di appartenenza.

I con­tri­bu­ti sono sta­ti scrit­ti con un taglio non spe­cia­li­sti­co e sono arti­co­la­ti lun­go alcu­ne tesi di fon­do, coe­ren­ti con i prin­ci­pi che ani­ma­no il pro­get­to dell’Unione Popo­la­re. Il qua­dro trac­cia­to armo­niz­za alcu­ni fatti/numeri di base con argo­men­ta­zio­ni ana­li­ti­che e prio­ri­tà poli­ti­che, mas­si­miz­zan­do la capa­ci­tà per­for­ma­ti­va del mes­sag­gio. Sono, in altre paro­le, pez­zi del “discor­so pub­bli­co” e del “nuo­vo sen­so comu­ne” che Unio­ne Popo­la­re vuo­le costrui­re su que­sti temi.

Dal pun­to di vista sostan­zia­le, i pun­ti foca­li sono sta­ti scel­ti in rap­por­to alla loro capa­ci­tà di “par­la­re” alla vita quo­ti­dia­na del­le per­so­ne, ai loro vis­su­ti, pau­re e spe­ran­ze. I mate­ria­li sono orga­niz­za­ti in quat­tro sezio­ni: (i) temi di sfon­do, (ii) ter­ri­to­rio e gover­no loca­le, (iii) eco­no­mia e lavo­ro, (iv) azio­ne pubblica.

Si rin­gra­zia­no per la con­su­len­za for­ni­ta alla ste­su­ra del­le sche­de: Pier Gior­gio Arde­ni (Uni­ver­si­tà di Bolo­gna), Rober­to Arin­ghie­ri (Uni­ver­si­tà di Tori­no), Filip­po Bar­be­ra (Uni­ver­si­tà di Tori­no), Lavi­nia Biful­co (Uni­ver­si­tà di Mila­no), Pie­ro Bevi­lac­qua (Uni­ver­si­tà di Roma La Sapien­za), Ser­gio Bolo­gna (Asso­cia­zio­ne Acta), Camil­la Bor­gna (Uni­ver­si­tà di Tori­no), Dome­ni­co Cer­so­si­mo (Uni­ver­si­tà del­la Cala­bria), Mar­co Ciur­ci­na (Cen­tro Nexa, Poli­tec­ni­co di Tori­no), Marian­na Filan­dri (Uni­ver­si­tà di Tori­no), Fabri­zio Gar­ba­ri­no (Movi­men­to con­ta­di­no ita­lia­no), Pao­lo Ger­bau­do (Scuo­la Nor­ma­le Supe­rio­re e King’s Col­le­ge), Nico­la Lace­te­ra (Uni­ver­si­tà di Toron­to), Andrea Mariuz­zo (Uni­ver­si­tà di Mode­na Reg­gio Emi­lia), Andrea Mem­bret­ti (Uni­ver­si­tà di Pavia), Gui­do Orto­na (Uni­ver­si­tà del Pie­mon­te orien­ta­le), Nico­la Mel­lo­ni (Uni­ver­si­tà di Toron­to), Toma­so Mon­ta­na­ri (Uni­ver­si­tà per stra­nie­ri di Sie­na), Enri­ca Mor­lic­chio (Uni­ver­si­tà di Napo­li), Manue­la Nal­di­ni (Uni­ver­si­tà di Tori­no), Mas­si­mi­lia­no Nuc­cio (Uni­ver­si­tà Cà Fosca­ri di Vene­zia), Pao­lo Ortel­li (Col­let­ti­vo “Pae­se Rea­le”), Fran­ce­sco Pal­lan­te (Uni­ver­si­tà di Tori­no), Toni­no Per­na (Uni­ver­si­tà di Mes­si­na), Pao­lo Pile­ri (Poli­tec­ni­co di Mila­no), Ange­lo Salen­to (Uni­ver­si­tà del Salen­to), Fran­ce­sco Sylos Labi­ni (CNR e Asso­cia­zio­ne ROARS),  Ste­fa­no Unga­ro (Ban­ca di Fran­cia), Mari­ca Vir­gil­li­to (Scuo­la Supe­rio­re San­t’An­na di Pisa).

TEMI DI SFONDO

Società di mercato

Il lun­go tren­ten­nio ini­zia­to con la fine del­la Pri­ma Repub­bli­ca e l’affermarsi dell’egemonia neo­li­be­ra­le in Ita­lia e in tut­to il mon­do occi­den­ta­le è sta­to carat­te­riz­za­to pri­ma di tut­to dall’inversione del rap­por­to tra mercato/economia e socie­tà. Nel capi­ta­li­smo demo­cra­ti­co il mer­ca­to era uno stru­men­to, da rego­la­re e cali­bra­re, i cui limi­ti era­no posti dai biso­gni socia­li – in fon­do lo dice anche la nostra Costi­tu­zio­ne all’Articolo 42:

La pro­prie­tà è pub­bli­ca o pri­va­ta. I beni eco­no­mi­ci appar­ten­go­no allo Sta­to, ad enti o a pri­va­ti. La pro­prie­tà pri­va­ta è rico­no­sciu­ta e garan­ti­ta dal­la leg­ge, che ne deter­mi­na i modi di acqui­sto, di godi­men­to e i limi­ti allo sco­po di assi­cu­rar­ne la fun­zio­ne socia­le e di ren­der­la acces­si­bi­le a tutti.

Memo­re dei disa­stri e del­le cri­si crea­te dal capi­ta­li­smo tra le due Guer­re, il sen­so comu­ne, allo­ra tra­spo­sto anche nel­la rap­pre­sen­tan­za poli­ti­ca, non solo a sini­stra, chie­de­va non solo una divi­sio­ne più equa dei frut­ti del lavo­ro, ma una bri­glia a que­gli spi­ri­ti ani­ma­li che ave­va­no distrut­to comu­ni­tà, impo­ve­ri­to i lavo­ra­to­ri, ali­men­ta­to spin­te rea­zio­na­rie e raz­zi­ste. Quel­la memo­ria, quel sen­so comu­ne, si sono però per­si col tem­po: con la fine del­la Guer­ra Fred­da ave­va vin­to il capi­ta­li­smo, era fini­ta la Sto­ria; ed era dun­que la socie­tà, nuo­va­men­te, a dover adat­tar­si alle logi­che di mer­ca­to, che da mez­zo dive­ni­va fine: l’efficienza, non l’equità; il pro­fit­to, non il wel­fa­re; il suc­ces­so per­so­na­le, non un Pae­se che cre­sce; la comu­ni­tà poli­ti­ca basa­ta sui con­su­ma­to­ri, non sui cit­ta­di­ni – que­sta è la socie­tà di mercato. 

La socie­tà di mer­ca­to che abbia­mo cono­sciu­to in que­sti anni, e che ha cam­bia­to anche il nostro modo di pen­sa­re e di por­ci nei con­fron­ti degli altri, è una espe­rien­za tota­liz­zan­te, che coin­vol­ge qual­sia­si aspet­to del­la nostra vita. Innan­zi­tut­to, natu­ral­men­te, il lavo­ro, trat­ta­to come una mer­ce qual­sia­si – il mer­ca­to non deve ave­re osta­co­li, e quin­di van­no eli­mi­na­te tut­te le bar­rie­re al pre­ca­ria­to, cui si è dato il nome più gen­ti­le di fles­si­bi­li­tà: dal­le rifor­me Treu fino all’abolizione dell’Art.18 in una gara al ribas­so cui tut­ti i gover­ni, di qual­sia­si colo­re han­no con­tri­bui­to. E’ quel­la stes­sa logi­ca che oggi por­ta all’attacco, quo­ti­dia­no, con­tro il red­di­to di cit­ta­di­nan­za, reo di pre­ve­ni­re le assun­zio­ni con sala­ri da fame.

D’altronde nel­la socie­tà di mer­ca­to la pover­tà non è un pro­ble­ma ma una col­pa indi­vi­dua­le, e non un feno­me­no socia­le. Anco­ra una vol­ta la cam­pa­gna media­ti­ca sul red­di­to di cit­ta­di­nan­za, che rical­ca quel­la sul­le wel­fa­re queen in Ame­ri­ca e poi dei Con­ser­va­to­ri bri­tan­ni­ci sul­la Bro­ken Bri­tain, è istrut­ti­va: i gio­va­no sono “choo­sy”, “bam­boc­cio­ni”, i pove­ri pre­fe­ri­sco­no il “diva­no” al duro e sano lavoro.

Le impre­se, inve­ce, sono una enti­tà qua­si sacra­le. Il loro uni­co sco­po, come dice­va Fried­man, è fare pro­fit­ti, la loro uni­ca respon­sa­bi­li­tà è ver­so gli share­hol­der: i lavo­ra­to­ri sono visti come costi che van­no abbat­tu­ti – come non ricor­da­re le impen­na­te in bor­sa dopo ogni licen­zia­men­to di mas­sa nel­le impre­se americane?

Finan­che la cura dell’ambiente è sta­ta deman­da­ta al mer­ca­to: gli accor­di di Kyo­to intro­du­ce­va­no mec­ca­ni­smi di mer­ca­to per arre­sta­re il cam­bia­men­to cli­ma­ti­co, con i risul­ta­ti che sono ora sot­to gli occhi di tut­ti. E che dire del­la sani­tà pub­bli­ca? Si sono ridot­ti il nume­ro degli ospe­da­li (da 1200 a 1000 in soli 10 anni), i posti let­to (da 225 mila a 191 mila) per­ché l’allocazione del­le risor­se non era effi­cien­te, sal­vo poi paga­re mol­to caro que­ste scel­te duran­te il Covid. Tut­te le azio­ni uma­ne diven­ta­no azio­ni eco­no­mi­che e devo­no dun­que sot­to­sta­re alla logi­ca del pro­fit­to e del­la sup­po­sta efficienza.

La socie­tà di mer­ca­to è un ter­mi­ne popo­la­riz­za­to dal gran­de intel­let­tua­le austro-unga­ri­co Karl Pola­nyi. Duran­te la rivo­lu­zio­ne indu­stria­le e il pri­mo gran­de ciclo di glo­ba­liz­za­zio­ne, nazio­ni, popo­li, civil­tà furo­no tra­vol­te dall’avvento del capi­ta­li­smo. Se, come dice­va Marx, tut­to quel­lo che è soli­do sva­ni­sce nell’aria, allo­ra il capi­ta­li­smo fu dav­ve­ro capa­ce di rade­re al suo­lo siste­mi di pen­sie­ro ed orga­niz­za­zio­ni socia­li. Il pro­gres­so, però, ave­va un lato oscu­ro – l’immiserimento, la dispe­ra­zio­ne, l’esclusione. Pola­nyi capì che in un siste­ma eco­no­mi­co che com­mer­cia­liz­za­va tut­to il pos­si­bi­le imma­gi­na­bi­le ci sareb­be­ro sta­te rea­zio­ni e “con­tro­mo­vi­men­ti” per rie­qui­li­bra­re gli tsu­na­mi crea­ti dal mer­ca­to. In par­ti­co­la­re Pola­nyi notò che con il capi­ta­li­smo si era­no crea­ti mer­ca­ti per beni cosid­det­ti fit­ti­zi: dena­ro; ter­ra; lavo­ro. Gli squi­li­bri nei mer­ca­ti, ed in par­ti­co­la­re pro­prio in quei mer­ca­ti, crea­va­no cri­si fre­quen­ti che veni­va­no ine­vi­ta­bil­men­te sca­ri­ca­ti sul lavo­ro: la disoc­cu­pa­zio­ne e l’impoverimento, con il con­se­guen­te abbas­sa­men­to dei sala­ri, era­no lo stru­men­to pre­fe­ri­to per riag­giu­sta­re que­ste cri­si. Se alcu­ne di que­ste cose suo­na­no fami­lia­ri, è per­ché lo sono: un seco­lo dopo sia­mo rica­du­ti nel­la stes­sa trap­po­la da cui ci ave­va mes­so in guar­dia Pola­nyi e che ave­va tro­va­to un anti­do­to, in Occi­den­te, nel­la social­de­mo­cra­zia e negli accor­di di Bret­ton-Woods, quel siste­ma inter­na­zio­na­le che John Rug­gie ha defi­ni­to “embed­ded libe­ra­li­sm” – il libe­ra­li­smo rin­chiu­so dai biso­gni sociali.

I mer­ca­ti libe­ra­liz­za­ti fino all’estremo con­ti­nua­no ad esse­re fon­te di dram­ma, pover­tà, emar­gi­na­zio­ne. Pen­sia­mo agli Sta­ti Uni­ti, dove la sani­tà pri­va­ta let­te­ral­men­te ucci­de le per­so­ne, negan­do l’accesso a medi­ci­na­li di base, come l’insulina. Pen­sia­mo alla pri­va­tiz­za­zio­ne dell’acqua in Boli­via, che nega­va ai con­ta­di­ni anche l’usufrutto dell’acqua piovana.

Pro­prio l’acqua ha rap­pre­sen­ta­to un pun­to di for­te resi­sten­za al domi­nio del mer­ca­to: nel 2011 il refe­ren­dum per impe­dir­ne la pri­va­tiz­za­zio­ne fu un suc­ces­so – non tut­to è com­mer­cia­bi­le, ci sono beni col­let­ti­vi, ci sono dirit­ti. Que­sto dovreb­be esse­re il pun­to di ripar­ten­za per una vera alter­na­ti­va eco­no­mi­ca, socia­le e politica.

Non solo, dun­que, un cam­bia­men­to di poli­ti­ca eco­no­mi­ca, che pure ser­ve: l’austerity, in fon­do, non fu altro che un ritor­no al Gold Stan­dard e allo sca­ri­ca­re sul lavo­ro i costi di una cri­si gene­ra­ta da altri. Ma soprat­tut­to una manie­ra diver­sa di con­ce­pi­re il rap­por­to socie­tà-mer­ca­to. Come ai tem­pi di Pola­nyi ci sono aree cri­ti­che di inva­den­za del mer­ca­to che devo­no esse­re rego­la­te, e come ai tem­pi di Pola­nyi il lavo­ro e “terra”/casa sono pun­ti di con­flit­to cen­tra­li. Pro­prio la cri­si eco­no­mi­ca del 2008, appro­fit­tan­do di pover­tà, disoc­cu­pa­zio­ne, dispe­ra­zio­ne, ha por­ta­to a nuo­vi livel­li di mer­ci­fi­ca­zio­ne dell’essere socia­le gra­zie a quel­la che cono­scia­mo come gig eco­no­my. Nel­la gig eco­no­my il lavo­ro ha per­so qual­sia­si tipo di tute­la: se il trend era ini­zia­to ben pri­ma, con la com­par­sa dei vari Uber e simi­li si è tra­sfor­ma­to il lavo­ra­to­re dipen­den­te in “impren­di­to­re di sé stes­so”, toglien­do qual­sia­si tipo di garan­zia: ferie, pen­sio­ne, malat­tia, restri­zio­ni di ora­rio. Addi­rit­tu­ra il lavo­ra­to­re diven­ta­va il sog­get­to che dove­va met­te­re il “capi­ta­le” – la mac­chi­na, la bici – e quin­di il rischio, per arric­chi­re una impre­sa che lo coman­da come un robot. Airbnb, inve­ce, distrug­ge il con­cet­to di pia­ni­fi­ca­zio­ne urba­na, di casa come luo­go di ripo­so e ripa­ro: nuo­va­men­te, un trend che già cono­sce­va­mo, i pia­ni per la casa in Ita­lia son sem­pre sta­ti defi­ci­ta­ri, men­tre in pae­si che ave­va­no fat­to dell’abitazione un bene neces­sa­rio in cui l’intervento pub­bli­co era costan­te – come il Regno Uni­to con le coun­cil hou­ses – ave­va­no da tem­po inver­ti­to la rot­ta, pun­tan­do anzi sull’immobiliare come val­vo­la di sfo­go di un ecces­so di capi­ta­le liqui­do, aumen­tan­do quin­di i prez­zi e costrin­gen­do la popo­la­zio­ne ad un inde­bi­ta­men­te sem­pre più alto per poter acqui­sta­re un tet­to dove dor­mi­re. Airbnb tra­sfor­ma pro­prio il con­cet­to di casa, che da luo­go di vita diven­ta bene turi­sti­co, un hotel; e che dà quin­di incen­ti­vi ai pro­prie­ta­ri di casa a non accet­ta­re affit­ti lun­ghi – dei cit­ta­di­ni-lavo­ra­to­ri – per tra­sfor­mar­li in più remu­ne­ra­ti­vi ostel­li di bre­ve dura­ta per turi­sti. Con la con­se­guen­te espul­sio­ne del­la cit­ta­di­nan­za dal­le cit­tà stes­se, ren­den­do l’emergenza abi­ta­ti­va anco­ra più gra­ve pro­prio men­tre i fon­di a dispo­si­zio­ne cala­no ver­ti­gi­no­sa­men­te (il Fon­do nazio­na­le di soste­gno per l’accesso alle abi­ta­zio­ni in loca­zio­ne è pas­sa­to da 398 milio­ni di euro nel 1999 a 9,9 nel 2011).

I mer­ca­ti pos­so­no esse­re un fat­to­re posi­ti­vo per lo scam­bio di beni e per la cre­sci­ta eco­no­mi­ca, ma solo una loro rego­la­men­ta­zio­ne evi­ta che distrug­ga­no i tes­su­ti socia­li. La rea­zio­ne poli­ti­ca di que­sti anni – che a vol­te assu­me pre­oc­cu­pan­ti for­me xeno­fo­bi­che e para-fasci­ste – altro non è che una rea­zio­ne non tan­to con­tro la socie­tà moder­na, quan­to piut­to­sto con­tro la dit­ta­tu­ra del mer­ca­to – una socie­tà rot­ta, che non si sa orga­niz­za­re, che non tie­ne con­to dei biso­gni socia­li dei cit­ta­di­ni, che, come nel famo­so det­to di Mar­ga­ret That­cher, “non esi­ste”. E’ da que­sto pun­to che è indi­spen­sa­bi­le ripar­ti­re, deli­mi­tan­do e rego­lan­do gli spa­zi del mer­ca­to e riaf­fer­man­do ed allar­gan­do quel­li del­la socie­tà. Lavo­ro, casa, sani­tà, ambien­te, la stes­sa acqua – che il mer­ca­to, gra­zie ad una poli­ti­ca com­pli­ce, pro­va a pren­der­si a dispet­to del­la volon­tà popo­la­re – devo­no tor­na­re ad esse­re con­si­de­ra­ti dirit­ti, biso­gni, fat­ti socia­li e non solo eco­no­mi­ci. Nuo­vi stru­men­ti di wel­fa­re e legi­sla­ti­vi devo­no esse­re intro­dot­ti per garan­ti­re più tute­le al lavo­ro; finan­zia­men­ti più cor­po­si devo­no garan­ti­re il dirit­to alla casa, alla sani­tà – biso­gni che devo­no esse­re tute­la­ti dal­le logi­che di mer­ca­to; anche il ruo­lo dell’impresa deve cam­bia­re: se la Cor­po­ra­te Social Respon­sa­bi­li­ty è ormai già main­stream nel mon­do anglo­sas­so­ne, è giun­ta l’ora di anda­re oltre, di tra­sfor­ma­re i lavo­ra­to­ri in sta­ke­hol­der, in pos­ses­so­ri di capi­ta­le che pos­sa­no ave­re pote­re deci­sio­na­le den­tro le impre­se, con l’introduzione di fon­di dei lavo­ra­to­ri, come han­no pro­po­sto tan­to Cor­byn quan­do era lea­der del Labour che l’economista Bran­ko Mila­no­vic. E nuo­vo deve esse­re, soprat­tut­to, il ruo­lo del­la poli­ti­ca e del­lo Sta­to: non più, solo, di sup­por­to al mer­ca­to ma di con­ci­lia­zio­ne tra le esi­gen­ze eco­no­mi­che e quel­le socia­li. Un pro­gram­ma ambi­zio­so, indi­spen­sa­bi­le per rida­re un sen­so alla paro­la democrazia.

Cooperazione, competizione, concorrenza

 Chia­ria­mo subi­to una que­stio­ne eti­mo­lo­gi­ca. Spes­so usia­mo indif­fe­ren­te­men­te la paro­la “com­pe­ti­zio­ne” e quel­la “con­cor­ren­za” come se aves­se­ro lo stes­so signi­fi­ca­to.  Com­pe­te­re, dal lati­no cum e pete­re, signi­fi­ca “chie­de­re insie­me” o anche “anda­re insie­me” , ovve­ro diri­ger­si ver­so un obiet­ti­vo comu­ne.  Diver­sa­men­te “con­cor­ren­za” deri­va sem­pre dal lati­no e signi­fi­ca cor­re­re insie­me ad un altro, ed è un ter­mi­ne che veni­va usa­to nel­le gare e sot­tin­ten­de che c’è un avver­sa­rio da bat­te­re.  Nell’accezione con­tem­po­ra­nea più comu­ne si usa indif­fe­ren­te­men­te “com­pe­ti­zio­ne” e “con­cor­ren­za”, cate­go­rie che ven­go­no   con­trap­po­ste a “coo­pe­ra­zio­ne”. Nel lin­guag­gio poli­ti­co cor­ren­te si usa iden­ti­fi­ca­re la Destra neo­li­be­ri­sta con la cate­go­ria del­la “competizione/concorrenza”, men­tre alla Sini­stra è asso­cia­ta la cate­go­ria del­la “coo­pe­ra­zio­ne”.  Que­sto approc­cio in bian­co-nero (che non sono i colo­ri del­la Juven­tus, ma di una visio­ne del mon­do) è un modo sche­ma­ti­co e super­fi­cia­le di ana­liz­za­re i com­por­ta­men­ti degli uomi­ni e del­le don­ne, di guar­da­re alle dina­mi­che socia­li.   La real­tà è ben più com­ples­sa: nel com­por­ta­men­to di ogni esse­re uma­no c’è una spin­ta alla coo­pe­ra­zio­ne quan­to un’altra, con­trap­po­sta, alla competizione/concorrenza, come c’è una quo­ta di altrui­smo e gene­ro­si­tà insie­me ad una com­po­nen­te egoi­sti­ca.  Alcu­ni siste­mi socia­li, o modi di pro­du­zio­ne e ripro­du­zio­ne, esal­ta­no una com­po­nen­te piut­to­sto che un’altra.

Come ha ben spie­ga­to Toma­sel­lo, nascia­mo con un istin­to ver­so la coo­pe­ra­zio­ne che dimo­stria­mo già nei pri­mi anni di vita. Allo stes­so tem­po, nes­su­no può nega­re che esi­ste una pro­pen­sio­ne alla com­pe­ti­zio­ne, una lot­ta per la soprav­vi­ven­za che nel­la socie­tà uma­na ha a che fare con la lot­ta per il pote­re, come puro desi­de­rio di domi­nio che non cono­sce con­fi­ni, limiti. 

Inol­tre, dob­bia­mo distin­gue­re tra com­pe­ti­zio­ne qua­li­ta­ti­va e con­cor­ren­za distrut­ti­va. Gli arti­sti e gli spor­ti­vi com­pe­to­no con tut­ta la loro for­za fisi­ca e intel­let­tua­le, ma que­sto sfor­zo por­ta un bene­fi­cio per tut­ta la col­let­ti­vi­tà.  Ogni scrit­to­re vor­reb­be scri­ve­re un’opera immor­ta­le e supe­ra­re nel­la glo­ria i suoi col­le­ghi, così come ogni pit­to­re o musi­ci­sta, ed ugual­men­te ogni atle­ta vuo­le supe­ra­re il record rag­giun­to in quel­la disci­pli­na o vin­ce­re un cam­pio­na­to nazio­na­le o mon­dia­le.  Insom­ma, arti­sti e atle­ti com­pe­to­no tra di loro, anche dura­men­te, ma il risul­ta­to è in gene­ra­le posi­ti­vo per tut­ta la col­let­ti­vi­tà. Di con­tro, la con­cor­ren­za nel mer­ca­to capi­ta­li­sti­co com­por­ta l’esclusione, la mes­sa fuo­ri gio­co dei con­cor­ren­ti, per rag­giun­ge­re l’ideale for­ma di mer­ca­to per il capi­ta­le: il mono­po­lio.  La “mano invi­si­bi­le” di cui si inna­mo­rò Adam Smith è oggi ben visi­bi­le ed è una gran­de mano pub­bli­ca e pri­va­ta, di oli­go­po­li, impre­se mul­ti­na­zio­na­li e lob­by pub­bli­co-pri­va­to, in cui spes­so si intro­du­ce clan­de­sti­na­men­te la “mano cri­mi­na­le” che con­trol­la diver­se filie­re del mer­ca­to capi­ta­li­sti­co.   Il rischio per la socie­tà è che la pre­va­len­za di que­ste “mani” può por­ta­re all’autodistruzione, ad una con­cor­ren­za spie­ta­ta che si gio­ca con la guer­ra dei prez­zi, del­la spe­cu­la­zio­ne finan­zia­ria, o con le armi tout court.

Per­tan­to, se voglia­mo sal­var­ci dob­bia­mo fare rie­mer­ge­re l’istinto alla coo­pe­ra­zio­ne e ren­der­lo attraen­te, effi­ca­ce, desi­de­ra­bi­le.   Tra­sfor­ma­re la con­cor­ren­za distrut­ti­va in emu­la­zio­ne e com­pe­ti­zio­ne posi­ti­va.   Fac­cia­mo alcu­ni esempi.

Nel 1998 i mass media di tut­ta Euro­pa si occu­pa­ro­no del caso Bado­la­to, un pae­se abban­do­na­to che rina­sce­va gra­zie all’accoglienza dei migran­ti cur­di.  L’esperienza, pro­mos­sa dal Comu­ne di Bado­la­to e dal Cric (una ONG con sede cen­tra­le a Reg­gio C.) ebbe suc­ces­so gra­zie alla col­la­bo­ra­zio­ne fat­ti­va di Lon­go Mai (comu­ni­tà anar­chi­ca pre­sen­te in Fran­cia, Sviz­ze­ra e Ger­ma­nia), del­le bot­te­ghe del com­mer­cio equo, dell’associazione nazio­na­le per la pace, ecc. Tut­ti sog­get­ti che pro­mos­se­ro il turi­smo soli­da­le che det­te la lin­fa essen­zia­le per ren­de­re soste­ni­bi­le il pro­get­to sen­za dena­ro pub­bli­co. Un anno dopo, l’Associazione Cit­tà futu­ra e il suo pre­si­den­te si pre­sen­ta­ro­no a Bado­la­to e dis­se­ro: “voglia­mo far­lo pure a Ria­ce”.   Così, per emu­la­zio­ne nac­que l’esperienza di acco­glien­za di Ria­ce, oggi famo­sa in tut­to il mon­do.  A sua vol­ta diver­si altri Comu­ni (Acqua­for­mo­sa, Sant’Alessio d’Aspromonte, Cami­ni, ecc.) emu­la­ro­no Ria­ce, sia pure adat­tan­do il pro­get­to al loro ter­ri­to­rio, rag­giun­gen­do risul­ta­ti impor­tan­ti e visi­bi­li, ma igno­ra­to dai mass media per pigrizia.

Nel perio­do 2000–2007 nel Par­co nazio­na­le dell’Aspromonte, ma anche nel Par­co nazio­na­le del Pol­li­no, e in diver­si par­chi regio­na­li, fu spe­ri­men­ta­to con suc­ces­so una col­la­bo­ra­zio­ne pubblico/privato (ter­zo set­to­re), che è riu­sci­ta ad otte­ne­re gran­di risul­ta­ti nel­la lot­ta agli incen­di. Anche in que­sto caso la coo­pe­ra­zio­ne tra le diver­se associazioni/cooperative che han­no par­te­ci­pa­to e sot­to­scrit­to i “con­trat­ti di respon­sa­bi­li­tà ter­ri­to­ria­le” è sta­ta impor­tan­te, quan­to il desi­de­rio di arri­va­re “pri­mi” nel­la gra­dua­to­ria pre­mia­le per chi ave­va avu­to la mino­re inci­den­za di super­fi­cie bru­cia­ta rispet­to al ter­ri­to­rio adottato.

Il fair tra­de è un esem­pio clas­si­co di come il free tra­de può esse­re supe­ra­to, miglio­ra­to, a van­tag­gio degli anel­li più debo­li del­la filie­ra mer­can­ti­le.  Nato più di mez­zo seco­lo fa, ormai dif­fu­so dovun­que, ha pre­so nel tem­po anche altre for­me ed altri nomi.  In Ita­lia, ad esem­pio, i G.A.S. (Grup­pi d’Acquisto Soli­da­le) che crea­no un rap­por­to diret­to tra con­su­ma­to­ri e pro­dut­to­ri agri­co­li, o la rete No Cap di lot­ta al capo­ra­la­to, han­no assun­to e meta­bo­liz­za­to i prin­ci­pi fon­da­men­ta­li del “fair tra­de”, ovve­ro di una for­ma di mer­ca­to equo e soli­da­le, che cer­ca di spo­sta­re il “valo­re aggiun­to” dal­la distri­bu­zio­ne alla pro­du­zio­ne, di soste­ne­re con con­trat­ti a medio ter­mi­ne i pro­dut­to­ri loca­li, garan­ten­do­li sui prez­zi e sul­la con­ti­nui­tà degli acqui­sti, facen­do cre­sce­re una coscien­za soli­da­le nei con­su­ma­to­ri, insom­ma crean­do una for­ma di coo­pe­ra­zio­ne che met­te in discus­sio­ne le cosid­det­te “leg­gi di mer­ca­to” che non sono altro che le leg­gi del­la giun­gla, del più for­te che divo­ra il più pic­co­lo, dell’onnipotenza del capi­ta­le finan­zia­rio che pun­ta uni­ca­men­te alla ricer­ca degli extra-profitti. 

Così nel pro­get­to Spar­ta­cus a Rosar­no, cen­ti­na­ia di gio­va­ni brac­cian­ti afri­ca­ni sono sta­ti libe­ra­ti dal­la ten­do­po­li-barac­co­po­li, gra­zie ad una col­la­bo­ra­zio­ne tra la Fon­da­zio­ne Visma­ra di Mila­no, alcu­ne impre­se agri­co­le che han­no assun­to i brac­cian­ti e tro­va­to una civi­le abi­ta­zio­ne, e la pro­mo­zio­ne del pro­get­to da par­te dell’Associazione Inter­cul­tu­ra­le Inter­na­tio­na­le Hou­se, con l’adesione del­la Fede­ra­zio­ne Gio­va­ni­le del­le Chie­se Evan­ge­li­che, il Con­sor­zio Chi­co Men­des di Mila­no, ecc.      Crea­re rete, lo abbia­mo capi­to da tem­po, è fon­da­men­ta­le. L’autorganizzazione non è solo il sogno degli anar­chi­ci ma anche un dato di natura.

In con­clu­sio­ne: bat­ter­si per una socie­tà più soli­da­le e coe­sa signi­fi­ca ave­re il corag­gio di modi­fi­ca­re l’attuale mec­ca­ni­smo di pro­du­zio­ne e distri­bu­zio­ne, non di ope­ra­re qual­che aggiu­sta­men­to com­pen­sa­ti­vo (maga­ri con un “bonus2), ma di avvia­re una tra­sfor­ma­zio­ne radi­ca­le a par­ti­re da come si pro­du­ce e si consuma.

Diseguaglianze e mobilità sociale

Sono diver­si anni ormai che il tema del­le «disu­gua­glian­ze» vie­ne por­ta­to in pri­mo pia­no nel dibat­ti­to poli­ti­co – e non vi è par­ti­to che non affer­mi di voler­le ridur­re – anche se poi fini­sce sem­pre per non veni­re mai dav­ve­ro intac­ca­to. Par­lia­mo qui di disu­gua­glian­ze eco­no­mi­che, ovve­ro di red­di­to, e quin­di di sala­rio, e di ric­chez­za, che si riflet­to­no, com’è ovvio, in disu­gua­glian­ze di con­di­zio­ni di vita e di oppor­tu­ni­tà. Se le disu­gua­glian­ze di red­di­to e ric­chez­za in Ita­lia sono con­si­de­re­vo­li è per­ché esse dipen­do­no da disu­gua­glian­ze socia­li – un tem­po si sareb­be det­to di clas­se e ciò è anco­ra vero, in buo­na sostan­za, anche se tale dici­tu­ra va qua­li­fi­ca­ta – e da disu­gua­glian­ze ter­ri­to­ria­li e del­la fami­glia di ori­gi­ne. Ciò per­ché, anche in Ita­lia, la cosid­det­ta mobi­li­tà socia­le è bas­sa, tan­to che le disu­gua­glian­ze ten­do­no a per­pe­tuar­si tra le gene­ra­zio­ni e nei territori.

L’Italia pre­sen­ta un gra­do di disu­gua­glian­za alto in con­fron­to ad altri pae­si euro­pei. La disu­gua­glian­za nel­la distri­bu­zio­ne del red­di­to o del­la ric­chez­za – comun­que la si misu­ri – è rela­ti­va­men­te alta. E, ciò che altre­sì gra­ve, tale alto gra­do di disu­gua­glian­za è per­si­sten­te ed è tale da ormai mol­ti anni. Le fasce di red­di­to più bas­so, in Ita­lia, rap­pre­sen­ta­no la quo­ta mag­gio­re tra i per­cet­to­ri di red­di­to, dispo­nen­do solo di una fra­zio­ne del red­di­to com­ples­si­vo, a fron­te di una quo­ta ben mag­gio­re che va ai per­cet­to­ri di red­di­to più alto.

Sul­le disu­gua­glian­ze nel­la distri­bu­zio­ne del red­di­to ven­go­no spes­so fat­te affer­ma­zio­ni appa­ren­te­men­te con­trad­dit­to­rie – come quel­le che affer­ma­no che esse sono aumen­ta­te o quel­le che, al con­tra­rio, sosten­go­no che sono più o meno costan­ti – e distin­guo che sot­to­li­nea­no che «dipen­de da come si misu­ra­no». Sen­za entra­re nel­la discus­sio­ne più tec­ni­ca, va sot­to­li­nea­to che si deve distin­gue­re, nel par­la­re di red­di­to, tra red­di­to dispo­ni­bi­le, ovve­ro di quan­to dispo­ne una fami­glia in un cer­to perio­do, red­di­to di mer­ca­to, ovve­ro quan­to gli indi­vi­dui rice­vo­no, e red­di­to da lavo­ro, ovve­ro il com­pen­so per l’attività lavo­ra­ti­va che va distin­to dai red­di­ti da capi­ta­le (inclu­si quel­li immo­bi­lia­ri) e gli altri red­di­ti. Tale dif­fe­ren­zia­zio­ne, peral­tro, spie­ga in par­te alcu­ne dif­fe­ren­ze nel­le ten­den­ze ed evi­den­za l’importanza del­le politiche.

Il red­di­to da lavo­ro è for­te­men­te spe­re­qua­to, anche se meno di quan­to si pen­si, per lar­ghe fasce di lavo­ra­to­ri. In gene­ra­le, in Ita­lia, il red­di­to da lavo­ro – a pari­tà di qua­li­fi­ca e set­to­re – è infe­rio­re a quel­lo di altri pae­si euro­pei. Sono i sala­ri dei lavo­ra­to­ri meno qua­li­fi­ca­ti, in tut­ti i set­to­ri, che negli ulti­mi decen­ni sono rima­sti fer­mi e in talu­ni casi a livel­li «da fame» (dan­do ori­gi­ne al feno­me­no dei lavo­ra­to­ri il cui livel­lo di spe­sa è sot­to la soglia di pover­tà). Ma anche tra i lavo­ra­to­ri qua­li­fi­ca­ti sala­ri e sti­pen­di sono rima­sti infe­rio­ri a quel­li omo­lo­ghi di altri pae­si. Mol­to alti sono i com­pen­si – in busta paga o fuo­ri busta, in bene­fit o in natu­ra – di mana­ger e diri­gen­ti, che però rap­pre­sen­ta­no una quo­ta mol­ta bas­sa tra i lavo­ra­to­ri. La disu­gua­glian­za nel red­di­to da lavo­ro è dun­que mol­to alta e lo è da diver­si anni. Lega­to al tema del red­di­to da lavo­ro c’è quel­lo dei con­tri­bu­ti, del pre­lie­vo e dei tra­sfe­ri­men­ti, che van­no a com­por­re il cosid­det­to cuneo fisca­le, il qua­le è note­vol­men­te alto, in Italia.

Il red­di­to di mer­ca­to com­pren­de il red­di­to da lavo­ro e tut­te le altre for­me di retri­bu­zio­ne e red­di­to. Ed è ciò che si cal­co­la «pri­ma» di aver con­si­de­ra­to tas­se e tra­sfe­ri­men­ti, al net­to dei con­tri­bu­ti. Il red­di­to di mer­ca­to è cre­sciu­to in Ita­lia, soprat­tut­to per quan­to riguar­da i red­di­ti da capi­ta­le – finan­zia­ri, ma anche da pro­prie­tà immo­bi­lia­re – e gli altri red­di­ti. Ed è cre­sciu­to soprat­tut­to per alcu­ne cate­go­rie di per­cet­to­ri e per i lavo­ra­to­ri più qua­li­fi­ca­ti. L’indice di disu­gua­glian­za del red­di­to di mer­ca­to è mol­to mag­gio­re del cor­ri­spet­ti­vo indi­ce del red­di­to dispo­ni­bi­le: ciò gra­zie al fat­to che pre­lie­vi, tra­sfe­ri­men­ti e sus­si­di agi­sco­no in modo da ridur­re le disuguaglianze.

Fino a pri­ma del­la pan­de­mia, l’Italia ave­va un indi­ce di disu­gua­glian­za del red­di­to dispo­ni­bi­le tra più alti in Euro­pa ma comun­que attor­no a un valo­re di 32,5%, che si può defi­ni­re mode­ra­ta­men­te alto. L’indice di disu­gua­glian­za del red­di­to di mer­ca­to, vice­ver­sa, ave­va rag­giun­to, già nel 2005, un valo­re vici­no a 52%, supe­ra­to di poco e di recen­te solo da Gran Bre­ta­gna e Sta­ti Uni­ti, mol­to mag­gio­re del valo­re del 1985, vici­no al 38%. In nes­sun altro pae­se com­pa­ra­bi­le l’indice ha avu­to un anda­men­to tale, che mostra come la disu­gua­glian­za sia note­vol­men­te peg­gio­ra­ta. Le poli­ti­che redi­stri­bu­ti­ve e fisca­li han­no quin­di avu­to l’effetto di ridur­re le disu­gua­glian­ze anche se non a suf­fi­cien­za. In Ita­lia, come in GB e USA, alle fasce di per­cet­to­ri di red­di­ti alti van­no anco­ra le mag­gio­ri quo­te di red­di­to, più che in Fran­cia, Ger­ma­nia o nei pae­si scan­di­na­vi (ma anche più che in Spa­gna e Portogallo).

Tra le cau­se alle ori­gi­ni del­le dispa­ri­tà di red­di­to da lavo­ro e di mer­ca­to ci sono le varie «seg­men­ta­zio­ni» del mer­ca­to del lavo­ro. In mol­ti set­to­ri le remu­ne­ra­zio­ni sono rego­la­te da bar­rie­re all’entrata e poli­ti­che «cor­po­ra­ti­ve», la con­cor­ren­za è scar­sa, la sca­la remu­ne­ra­ti­va è ripi­da e rigi­da. La sca­la del­le remu­ne­ra­zio­ni, tra set­to­ri, non pre­mia poi a suf­fi­cien­za le qua­li­fi­che medie e medio-alte, men­tre si fa più discri­mi­nan­te nel­le qua­li­fi­che alte. Tra le qua­li­fi­che bas­se, la con­cor­ren­za è mol­to mag­gio­re, e la doman­da di lavo­ro bene­fi­cia dell’eccesso di offer­ta sul mer­ca­to del lavo­ro, non­ché del­la «mano libe­ra» lascia­ta alle impre­se che in que­sti anni sono sta­te in gra­do di man­te­ne­re i livel­li di sala­rio vici­ni a quel­lo che un tem­po si sareb­be defi­ni­to «di sus­si­sten­za». Che le disu­gua­glian­ze ven­ga­no tenu­te sot­to con­trol­lo dai tra­sfe­ri­men­ti socia­li (pen­sio­ni e sus­si­di) più che dal­le impo­ste mostra, però, la debo­lez­za del­le poli­ti­che fisca­li nell’affrontare il tema del­le disuguaglianze.

Sul red­di­to tota­le, i red­di­ti da lavo­ro sono costan­te­men­te dimi­nui­ti (l’incidenza del red­di­to da lavo­ro dipen­den­te è sce­sa in 30 anni, a gran­di linee, dal 50 al 40%, quel­la del red­di­to da lavo­ro auto­no­mo dal 16 al 12%) men­tre sono aumen­ta­ti i red­di­ti da capi­ta­le (dal 15% a più del 20%) e gli altri red­di­ti come le pen­sio­ni (dal 20 al 28%). Essen­do le pen­sio­ni pri­ma­ria­men­te rice­vu­te dai per­cet­to­ri di red­di­to bas­so, ciò ha favo­ri­to una mino­re disu­gua­glian­za del red­di­to dispo­ni­bi­le rispet­to al red­di­to di mercato.

Le disu­gua­glian­ze illu­stra­te por­ta­no ad evi­den­zia­re due distin­ti aspet­ti e pro­ble­mi: da un lato, la gra­ve inci­den­za del­la pover­tà, ovve­ro di un livel­lo di red­di­to infe­rio­re ad una soglia cor­ri­spon­den­te a un teno­re di vita «digni­to­so»; dall’altro la per­si­sten­za di una bas­sa mobi­li­tà socia­le, che si riflet­te nel­la per­si­sten­za del­le disu­gua­glian­ze tra le gene­ra­zio­ni e fasce socia­li e nei «per­cor­si di vita» degli individui.

I bas­si livel­li di sala­rio e, più in gene­ra­le, di red­di­to, han­no por­ta­to a un aumen­to del­la quo­ta di fami­glie e indi­vi­dui in con­di­zio­ni di indi­gen­za o vul­ne­ra­bi­li­tà (anche pri­ma del­la pandemia).

A livel­lo pro­po­si­ti­vo occor­re­reb­be con­si­de­ra­re che:

1. L’i­ni­qui­tà fisca­le è una del­le gran­di que­stio­ni di poli­cy che afflig­ge l’I­ta­lia, come mol­ti pae­si. La tas­sa­zio­ne sul red­di­to andreb­be resa più pro­gres­si­va, non meno. Per­ché ridur­re il nume­ro di ali­quo­te? Per­ché ridur­re le ali­quo­te sui red­di­ti alti? Sono i red­di­ti altis­si­mi a gode­re di gran­di van­tag­gi e que­sti andreb­be­ro tas­sa­ti (l’a­li­quo­ta mar­gi­na­le più alta negli Sta­ti Uni­ti di Roo­se­velt fu anche dell’83%, e non era uno sta­to socia­li­sta…). Le ali­quo­te sui red­di­ti bas­si e mol­to bas­si, inve­ce, andreb­be­ro ridotte.

2. Si gri­da sem­pre allo scan­da­lo quan­do si par­la di “tas­sa patri­mo­nia­le”. Cosa si inten­de? Se si par­la di patri­mo­nio immo­bi­lia­re, ad esem­pio, non dovreb­be esse­re mol­to dif­fi­ci­le intro­dur­re una tas­sa­zio­ne per nume­ro di immo­bi­li pos­se­du­ti: zero sul pri­mo immo­bi­le, 0,1% sul secon­do, 0,2% al ter­zo, e via dicen­do. In Ita­lia, se è vero che mol­te fami­glie pos­sie­do­no l’im­mo­bi­le dove abi­ta­no, ve n’è una cer­ta quo­ta che ha la “casa di vil­leg­gia­tu­ra” (maga­ri ere­di­ta­ta dai geni­to­ri che se la fece­ro negli anni del “boom”). Ma quel­li che han­no tre o più immo­bi­li sono inve­ce una esi­gua mino­ran­za. Tas­sa­re que­gli immo­bi­li non dovreb­be far gri­da­re allo scan­da­lo (soprat­tut­to, non dovreb­be gri­da­re allo scan­da­lo la mag­gio­ran­za degli ita­lia­ni…). Se gri­da­no allo scan­da­lo i gran­di pos­si­den­ti, lascia­mo­li gridare.

3. Scan­da­lo­so, inve­ce, è che la tas­sa­zio­ne sui red­di­ti da capi­ta­le sia così più bas­sa di quel­la sui red­di­ti da lavo­ro. Vero è che, in que­sto caso, non si può non con­cer­ta­re le ali­quo­te con gli altri pae­si euro­pei (il capi­ta­le, più del lavo­ro, non cono­sce fron­tie­re). Ma già l’I­ta­lia ha ali­quo­te infe­rio­ri, for­se per attrar­re inve­sti­men­ti. Ma il fat­to è che il nostro mer­ca­to finan­zia­rio è comun­que asfit­ti­co e deve esse­re l’e­co­no­mia rea­le a tira­re, non quel­la finan­zia­ria. La tas­sa­zio­ne sui red­di­ti da capi­ta­le e sul­le plu­sva­len­ze (vero rega­lo alla spe­cu­la­zio­ne) va aumen­ta­ta e uno sfor­zo va fat­to in Euro­pa per­ché sia con­cer­ta­ta ver­so l’alto. 

Economia fondamentale

Ben­ché non sia­mo atten­ti a rico­no­scer­ne gior­no per gior­no l’importanza, ci sono beni e ser­vi­zi di cui nes­sun cit­ta­di­no può fare a meno, deci­si­vi per il benes­se­re e per la coe­sio­ne socia­le. Essi fan­no capo ad atti­vi­tà eco­no­mi­che tan­to impor­tan­ti quan­to tra­scu­ra­te dall’attenzione pub­bli­ca: un com­ples­so di set­to­ri eco­no­mi­ci che si pos­so­no desi­gna­re come eco­no­mia fondamentale.

L’economia fon­da­men­ta­le non inclu­de sol­tan­to il wel­fa­re – sani­tà, ser­vi­zi di cura, istru­zio­ne, pre­vi­den­za – ma anche altre atti­vi­tà meno osser­va­te e meno cele­bra­te: la pro­du­zio­ne e la distri­bu­zio­ne ali­men­ta­re, la distri­bu­zio­ne dell’acqua, del gas e del­le ener­gie, i ser­vi­zi di fogna­tu­ra, il trat­ta­men­to dei rifiu­ti, i tra­spor­ti pub­bli­ci, le infra­strut­tu­re stra­da­li, le tele­co­mu­ni­ca­zio­ni, l’edilizia resi­den­zia­le, i ser­vi­zi ban­ca­ri di prossimità.

Di eco­no­mia fon­da­men­ta­le si vive, in un dupli­ce sen­so. Da un lato, essa sod­di­sfa le neces­si­tà quo­ti­dia­ne di tut­ti: la doman­da di beni e ser­vi­zi fon­da­men­ta­li è rela­ti­va­men­te ane­la­sti­ca e indi­pen­den­te dal red­di­to. Dall’altro, è uno spa­zio eco­no­mi­co che offre impie­go e red­di­to a un gran nume­ro di per­so­ne – cir­ca il 40% del­la for­za-lavo­ro, su sca­la euro­pea – con un ven­ta­glio di com­pe­ten­ze straor­di­na­rio per varie­tà e qualità.

L’economia fon­da­men­ta­le garan­ti­sce giu­sti­zia socia­le e sta­bi­li­tà eco­no­mi­ca. Se aumen­ta il livel­lo dei red­di­ti e dei patri­mo­ni, ma le scuo­le e i tra­spor­ti pub­bli­ci peg­gio­ra­no, cre­sce l’opulenza di pochi e dila­ga la pover­tà pub­bli­ca. Al con­tra­rio, pro­dur­re e ren­de­re frui­bi­li beni e ser­vi­zi di pub­bli­co acces­so – come scuo­le, ospe­da­li, biblio­te­che – ali­men­ta il benes­se­re col­let­ti­vo e met­te la vita eco­no­mi­ca al ripa­ro dal­la volu­bi­li­tà dei con­su­mi. Inol­tre, l’economia fon­da­men­ta­le è l’indispensabile pre­sup­po­sto del­la coe­sio­ne socia­le e ter­ri­to­ria­le. Le gran­di infra­strut­tu­re al ser­vi­zio del­la vita quo­ti­dia­na non sono sem­pli­ce­men­te insie­mi di beni: sono mec­ca­ni­smi che con­sen­to­no di muo­ve­re cose e per­so­ne, otte­ne­re ser­vi­zi e beni, far cir­co­la­re infor­ma­zio­ni. Sono la base per la costru­zio­ne di un ter­ri­to­rio e di una socie­tà con­nes­si e coesi.

Negli ulti­mi tre decen­ni l’economia fon­da­men­ta­le è sta­ta pro­fon­da­men­te tra­sfor­ma­ta: la sua capa­ci­tà di garan­ti­re benes­se­re per tut­ti e di raf­for­za­re la coe­sio­ne ter­ri­to­ria­le è sta­ta mor­ti­fi­ca­ta. Da un lato, essa è rima­sta vit­ti­ma dei tagli linea­ri del regi­me di auste­ri­ty, che l’hanno inde­bo­li­ta sot­to il pro­fi­lo del­la quan­ti­tà, del­la qua­li­tà e dell’articolazione ter­ri­to­ria­le. Dall’altro – soprat­tut­to a segui­to del­la pri­va­tiz­za­zio­ne di mol­ti set­to­ri e del­la dif­fu­sio­ne dell’outsourcing – è diven­ta­ta un ambi­to nel qua­le atto­ri eco­no­mi­ci pri­va­ti per­se­guo­no l’estrazione di ren­di­ta e la rea­liz­za­zio­ne di alti pro­fit­ti nel bre­ve perio­do. Intrin­se­ca­men­te ina­dat­te a pro­dur­re alti ren­di­men­ti, mol­te atti­vi­tà fon­da­men­ta­li sono sta­te rein­ter­pre­ta­te come aree di busi­ness alta­men­te remu­ne­ra­ti­ve per azio­ni­sti e investitori.

Pri­va­tiz­za­zio­ni, outsour­cing e tagli linea­ri han­no por­ta­to disor­ga­niz­za­zio­ne e fra­gi­li­tà all’economia del­la vita quo­ti­dia­na. Alcu­ne aree di atti­vi­tà, come i ser­vi­zi di cura, sono dive­nu­te qua­si-mer­ca­ti, in cui la remu­ne­ra­zio­ne del­le impre­se fa leva su sala­ri e con­di­zio­ni di lavo­ro, in pro­gres­si­vo peg­gio­ra­men­to. Altre, come la rete auto­stra­da­le – affi­da­te a un ceto impren­di­to­ria­le che pro­met­te­va gran­di capa­ci­tà gestio­na­li – sono dive­nu­te baci­ni di estra­zio­ne di ren­di­ta. Altre anco­ra, come il ser­vi­zio posta­le e quel­lo fer­ro­via­rio, met­to­no a valo­re gran­di ere­di­tà pub­bli­che (e non di rado flus­si di dena­ro pub­bli­co) in stra­te­gie di red­di­ti­vi­tà, nel­le qua­li l’imperativo del­la ridu­zio­ne dei costi ero­de il patri­mo­nio ere­di­ta­to – si pen­si alle sta­zio­ni e agli uffi­ci posta­li dismes­si – e indu­ce disin­ve­sti­men­ti nel­le aree di minor pro­fit­ta­bi­li­tà, che di ser­vi­zi essen­zia­li han­no mag­gior bisogno.

Le con­se­guen­ze di que­sta tra­sfor­ma­zio­ne sono chiare:

- Innan­zi­tut­to, si pro­du­ce un siste­ma­ti­co aumen­to dei costi di acces­so a beni e ser­vi­zi fon­da­men­ta­li. Secon­do dati Feder­con­su­ma­to­ri (da Istat), fra il 2006 e il 2016 il costo del­la mag­gior par­te dei beni e dei ser­vi­zi essen­zia­li è aumen­ta­to mol­to più dell’inflazione (15,7%): l’energia elet­tri­ca del 24,4%, i ser­vi­zi posta­li del 41,5%, i tra­spor­ti urba­ni del 29,5%, i pedag­gi e i par­cheg­gi del 42,5%, i tra­spor­ti fer­ro­via­ri del 46,2%, la rac­col­ta dei rifiu­ti del 52,1%, l’acqua pota­bi­le del 89,2%. Que­sti aumen­ti agi­sco­no come una tas­sa­zio­ne regres­si­va, poi­ché le fami­glie più pove­re spen­do­no per beni e ser­vi­zi essen­zia­li una quo­ta più alta di red­di­to rispet­to alle fami­glie più benestanti.

-  In secon­do luo­go, si aggra­va­no i diva­ri ter­ri­to­ria­li. Da un lato, le ingiun­zio­ni dell’austerity tro­va­no più age­vo­le appli­ca­zio­ne nei con­te­sti mar­gi­na­li: aree mon­ta­ne e rura­li, aree inter­ne, Mez­zo­gior­no. Dall’altro, le impre­se ten­do­no a ridur­re l’offerta di beni e ser­vi­zi nel­le aree mar­gi­na­li, che sono quel­le che ne han­no più biso­gno ma assi­cu­ra­no una mino­re red­di­ti­vi­tà. Que­sto avvie­ne anche nel­le infra­strut­tu­re deci­si­ve per la coe­sio­ne ter­ri­to­ria­le, come nel set­to­re posta­le e fer­ro­via­rio. Nel pri­mo, la ricer­ca di red­di­ti­vi­tà ha por­ta­to fra il 2011 e il 2021 ha por­ta­to alla chiu­su­ra di 1.244 uffi­ci posta­li (cir­ca il 10% del tota­le) (Fon­te: Poste Ita­lia­ne, bilan­cio). Nel­le fer­ro­vie, l’offerta è aumen­ta­ta solo nel­le trat­te ad alta velo­ci­tà, limi­ta­te a poche diret­tri­ci, dimi­nuen­do nel­le altre (ad es., per i con­vo­gli a lun­ga per­cor­ren­za finan­zia­ti con il con­tri­bu­to pub­bli­co, prin­ci­pal­men­te gli Inter­ci­ty, l’offerta in ter­mi­ni di treni/km è sce­sa dal 2010 al 2019 del 16,7%); e resta uno spa­ven­to­so diva­rio nel tra­spor­to regio­na­le (ad es., le cor­se dei tre­ni regio­na­li in tut­ta la Sici­lia sono, ogni gior­no, 494 con­tro le 2.150 del­la Lom­bar­dia) (fon­te: Legam­bien­te, Rap­por­to Pen­do­la­ria 2022).

- In ter­zo luo­go, l’economia fon­da­men­ta­le vie­ne por­ta­ta a fal­li­men­ti fun­zio­na­li: fal­li­men­ti ordi­na­ri, come la ves­sa­zio­ne dei pen­do­la­ri nel­le aree metro­po­li­ta­ne; fal­li­men­ti straor­di­na­ri e talo­ra cata­stro­fi­ci, come il disa­stro del Pon­te Moran­di; fal­li­men­ti siste­mi­ci, come lo sta­to di emer­gen­za pro­dot­to dal­la pan­de­mia da SARS-CoV‑2 in un siste­ma sani­ta­rio ero­so da tagli linea­ri, pri­va­tiz­za­zio­ni ed ester­na­liz­za­zio­ni, e da una regio­na­liz­za­zio­ne che l’ha reso meno governabile.

La rico­stru­zio­ne di coe­sio­ne socia­le e di un benes­se­re dif­fu­so, in Ita­lia, pas­sa neces­sa­ria­men­te attra­ver­so un rin­no­va­men­to pro­fon­do di mol­ti set­to­ri eco­no­mi­ci fon­da­men­ta­li. Il ritor­no alla gestio­ne pub­bli­ca, di per sé, non sareb­be neces­sa­ria­men­te riso­lu­ti­vo, né è suf­fi­cien­te un’iniezione di dena­ro pub­bli­co per inve­sti­men­ti infra­strut­tu­ra­li (si pen­si anco­ra al caso del­le fer­ro­vie: una vol­ta che saran­no sta­te rea­liz­za­te nuo­ve infra­strut­tu­re per l’alta velo­ci­tà nel Sud, le impre­se di tra­spor­to le popo­le­ran­no di tre­ni o le lasce­ran­no deserte?).

Occor­ro­no dun­que nuo­ve rego­le, che assi­cu­ri­no che l’economia fon­da­men­ta­le – sia essa gesti­ta dal­la mano pub­bli­ca o da pri­va­ti – rispon­da a un prin­ci­pio di licen­za socia­le, ovve­ro sia vin­co­la­ta pri­ma­ria­men­te alle sue fina­li­tà di ripro­du­zio­ne del benes­se­re col­let­ti­vo. Essa può esse­re lo spa­zio di spe­ri­men­ta­zio­ne di for­me inno­va­ti­ve di demo­cra­zia eco­no­mi­ca, come i Con­si­gli del Lavo­ro e del­la Cit­ta­di­nan­za pre­fi­gu­ra­ti dal Forum Disu­gua­glian­ze e Diver­si­tà, in gra­do di accor­da­re i prin­ci­pi di giu­sti­zia del cit­ta­di­no in quan­to utente/consumatore e del cit­ta­di­no in quan­to lavo­ra­to­re. L’economia fon­da­men­ta­le non può fare affi­da­men­to sul filan­tro­pi­smo pri­va­to e sul­la “finan­za socia­le”, entram­bi lega­ti ad agen­de pro­prie­ta­rie e a pro­pri ter­ri­to­ri di rife­ri­men­to. Neces­si­ta, inve­ce, di un siste­ma fisca­le for­te­men­te pro­gres­si­vo, che disin­cen­ti­vi anche l’accumulazione di ren­di­te e patrimoni.

Anche l’auto-organizzazione eco­no­mi­ca, il mutua­li­smo e l’azione socia­le diret­ta del­le comu­ni­tà loca­li sono essen­zia­li moto­ri di inno­va­zio­ne nel­lo spa­zio dell’economia fon­da­men­ta­le. Atti­vi­tà come la pro­du­zio­ne e distri­bu­zio­ne ali­men­ta­re, la pro­du­zio­ne e distri­bu­zio­ne di ener­gia, la distri­bu­zio­ne dell’acqua, l’assistenza a bam­bi­ni e anzia­ni, pos­so­no esse­re in par­te rior­ga­niz­za­te entro for­me di coo­pe­ra­ti­vi­smo ter­ri­to­ria­le e comunitario.

L’economia fon­da­men­ta­le neces­si­ta quin­di di esse­re ripen­sa­ta set­to­re per set­to­re, indi­vi­duan­do stru­men­ti di finan­zia­men­to fisca­le pere­qua­ti­vi, rego­le di gestio­ne che la met­ta­no al ripa­ro dall’estrazione di ren­di­ta e di extra-pro­fit­ti, for­me di atti­va­zio­ne ter­ri­to­ria­le che – soprat­tut­to nel­le aree inter­ne – la valo­riz­zi­no come baci­no di innovazione.

Meritocrazia

L’Italia è una Repub­bli­ca demo­cra­ti­ca fon­da­ta sul lavo­ro. É, que­sto, il tan­to sem­pli­ce quan­to poten­te inci­pit del pri­mo arti­co­lo del­la Costi­tu­zio­ne Ita­lia­na. Ma che cosa signi­fi­ca fon­da­re una Repub­bli­ca sul­la demo­cra­zia e sul lavo­ro? Signi­fi­ca non solo che ogni cit­ta­di­no ha ugua­li dirit­ti e ugua­le pote­re di influen­za­re la cosa pub­bli­ca tra­mi­te il voto. Ma anche che nes­su­na con­di­zio­ne “di par­ten­za” o ere­di­ta­ta può deter­mi­na­re dif­fe­ren­ze nel­le oppor­tu­ni­tà di rea­liz­zar­si nel­la socie­tà: non un tito­lo nobi­lia­re, per esem­pio, ma nem­me­no le con­di­zio­ni eco­no­mi­che e socia­li del­la pro­pria fami­glia di ori­gi­ne. Il cri­te­rio di suc­ces­so è dato esclu­si­va­men­te dal pro­prio impe­gno e dal­le pro­prie abilità.

Una socie­tà che si basa su que­sti prin­ci­pi è sta­ta da mol­ti descrit­ta come una socie­tà “meri­to­cra­ti­ca”, cioè defi­ni­ta, nel­la sua strut­tu­ra, dal meri­to dei suoi com­po­nen­ti. Non solo una col­let­ti­vi­tà così rego­la­ta é più effi­cien­te e pro­spe­ra, per­ché con­sen­te a chi più ha talen­to e volon­tà di emer­ge­re e, così facen­do, di crea­re valo­re per sé e per gli altri; ma è anche una socie­tà più giu­sta ed equa, per­ché talen­to e volon­tà sono inna­ti, e chiun­que, indi­pen­den­ti dai quar­ti di san­gue blu o del patri­mo­nio dei suoi avi, nep­pu­re può esse­re dotato.

Ma é pro­prio vero che la meri­to­cra­zia, così inte­sa, garan­ti­sce ugua­glian­za di oppor­tu­ni­tà? E come si con­ci­lia, que­sta idea, con l’aumento del­le disu­gua­glian­ze, e la ridu­zio­ne del­la mobi­li­tà socia­le, negli ulti­mi quarant’anni?

Alcu­ne carat­te­ri­sti­che del­le tec­no­lo­gie che più carat­te­riz­za­no la socie­tà con­tem­po­ra­nea, e che nel­la nar­ra­zio­ne domi­nan­te avreb­be­ro reso il mon­do più “piat­to” e meno gerar­chi­co e pro­mos­so una genui­na meri­to­cra­zia, si sono inve­ce rive­la­te come vet­to­ri di vera ingiu­sti­zia socia­le. La rivo­lu­zio­ne digi­ta­le ha por­ta­to, in par­ti­co­la­re, a una pola­riz­za­zio­ne del mer­ca­to del lavo­ro. Le nuo­ve tec­no­lo­gie pre­mia­no le pro­fes­sio­ni ad alto con­te­nu­to intel­let­tua­le, rispar­mia­mo lavo­ri a bas­so valo­re aggiun­to (e quin­di bas­si sala­ri) come i ser­vi­zi alla per­so­na, e pena­liz­za­no, tra­mi­te l’automazione, atti­vi­tà come quel­le mani­fat­tu­rie­re e dei ser­vi­zi di uffi­cio, dal com­mer­cio al set­to­re ban­ca­rio, che sto­ri­ca­men­te non richie­de­va­no alti livel­li edu­ca­ti­vi ma garan­ti­va­no buo­ni sala­ri e con­di­zio­ni di lavoro.

In que­sto sce­na­rio, un’educazione sco­la­sti­ca di “eccel­len­za” diven­ta quin­di sem­pre più impor­tan­te per rea­liz­zar­si pro­fes­sio­nal­men­te. Le fami­glie che pos­so­no per­met­ter­se­lo han­no di con­se­guen­za incen­ti­vi ad avvia­re i loro figli ver­so scuo­le più pre­sti­gio­se, ad esem­pio licei e uni­ver­si­tà pri­va­ti, maga­ri anche all’estero. Ma le fami­glie non si fer­ma­no alla pre­pa­ra­zio­ne sco­la­sti­ca. La cono­scen­za del­le lin­gue, i viag­gi, le atti­vi­tà extra­cur­ri­co­la­ri, e poi perio­di di tiro­ci­nio e lavo­ro in azien­da o stu­di pro­fes­sio­na­li diven­ta­no altri stru­men­ti per svi­lup­pa­re abi­li­tà cogni­ti­ve ma anche la capa­ci­tà di lavo­ra­re in grup­po, par­la­re in pub­bli­co e gesti­re rela­zio­ni. Insom­ma, inve­ce di sta­bi­li­re un cri­te­rio e una “nar­ra­zio­ne” diver­sa, demo­cra­ti­ca, sull’uguaglianza di oppor­tu­ni­tà, nel­la socie­tà con­tem­po­ra­nea le dina­mi­che eco­no­mi­che e tec­no­lo­gi­che fini­sco­no per decli­na­re la meri­to­cra­zia in ter­mi­ni mol­to più simi­li ai cri­te­ri di stra­ti­fi­ca­zio­ne eco­no­mi­ca e socia­le del pas­sa­to, quel­li basa­ti sul san­gue e sul censo.

A dif­fe­ren­za dei dirit­ti di san­gue o di cen­so tut­ta­via, come sot­to­li­nea il giu­ri­sta Daniel Mar­co­vi­ts, tut­te le atti­vi­tà e i mez­zi che le fami­glie bene­stan­ti impie­ga­no per dare un van­tag­gio ai pro­pri figli richie­do­no un gran­de impe­gno: i geni­to­ri devo­no lavo­ra­re di più per copri­re le spe­se di tut­te que­ste atti­vi­tà, e devo­no impie­ga­re più tem­po per segui­re i loro ragaz­zi. Si crea quin­di un cir­co­lo vizio­so, o una trap­po­la, come la chia­ma lo stes­so Mar­co­vi­ts, per cui il con­cet­to di meri­to­cra­zia assu­me con­no­ta­zio­ni for­te­men­te con­ser­va­tri­ci: se qual­cu­no ha più suc­ces­so nel­la vita, evi­den­te­men­te se lo è meri­ta­to con tan­to lavo­ro e talent, per­tan­to la strut­tu­ra socia­le esi­sten­te in un regi­me meri­to­cra­ti­co è sem­pre quel­la otti­ma­le e più “giu­sta”. Si trat­ta ovvia­men­te di una fal­la­cia, con­si­de­ra­ti i mec­ca­ni­smi cumu­la­ti­vi qui descrit­ti, che par­ten­do da con­di­zio­ni di par­ten­za dif­fe­ren­ti, ten­do­no addi­rit­tu­ra ad amplia­re le dise­gua­glian­ze nel tem­po. I dati sul­la ridot­ta mobi­li­tà socia­le a fron­te di cre­scen­te disu­gua­glian­za ce lo con­fer­ma­no. Così come la cre­scen­te evi­den­za che l’accesso alle miglio­ri scuo­le, ai lavo­ri meglio remu­ne­ra­ti, ma anche le oppor­tu­ni­tà di eccel­le­re nel­le scien­ze sono sem­pre più appan­nag­gio di chi pro­vie­ne da una con­di­zio­ne socioe­co­no­mi­ca di par­ten­za più agiata.

In un video che Kama­la Har­ris ha pub­bli­ca­to pochi gior­ni pri­ma del­le ele­zio­ni pre­si­den­zia­li ame­ri­ca­ne nel 2020, la futu­ra vice­pre­si­den­te descri­ve la dif­fe­ren­za tra ugua­glian­za ed equi­tà. Secon­do Har­ris, il prin­ci­pio di ugua­glian­za, inte­sa come pari­tà dei pun­ti di par­ten­za, non è più suf­fi­cien­te per garan­ti­re effet­ti­ve pari oppor­tu­ni­tà. Biso­gna inve­ce rico­no­sce­re che cer­te dispa­ri­tà – di con­di­zio­ne eco­no­mi­ca, ma anche di gene­re o raz­za – sono ormai così radi­ca­te che un’agenda pro­gres­si­sta deve anda­re oltre, e pro­muo­ve­re piut­to­sto l’equità attra­ver­so inter­ven­ti anche dif­fe­ren­zia­ti. Sen­za arri­va­re all’egalitarismo, c’é ampio spa­zio, e oggi con meno imba­raz­zo di trent’anni fa, per soste­ne­re poli­ti­che che accom­pa­gni­no le per­so­ne oltre il pun­to di par­ten­za per garan­ti­re loro ade­gua­te pos­si­bi­li­tà future.

Ambiente

Nel­la cul­tu­ra domi­nan­te, soprat­tut­to in Ita­lia, l’am­bien­te appa­re come un set­to­re accan­to agli altri, l’e­co­no­mia, il lavo­ro, i ser­vi­zi, ecc. Non più che un ambi­to con par­ti­co­la­ri pro­ble­mi su cui il pote­re pub­bli­co è chia­ma­to a inter­ve­ni­re con spe­ci­fi­ci prov­ve­di­men­ti. Quan­do lo sguar­do si fa più lar­go i dan­ni che pati­sce il pia­ne­ta si esau­ri­sco­no nel riscal­da­men­to cli­ma­ti­co – cer­ta­men­te la più dram­ma­ti­ca del­le incom­ben­ze — a cui tut­ta­via si può por­re rime­dio tra­mi­te l’in­no­va­zio­ne tec­no­lo­gi­ca, ricor­ren­do a nuo­ve fon­ti di ener­gia. Que­sta è ad es. la filo­so­fia del PNRR. Come se tut­te le minac­ce da fron­teg­gia­re si potes­se­ro risol­ve­re cam­bian­do il car­bu­ran­te del­la nostra loco­mo­ti­va, quan­do l’o­ri­gi­ne di tut­ti gli squi­li­bri ambien­ta­li pre­sen­ti sono la loco­mo­ti­va stes­sa, cioè il siste­ma capi­ta­li­sti­co di pro­du­zio­ne e di con­su­mo. Occor­re per­ciò fare una con­si­de­ra­zio­ne sto­ri­ca. Per gran par­te del ‘900 i ceti domi­nan­ti dei Pae­si avan­za­ti sono riu­sci­ti ad occul­ta­re i dan­ni che lo svi­lup­po indu­stria­le pro­vo­ca­va al pia­ne­ta, facen­do spa­ri­re, per subli­ma­zio­ne ideo­lo­gi­ca, la natu­ra come una dimen­sio­ne fini­ta. Poi­ché lo svi­lup­po capi­ta­li­sti­co si svol­ge­va solo in Euro­pa, in USA e in Giap­po­ne, men­tre Asia, Afri­ca, Ocea­nia era­no solo ter­ri­to­ri del sac­cheg­gio colo­nia­le, la natu­ra pote­va anche appa­ri­re come un depo­si­to illi­mi­ta­to di risor­se. Ma con l’in­gres­so di que­sti con­ti­nen­ti nel­lo svi­lup­po, il pia­ne­ta è appar­so subi­to nel­la sua fini­tez­za e nel­la sua fragilità.

La con­si­de­ra­zio­ne sto­ri­ca non si fer­ma qui. Negli ulti­mi decen­ni, silen­zio­sa­men­te, è avve­nu­to un pas­sag­gio d’e­po­ca. La sto­ria degli uomi­ni che per mil­len­ni si è svol­ta come una ret­ta paral­le­la rispet­to all’e­vo­lu­zio­ne del­la Ter­ra, oggi l’ha qua­si inte­ra­men­te sot­to­mes­sa alla sua pres­sio­ne. Non c’è   atti­vi­tà uma­na che non inci­da diret­ta­men­te sul­le dina­mi­che com­ples­se di tut­to il pia­ne­ta. Il muta­men­to cli­ma­ti­co in atto ne costi­tui­sce la più poten­te cer­ti­fi­ca­zio­ne. Ma non è l’u­ni­ca fon­te di squi­li­bri che ci minac­cia­no, ben­ché sia­no oggi i più visi­bi­li.  Vale la pena ad ogni modo ram­men­ta­re i più rile­van­ti. Com’è noto, l’au­men­to medio del­le tem­pe­ra­tu­ra ha per effet­to lo scio­gli­men­to dei ghiac­ciai ai poli e sul­le mon­ta­gne e il con­se­guen­te innal­za­men­to del livel­lo dei mari, esta­ti sem­pre più tor­ri­de che ren­de­ran­no invi­vi­bi­li vaste zone del­la Ter­ra e spin­ge­ran­no le popo­la­zio­ni a emi­gra­re, feno­me­ni di sic­ci­tà pro­lun­ga­te e per­di­ta di ter­re fer­ti­li, tro­pi­ca­liz­za­zio­ne dei mari, con una varie­tà di con­se­guen­ze in par­te impre­ve­di­bi­li. Per com­pren­de­re cosa può com­por­ta­re uno solo di que­sti pro­ces­si nel­la real­tà ita­lia­na, lo scio­gli­men­to dei ghiac­ciai, basti pen­sa­re che la loro scom­par­sa dal­le cime del­le Alpi com­por­te­reb­be il dis­sec­ca­men­to o la dram­ma­ti­ca ridu­zio­ne del­le acque cor­ren­ti nel­la Pia­nu­ra pada­na. Ne deri­ve­reb­be­ro dan­ni incal­co­la­bi­li all’a­gri­col­tu­ra, alle indu­strie, agli alle­va­men­ti, alle pos­si­bi­li­tà di smal­ti­men­to dei reflui, ai biso­gni civi­li. Ma la pres­sio­ne antro­pi­ca non si limi­ta a pro­dur­re gas ser­ra. Pren­dia­mo il con­ti­nuo abbat­ti­men­to del­la Fore­sta Amaz­zo­ni­ca, e del­le altre fore­ste tro­pi­ca­li, per allar­ga­re l’a­rea degli alle­va­men­ti e ali­men­ta­re il com­mer­cio mon­dia­le del­le car­ni. Que­sta pra­ti­ca non com­por­ta solo la per­di­ta di pian­te seco­la­ri, ma anche il dis­sec­ca­men­to del­le sor­gen­ti che la fore­sta ali­men­ta­va, la ste­ri­liz­za­zio­ne del suo­lo denu­da­to, la distru­zio­ne di un patri­mo­nio incal­co­la­bi­le di bio­di­ver­si­tà vege­ta­le e ani­ma­le, l’au­men­to loca­le del­la tem­pe­ra­tu­ra e del­la sic­ci­tà, il veni­re meno di una fon­te vita­le di ossi­ge­no per la salu­te del­la biosfera.

Così acca­de per altre atti­vi­tà uma­ne. Lo sbar­ra­men­to dei fiu­mi non toglie solo acque ad alcu­ne popo­la­zio­ni, ma dis­sec­ca tan­te zone palu­stri, impe­di­sce il tra­spor­to di mate­ria­li alle foci lascian­do   le coste all’e­ro­sio­ne del mare. Un mare sem­pre più con­ta­mi­na­to non solo dai nostri rifiu­ti, ma anche dai vele­ni del­l’a­gri­col­tu­ra chi­mi­ca, sac­cheg­gia­to da una pesca sen­za limi­ti e sen­za regole.

Que­sto qua­dro di insie­me per indi­ca­re che i dan­ni subi­ti dal pia­ne­ta non sono risol­vi­bi­li con l’in­no­va­zio­ne tec­no­lo­gi­ca, cam­bian­do le fon­ti ener­ge­ti­che, ma richie­do­no uno sguar­do più radi­ca­le, per­ché sono dipen­den­ti dal­la pres­sio­ne eco­no­mi­ca glo­ba­le. Il cuo­re del pro­ble­ma con­si­ste nel fat­to che tut­ti i Pae­si, seguen­do una logi­ca capi­ta­li­sti­ca, non pro­du­co­no secon­do i biso­gni del­le pro­prie popo­la­zio­ni, ma com­pe­to­no in un ago­ne mon­dia­le, e dun­que sono spin­ti a pro­dur­re sem­pre di più, a divo­ra­re sem­pre più risor­se, accre­scen­do le mer­ci e gli scam­bi e dun­que lavo­ran­do tut­ti insie­me al sac­cheg­gio glo­ba­le del pia­ne­ta.  Eppu­re que­sta cor­sa illi­mi­ta­ta non avreb­be ragio­ne di esi­ste­re. Basti pen­sa­re che oggi fini­sco­no nei rifiu­ti 1 miliar­do e 300 milio­ni di ton­nel­la­te di cibo, suf­fi­cien­ti a sfa­ma­re 4 miliar­di di per­so­ne. Sul­la Ter­ra c’è abba­stan­za ric­chez­za da far vive­re bene tut­ti, baste­reb­be distri­buir­la più equa­men­te. Ma è l’or­di­ne mon­dia­le attua­le che por­ta a que­sto para­dos­so: si con­ti­nua a pro­dur­re e a con­su­ma­re oltre misu­ra come se la Ter­ra fos­se infi­ni­ta. Per­ciò il più gran­de peri­co­lo del nostro futu­ro non sono tan­to le cata­stro­fi loca­li, ma la guer­ra come stru­men­to per acca­par­rar­si le risor­se sem­pre più scar­se, il pas­sag­gio degli sta­ti dal­la com­pe­ti­zio­ne al con­flit­to arma­to. Occor­re inver­ti­re la rot­ta. I gover­ni devo­no incon­trar­si non solo per dimi­nui­re i gas ser­ra, ma per appro­da­re a un ordi­ne di coo­pe­ra­zio­ne glo­ba­le. La Ter­ra è la casa di tut­ti. E’ neces­sa­ria una nuo­va cul­tu­ra, che guar­di ad essa come a un eco­si­ste­ma, che rac­chiu­de altri eco­si­ste­mi: il mare, le fore­ste, il suo­lo, le cit­tà. Una nuo­va visio­ne che si pren­de cura del­le risor­se fini­te per tute­lar­le e rigenerarle.

Pro­po­ste.

1) Incen­ti­vi alle impre­se per­ché tra­sfor­mi­no i rifiu­ti orga­ni­ci in com­po­st, desti­na­to all’a­gri­col­tu­ra. Per seco­li i rifiu­ti e le deie­zio­ni urba­ne han­no rige­ne­ra­to la fer­ti­li­tà del suo­lo, oggi sono fon­te d’inquinamento.

2) Una poli­ti­ca di inva­si in cit­tà e cam­pa­gna che imma­gaz­zi­ni l’ac­qua pio­va­na inver­na­le per gli usi esti­vi, quan­do sarà scar­sa. Si limi­ta­no i dan­ni da allu­vio­ni, si cura una risor­sa fondamentale.

3) Dar vita alle “Bri­ga­te arbo­ri­co­le”, grup­pi di volon­ta­ri che di con­cer­to con i comu­ni pian­ta­no alber­ti, arbu­sti, orti, nel­le aree dismes­se del­la cit­tà, con­tra­stan­do la cementificazione.

Uno Stato dalla parte del Cittadino

Oggi­gior­no quan­do i cit­ta­di­ni pen­sa­no allo Sta­to spes­so han­no in men­te imma­gi­ni di pesan­te inef­fi­cien­za e spre­chi. Lo Sta­to è per­ce­pi­to come distan­te, cor­rot­to, inca­pa­ce, un’entità che si pre­sen­ta solo quan­do si trat­ta di riscuo­te­re le tas­se ma che è altri­men­ti ava­ra di ser­vi­zi e di aiu­ti spe­cie per i cit­ta­di­ni che più sof­fro­no. La sfi­du­cia nel­le isti­tu­zio­ni del­lo sta­to è ai mas­si­mi sto­ri­ci e ci sono otti­me ragio­ni per­ché sia così. Decen­ni di disin­ve­sti­men­ti nei ser­vi­zi pub­bli­ci ne han­no peg­gio­ra­to pesan­te­men­te la qua­li­tà ren­den­do­li una pal­li­da ombra di quel­lo che era­no un tem­po. Duran­te il decen­nio 2010 i tagli effet­tua­ti nel qua­dro del­le poli­ti­che di auste­ri­tà han­no ulte­rior­men­te peg­gio­ra­to la situa­zio­ne con chiu­su­re di ospe­da­li, ridu­zio­ne dei posti let­to, inse­gnan­ti pre­ca­riz­za­ti e ammi­ni­stra­zio­ne pub­bli­ca pri­va del per­so­na­le neces­sa­rio a garan­ti­re livel­li decen­ti di ser­vi­zio. La scuo­la, la sani­tà, le stra­de, la rete fer­ro­via­ria, gli uffi­ci pub­bli­ci, por­ta­no i segni dell’abbandono e dell’incuria. E per er quan­to la destra spes­so insi­sta con l’immagine di uno Sta­to sovra­di­men­sio­na­to in cui lavo­ra­no impie­ga­ti fan­nul­lo­ni, l’Italia è il pae­se euro­peo con il minor nume­ro di dipen­den­ti pub­bli­ci rispet­to al tota­le dei lavo­ra­to­ri, qua­si la metà rispet­to ai pae­si scandinavi.

 Ridur­re lo sta­to all’osso non ha dato libe­ro spa­zio all’iniziativa pri­va­ta e alla capa­ci­tà del­la socie­tà civi­le di risol­ve­re da sola i pro­pri pro­ble­mi. Al con­tra­rio ha pri­va­to la socie­tà di quel­le isti­tu­zio­ni essen­zia­li sen­za cui anche la sua atti­vi­tà spon­ta­nea diven­ta dif­fi­ci­le. Il Pia­no Nazio­na­le di Ripre­sa e Resi­lien­za pote­va esse­re una gran­de oppor­tu­ni­tà per affron­ta­re le caren­ze del­lo Sta­to, assu­me­re nuo­vo per­so­na­le e cura­re le gra­vi lacu­ne che gli impe­di­sco­no di esse­re uno stru­men­to effi­ca­ce al ser­vi­zio del­la socie­tà. Ma si è deci­so altri­men­ti, con con­trat­ti pre­ca­ri inve­ce di con­trat­ti sta­bi­li e affi­dan­do tan­ti pro­get­ti a appal­ti a com­pa­gnie private.

 Ades­so che ci sia­mo resi con­to che lo Sta­to non è neces­sa­ria­men­te un fre­no allo svi­lup­po del­la socie­tà e dell’economia ma può esse­re la sua neces­sa­ria impal­ca­tu­ra è neces­sa­rio costrui­re una visio­ne alter­na­ti­va del­lo Sta­to, uno Sta­to dal­la par­te del­le cit­ta­di­ne e dei cit­ta­di­ni, uno Sta­to che sia mez­zo di demo­cra­zia e stru­men­to del­la volon­tà popo­la­re; uno Sta­to che sia capa­ce di impor­re l’interesse con­tro l’interesse par­ti­co­la­re. Pri­ma di tut­to è neces­sa­rio dare for­za all’iniziativa pub­bli­ca con una cam­pa­gna straor­di­na­ria di arruo­la­men­to di dipen­den­ti pub­bli­ci per por­ta­re l’Italia sul­la media euro­pea. Sono neces­sa­ri 1 milio­ne di dipen­den­ti pub­bli­ci, nell’amministrazione, nel­la sani­tà, nell’educazione, per la cura dell’ambiente, per l’università e per la ricerca.

 In secon­do luo­go, è neces­sa­rio che lo Sta­to ritor­ni a inter­ve­ni­re atti­va­men­te nell’economia. Que­sto non signi­fi­ca sem­pli­ce­men­te che deve fare poli­ti­ca redi­stri­bu­ti­va tas­san­do i ric­chi e offren­do aiu­to ai pove­ri. Signi­fi­ca anche che lo Sta­to deve tor­na­re a fare pia­ni­fi­ca­zio­ne, dotar­si di agen­zie capa­ci di ana­liz­za­re in tem­po rea­le l’evoluzione dell’economia e in par­ti­co­la­re dei set­to­ri stra­te­gi­ci come l’energia, per pre­ve­ni­re emer­gen­ze e per dare rispo­ste rapi­de. Ma pure che biso­gna supe­ra­re il tabù del­la pro­prie­tà pub­bli­ca del­le impre­se come neces­sa­ria­men­te desti­na­ta all’inefficienza. La fase più pro­spe­ra dell’economia ita­lia­na è sta­ta segna­ta da un’economia mista in cui le impre­se sta­ta­li ave­va­no un ruo­lo cen­tra­le. Diver­si set­to­ri stra­te­gi­ci che per loro natu­ra sono mono­po­li natu­ra­li e dove spes­so è dif­fi­ci­le fare pro­fit­ti devo­no esse­re por­ta­ti sot­to con­trol­lo pub­bli­co: a par­ti­re dal set­to­re energetico.

Lo sta­to deve ripren­de­re con­trol­lo sull’economia eser­ci­tan­do il suo pote­re in tut­te le for­me pos­si­bi­li. Per­ché in diver­si casi è sta­to dimo­stra­to in manie­ra pale­se come non ci sono solu­zio­ni di mer­ca­to a tan­ti pro­ble­mi, a par­ti­re dal cam­bia­men­to cli­ma­ti­co su cui è neces­sa­rio che lo Sta­to si fac­cia por­ta­to­re di una pia­ni­fi­ca­zio­ne eco­lo­gi­ca. Ma anche per­ché se lo Sta­to non ha for­za ed è pura­men­te un ser­vo del mer­ca­to, non può esi­ste­re una vera demo­cra­zia in cui i desi­de­ri dei cit­ta­di­ni si con­cre­ta­no nel­la capa­ci­tà di inci­de­re sul­la socie­tà. Per decen­ni lo Sta­to è sta­to tra­sfor­ma­to pura­men­te in un mez­zo per difen­de­re il mer­ca­to dai suoi stes­si fal­li­men­ti e dal­la rab­bia del­la popo­la­zio­ne impo­ve­ri­ta. Ades­so deve tor­na­re a esse­re uno stru­men­to di demo­cra­zia, di liber­tà e di ugua­glian­za socia­le come pre­ve­de la Costituzione.

ECONOMIA E LAVORO

Occupazione pubblica

Il testo che segue si basa sul lavo­ro di un grup­po di stu­dio­si del­le Uni­ver­si­tà del Pie­mon­te Orien­ta­le e di Tori­no che da tem­po sta lavo­ran­do al pro­get­to di un pia­no straor­di­na­rio di assun­zio­ni nel­la Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne, dell’ordine di un milio­ne di uni­tà (in aggiun­ta a quel­le neces­sa­rie a garan­ti­re la sosti­tu­zio­ne di chi va in pen­sio­ne). Un milio­ne è un ordi­ne di gran­dez­za, ed è insuf­fi­cien­te a col­ma­re il diva­rio con i pae­si euro­pei evo­lu­ti; ma come vedre­mo è coe­ren­te con una for­ma di finan­zia­men­to sostan­zial­men­te pri­va di con­tro­in­di­ca­zio­ni eco­no­mi­che e politiche.

 Nes­su­na eco­no­mia può fun­zio­na­re bene Sen­za una Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne che fun­zio­ni bene, e nes­su­na ammi­ni­stra­zio­ne può fun­zio­na­re bene sen­za il per­so­na­le neces­sa­rio. I dati dispo­ni­bi­li indi­ca­no che in Ita­lia il per­so­na­le non è suf­fi­cien­te, e che la prin­ci­pa­le cau­sa del­la inef­fi­cien­za del­la nostra Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne è pro­prio la caren­za di per­so­na­le. Fra i 27 pae­si euro­pei per i qua­li esi­sto­no dati com­pa­ra­bi­li, l’Italia è quel­lo che ha il più alto rap­por­to fra popo­la­zio­ne e dipen­den­ti pub­bli­ci, 20,2 abi­tan­ti per dipen­den­te con­tro i –per esem­pio- 11,9 del­la Fran­cia e i 7,4 del­la Sve­zia. For­se sono più imme­dia­ta­men­te evi­den­ti le cifre asso­lu­te: la Fran­cia e il Regno Uni­to han­no cir­ca il 10% di abi­tan­ti più dell’Italia e rispet­ti­va­men­te 5.674.000 e 5.033.000 dipen­den­ti pub­bli­ci, vale a dire il 91,7% e il 70,1% in più dell’Italia (que­sto scar­to rima­ne se inve­ce di con­si­de­ra­re i pub­bli­ci dipen­den­ti in sen­so stret­to con­si­de­ria­mo gli addet­ti tota­li, pub­bli­ci e pri­va­ti, alla pro­du­zio­ne di ser­vi­zi pub­bli­ci, per tene­re con­to di diver­si regi­mi di ester­na­liz­za­zio­ne). Pos­sia­mo aspet­tar­ci che que­sto sot­to­di­men­sio­na­men­to sia alta­men­te cor­re­la­to alla sod­di­sfa­zio­ne dei cit­ta­di­ni nei con­fron­ti dell’amministrazione: e infat­ti fra i 27 pae­si cita­ti l’Italia è quel­lo dove la per­cen­tua­le di cit­ta­di­ni sod­di­sfat­ti è la più bas­sa: 22%, con­tro –per esem­pio- il 50% del­la Fran­cia e il 75% del­la Svezia.

Il sot­to­di­men­sio­na­men­to del­la Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne ha effet­ti nega­ti­vi che sono sot­to gli occhi di tut­ti, per quan­to riguar­da per esem­pio la sani­tà, l’assistenza e l’istruzione. Ma ha anche effet­ti meno visi­bi­li e altret­tan­to gra­vi. In Ita­lia la per­cen­tua­le di lau­rea­ti è fra le più bas­se fra i pae­si svi­lup­pa­ti, ma al tem­po stes­so il tas­so di inoc­cu­pa­zio­ne fra i lau­rea­ti è fra i più alti; e que­sto para­dos­so dipen­de pro­prio dal sot­to­di­men­sio­na­men­to del­la Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne, che in Euro­pa (e altro­ve) è tra­di­zio­nal­men­te e logi­ca­men­te il prin­ci­pa­le dato­re di lavo­ro dei lau­rea­ti, che  lavo­ra­no soprat­tut­to nei set­to­ri del­la sani­tà, dell’istruzione, del­la assi­sten­za, dell’amministrazione e anche (ma in Ita­lia in misu­ra insuf­fi­cien­te) del­la gestio­ne del ter­ri­to­rio. E’ sta­to sug­ge­ri­to che que­sto “para­dos­so dei lau­rea­ti” dipen­da dal fat­to che gli ita­lia­ni “si lau­rea­no nel­le mate­rie sba­glia­te”, ma que­sta ipo­te­si è smen­ti­ta dai dati. E que­sto, natu­ral­men­te è alla base di un enor­me flus­so in usci­ta di lau­rea­ti ver­so l’estero, che costi­tui­sce una per­di­ta mol­to seria per la cul­tu­ra e l’economia del nostro pae­se. Anco­ra, il nume­ro di inci­den­ti sul lavo­ro è in Ita­lia anor­mal­men­te alto, e ciò è evi­den­te­men­te da met­te­re in rela­zio­ne con le caren­ze di per­so­na­le degli ispettorati.

Ci sono con­se­guen­ze nega­ti­ve anco­ra più sot­ti­li e altret­tan­to gra­vi. Pos­sia­mo aspet­tar­ci che una Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne poco effi­cien­te costi­tui­sca un serio osta­co­lo alla cre­sci­ta del set­to­re pri­va­to dell’economia, e così è. Un inda­gi­ne con­dot­ta dal­la Ban­ca Mon­dia­le sugli osta­co­li alla nasci­ta di pic­co­le e medie impre­se ci comu­ni­ca che l’Italia è al 58° posto (su 190) a livel­lo mon­dia­le: die­tro di lei, in Euro­pa, ci sono solo Bul­ga­ria, Ucrai­na, Gre­cia e Alba­nia (oltre ai pic­co­li pae­si pro­te­zio­ni­sti: Lus­sem­bur­go, Mal­ta e San Mari­no). Pae­si come la Polo­nia (40°) o la Rus­sia (28°) sono mol­to più avan­ti di noi. Guar­dan­do i dati più in det­ta­glio sco­pria­mo che il ritar­do dell’Italia è dovu­to soprat­tut­to a pro­ble­mi con­nes­si alle pro­ce­du­re edi­li­zie (97° posto), alla dif­fi­col­tà ad otte­ne­re cre­di­to (119°), alla far­ra­gi­no­si­tà del­le pro­ce­du­re fisca­li (128°) ed alla dif­fi­col­tà a otte­ne­re il rispet­to dei con­trat­ti (122°). E’ mol­to pro­ba­bi­le che que­sti fat­to­ri di ritar­do sia­no for­te­men­te cor­re­la­ti alla inef­fi­cien­za del­la mac­chi­na ammi­ni­stra­ti­va, anche se non esclu­si­va­men­te deter­mi­na­ti da essa; e abbia­mo visto come que­sta inef­fi­cien­za dipen­da in pri­mis­si­mo luo­go dal­la caren­za di per­so­na­le. Per esem­pio, nel caso del­le con­ces­sio­ni edi­li­zie la man­can­za di un effi­ca­ce siste­ma di con­trol­lo a poste­rio­ri fa sì che le impre­se sia­no obbli­ga­te a pro­ce­du­re estre­ma­men­te com­ples­se vol­te a garan­ti­re a prio­ri (per quan­to pos­si­bi­le) che tut­te le nor­me sia­no rispettate.

Non biso­gna fare trop­po affi­da­men­to sul PNRR: esso inve­ste parec­chio (non mol­to: cir­ca 270 milio­ni all’anno in media per 6 anni) su alcu­ni prov­ve­di­men­ti di rifor­ma del­la Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne, in par­ti­co­la­re sul miglio­ra­men­to del­le tec­no­lo­gie ma non sul pun­to cru­cia­le dell’aumento dell’organico: il mini­stro Bru­net­ta ha par­la­to di 800.000 assun­zio­ni fino al 2026, ma più del 90% di esse andran­no a sosti­tui­re il per­so­na­le che si riti­re­rà. Pae­si come la Fran­cia e la Sve­zia sono sicu­ra­men­te più avan­ti  di noi per quan­to riguar­da la digi­ta­liz­za­zio­ne e la con­nes­sio­ne dei ser­vi­zi, ma cio­no­no­stan­te la loro ammi­ni­stra­zio­ne dispo­ne di una for­za lavo­ro mol­to più con­si­sten­te. In effet­ti, una digi­ta­liz­za­zio­ne piut­to­sto raf­faz­zo­na­ta sta crean­do seri disa­gi ai cit­ta­di­ni, e anche alle stes­se ammi­ni­stra­zio­ni. In paro­le mol­to sem­pli­ci, non pos­sia­mo pen­sa­re di com­pe­te­re con (per esem­pio) la Fran­cia se lì per un dato ser­vi­zio ci sono due addet­ti gio­va­ni cia­scu­no con un com­pu­ter e in Ita­lia c’è solo un anzia­no (l’età media dei nostri pub­bli­ci dipen­den­ti è la più alta dei pae­si OCDE), però con due computer.

Quan­to sopra por­ta alla con­clu­sio­ne ine­vi­ta­bi­le che un con­si­sten­te aumen­to dell’occupazione nel set­to­re pub­bli­co è una con­di­zio­ne neces­sa­ria non solo per miglio­ra­re i ser­vi­zi offer­ti, ma anche per offri­re un miglio­re soste­gno al siste­ma del­le impre­se.  Giun­ti a que­sto pun­to, è neces­sa­rio appro­fon­di­re, bre­ve­men­te in que­sto con­te­sto, tre punti.

In pri­mo luo­go, occor­re sta­bi­li­re dove andreb­be­ro fat­te le nuo­ve assun­zio­ni, e qua­li figu­re sono mag­gior­men­te neces­sa­rie. Quan­to scrit­to più sopra offre qual­che sug­ge­ri­men­to, ma que­sto com­pi­to dovreb­be esse­re svol­to accu­ra­ta­men­te in sede tec­ni­ca una vol­ta che in sede poli­ti­ca si sia deci­so di pro­ce­de­re. Si trat­ta di un’indagine sicu­ra­men­te age­vo­le per un’amministrazione bene intenzionata.

   In secon­do luo­go, occor­re tro­va­re i sol­di. La pro­po­sta del nostro grup­po è che si fac­cia ricor­so a una impo­sta straor­di­na­ria sul­la ric­chez­za finan­zia­ria. Que­sta è tal­men­te alta da far sì che un’aliquota media del­lo 0.5% sareb­be suf­fi­cien­te per assu­me­re un milio­ne di per­so­ne; e tale ric­chez­za è anche mol­to con­cen­tra­ta, ragion per cui, e pre­fe­ri­bil­men­te, lo stes­so get­ti­to potreb­be esse­re otte­nu­to con ali­quo­te pro­gres­si­ve con una quo­ta esen­te di 200.000E e tali per cui nem­me­no i patri­mo­ni più alti paghe­reb­be­ro più dell’1%. Que­sta impo­sta non sareb­be facil­men­te elu­di­bi­le e potreb­be esse­re riti­ra­ta dopo un perio­do qua­si sicu­ra­men­te infe­rio­re ai 5 anni, gra­zie agli effet­ti di atti­va­zio­ne dovu­ti all’aumento del PIL (tra l’altro, la tra­sfor­ma­zio­ne di cir­ca 30 miliar­di da ric­chez­za in red­di­to fa aumen­ta­re ipso fac­to il PIL di cir­ca l’1,7%). Dati di son­dag­gio ci dico­no che l’opinione pub­bli­ca sareb­be mag­gio­ri­ta­ria­men­te favo­re­vo­le a que­sta poli­ti­ca, e que­sto vale anche per i poten­zia­li mag­gio­ri con­tri­buen­ti – che pro­ba­bil­men­te pre­fe­ri­reb­be­ro che i loro figli restas­se­ro in Ita­lia. (Ci sono fon­da­ti moti­vi per cui l’imposta dovreb­be riguar­da­re la sola ric­chez­za finan­zia­ria e non anche quel­la immo­bi­lia­re, che qui sareb­be trop­po lun­go approfondire).

   Infi­ne, date le carat­te­ri­sti­che di effi­cien­za e di con­sen­so di que­sta poli­ti­ca, vie­ne da chie­der­si per­ché essa non sia già sta­ta attua­ta. Su ciò pesa­no pro­ba­bil­men­te l’ignoranza e il ser­vi­li­smo di tan­ti poli­ti­ci; ma pen­sia­mo che il vero moti­vo sia pro­prio che tale poli­ti­ca sareb­be effi­cien­te. Sono in mol­ti in Ita­lia a desi­de­ra­re che lo Sta­to fun­zio­ni male, cosa che pro­pi­zia la cor­ru­zio­ne e le pri­va­tiz­za­zio­ni, le qua­li han­no col­pi­to e stan­no sem­pre più col­pen­do set­to­ri (come la sani­tà e l’assistenza) per i qua­li la stes­sa teo­ria eco­no­mi­ca libe­ri­sta rac­co­man­da une gestio­ne pub­bli­ca. In mol­ti ci han­no det­to che la pro­va che la nostra pro­po­sta sia sba­glia­ta con­si­ste nel fat­to che la poli­ti­ca non la pren­de in con­si­de­ra­zio­ne. Pro­ba­bil­men­te è vero il con­tra­rio: non vie­ne pre­sa in con­si­de­ra­zio­ne per­ché è giusta.

PROPOSTA: un pia­no straor­di­na­rio di assun­zio­ni nel­la Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne, desti­na­te ai diver­si set­to­ri sul­la base del­la loro uti­li­tà socia­le e dell’effetto di atti­va­zio­ne sull’economia nel suo com­ples­so, da finan­ziar­si con un’imposta straor­di­na­ria e prov­vi­so­ria sul­la ric­chez­za finan­zia­ria, con ali­quo­te pro­gres­si­ve, una quo­ta esen­te con­si­sten­te ed esbor­so comun­que infe­rio­re all’1% anche per i patri­mo­ni più elevati.

Mag­gio­ri infor­ma­zio­ni sul lavo­ro alla base di que­sta pro­po­sta sono dispo­ni­bi­li in un docu­men­to piut­to­sto ampio sca­ri­ca­bi­le dai siti del Cen­tro Stu­di Argo di Tori­no o del­la rivi­sta on-line Ita­lia Libe­ra; in esso com­pa­io­no dati a suf­fra­gio di  tut­te le affer­ma­zio­ni con­te­nu­te in que­sto testo, tran­ne quel­la riguar­dan­te la scar­sa effi­ca­cia (fino­ra) del­la digi­ta­liz­za­zio­ne, che è frut­to di col­lo­qui diret­ti  e quel­la sul­la insod­di­sfa­zio­ne nei riguar­di del­la Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne che pro­vie­ne da uno stu­dio del Forum Pub­bli­ca Ammi­ni­stra­zio­ne, Lavo­ro Pub­bli­co 2021. I dati demo­gra­fi­ci e sul mer­ca­to del lavo­ro sono di fon­te uffi­cia­le (OCDE, EUROSTAT e PNRR). Que­sti dati sono in con­ti­nua evo­lu­zio­ne, quin­di è pos­si­bi­le che ci sia qual­che non rile­van­te discre­pan­za rispet­to a quel­li ripor­ta­ti nel docu­men­to di cui sopra. Il docu­men­to del­la Ban­ca Mon­dia­le è Doing Busi­ness 2020.

Lavoro povero e flessibilità

Le misu­re con­tro la pover­tà mira­no tipi­ca­men­te ad aumen­ta­re la par­te­ci­pa­zio­ne al mer­ca­to del lavo­ro. L’idea è che per usci­re dal­la con­di­zio­ne di indi­gen­za sia neces­sa­rio esse­re occu­pa­ti. Tut­ta­via, que­sto non è così vero e sem­pre di più si sen­te par­la­re di lavo­ra­to­ri pove­ri, in ingle­se wor­king poor, ossia occu­pa­ti che vivo­no in fami­glie che han­no un red­di­to com­ples­si­vo infe­rio­re a quel­lo del­la soglia di pover­tà. Que­sto feno­me­no in Ita­lia è par­ti­co­lar­men­te cri­ti­co. I dati Istat sui lavo­ra­to­ri dipen­den­ti ci dico­no che cir­ca il 12% degli occu­pa­ti è a rischio di pover­tà. Con­fron­tan­do la situa­zio­ne ita­lia­na con quel­la degli altri pae­si euro­pei, vedia­mo che fan­no peg­gio di noi solo Roma­nia, Spa­gna e Lus­sem­bur­go. Oltre a ciò, è pre­oc­cu­pan­te il trend che vede que­sto dato peg­gio­ra­to negli ulti­mi die­ci anni di 2,5 pun­ti per­cen­tua­li per l’Italia a fron­te di soli due altri pae­si con una cre­sci­ta para­go­na­bi­le: Esto­nia e Regno Unito.

Ma come è pos­si­bi­le? I mec­ca­ni­smi sono sostan­zial­men­te due. Da un lato il red­di­to da lavo­ro è bas­so, dall’altro il red­di­to non è suf­fi­cien­te per tut­ti i com­po­nen­ti del­la fami­glia. Nel pri­mo caso un lavo­ra­to­re gua­da­gna poco per­ché ha un bas­so sala­rio, lavo­ra poche ore o lo fa in manie­ra discon­ti­nua nell’anno. Spes­so è la com­bi­na­zio­ne di due o tre di que­sti ele­men­ti. Un esem­pio di un wor­king poor è quel­lo di una ragaz­za impie­ga­ta in uno stu­dio per sole due ore al gior­no per cin­que gior­ni. Un altro è quel­lo di un ragaz­zo, assun­to tra­mi­te una coo­pe­ra­ti­va di ser­vi­zi maga­ri pres­so un ente pub­bli­co. La sua paga ora­ria è così bas­sa che, pur lavo­ran­do tut­to il gior­no in manie­ra con­ti­nua­ti­va, ha uno sti­pen­dio sot­to la soglia di pover­tà. Un ter­zo caso può esse­re quel­lo di un/una inse­gnan­te che, seb­be­ne sia ampia­men­te dispo­ni­bi­le, lavo­ra solo spo­ra­di­ca­men­te facen­do sup­plen­ze. Tra­la­scia­mo volu­ta­men­te le situa­zio­ni che alcu­ni defi­ni­sco­no di lavo­ro gra­tui­to – per esem­pio di gio­va­ni sfrut­ta­ti in impre­se pri­va­te in cam­bio di una refe­ren­za sul cur­ri­cu­lum — in quan­to una del­le carat­te­ri­sti­che di una occu­pa­zio­ne per esse­re defi­ni­ta tale è quel­la di ave­re la capa­ci­tà di dare red­di­to alla per­so­na occupata.

Il secon­do mec­ca­ni­smo non fa rife­ri­men­to all’inadeguatezza del red­di­to da lavo­ro del sin­go­lo, ma a quel­lo del­la fami­glia del lavo­ra­to­re. Una fami­glia di due adul­ti e due bam­bi­ni dove lavo­ra solo uno dei geni­to­ri può facil­men­te tro­var­si in dif­fi­col­tà eco­no­mi­ca per­ché lo sti­pen­dio non basta a paga­re l’affitto o il mutuo del­la casa, la spe­sa, le bol­let­te, l’auto, il cel­lu­la­re. In que­sto caso il pro­ble­ma del­la pover­tà può esse­re ricon­du­ci­bi­le, tra altri ele­men­ti, alla bas­sa inten­si­tà da lavo­ro a livel­lo fami­lia­re, ossia al fat­to che solo uno dei due adul­ti lavora.

Foca­liz­zan­do­ci solo sul­le poli­ti­che del mer­ca­to del lavo­ro ci sono alme­no due cose che si pos­so­no fare per con­tra­sta­re il pro­ble­ma del­la pover­tà da lavo­ro: con­cen­trar­si sul­la scar­si­tà dell’occupazione in ter­mi­ni di “quan­ti­tà di lavo­ro” — più oppor­tu­ni­tà occu­pa­zio­na­li e meno part-time invo­lon­ta­ri – e inter­ve­ni­re sul­la “qua­li­tà del lavo­ro” — occu­pa­zio­ni sta­bi­li e ben retri­bui­te. La qua­li­tà del lavo­ro inclu­de mol­ti aspet­ti, tra cui l’offrire un red­di­to ade­gua­to, per­met­ten­do agli indi­vi­dui e alle loro fami­glie di evi­ta­re la pover­tà.  Su que­sto si riman­da alla voce Sala­rio minimo.

Una rifles­sio­ne impor­tan­te riguar­da la sta­bi­li­tà del lavo­ro. Que­sto ele­men­to inci­de sia sul­la quan­ti­tà di lavo­ro, ossia per quan­to tem­po si è occu­pa­ti, sia sul­la qua­li­tà dell’occupazione che può esse­re più o meno con­ti­nua­ti­va. Il risul­ta­to del per­du­ra­re negli ulti­mi decen­ni del pro­ces­so di fles­si­bi­liz­za­zio­ne, con­cen­tra­to pre­va­len­te­men­te sul­la fles­si­bi­li­tà nume­ri­ca, ossia la pos­si­bi­li­tà di assu­me­re per bre­vis­si­mi perio­di di tem­po, è che il lavo­ro ha per­so la sua capa­ci­tà di rap­pre­sen­ta­re una rispo­sta ai biso­gni di inclu­sio­ne e sicu­rez­za in par­ti­co­la­re per la fascia di popo­la­zio­ne che più si tro­va ad affron­ta­re un con­te­sto incer­to. L’instabilità ha con­se­guen­ze nega­ti­ve per l’individuo che ha mag­gio­re pro­ba­bi­li­tà di esse­re pove­ro e di sen­tir­si pove­ro, ma ha anche riper­cus­sio­ni per tut­ta la socie­tà. Aumen­ta­no i rischi di amma­lar­si e infor­tu­nar­si, si ten­de a con­su­ma­re meno e si posti­ci­pa­no mol­te scel­te fami­lia­ri, in par­ti­co­la­re quel­le di far­si una fami­glia. Con buo­na pace del­le poli­ti­che per la natalità.

Qua­li misu­re con­cre­te pos­so­no esse­re met­te in atto? Innan­zi­tut­to, eli­mi­nan­do, o per lo meno disin­cen­ti­van­do, la pos­si­bi­li­tà di ricor­re­re a con­trat­ti a tem­po deter­mi­na­to. A que­sto pro­po­si­to si potreb­be con­sen­ti­re l’assunzione a tem­po deter­mi­na­to per un perio­do di tem­po limi­ta­to e solo una vol­ta. Ma anche ren­de­re i con­trat­ti tem­po­ra­nei signi­fi­ca­ti­va­men­te più costo­si per le impre­se. Si potreb­be­ro ridur­re le for­me con­trat­tua­li, così come pre­vi­sto ad esem­pio recen­te­men­te in Spagna.

Le con­se­guen­ze di un irri­gi­di­men­to del mer­ca­to del lavo­ro non tra­dur­reb­be­ro in una mino­re occu­pa­zio­ne per­ché con l’occupazione sta­bi­le le impre­se vedo­no dimi­nui­re i costi di turn-over e aumen­ta­re la pro­dut­ti­vi­tà. Inol­tre, l’analisi dell’andamento dei dati sul costo del lavo­ro mostra il mec­ca­ni­smo esat­ta­men­te con­tra­rio: in Ita­lia negli ulti­mi vent’anni, seb­be­ne sia­no dimi­nui­ti gli one­ri a cari­co del­le impre­se, non è aumen­ta­ta l’occupazione.

Un’ultima osser­va­zio­ne sul tema del lavo­ro pove­ro e insta­bi­le è la neces­si­tà di affian­ca­re agli inter­ven­ti nel mer­ca­to del lavo­ro quel­li di poten­zia­men­to del­le poli­ti­che socia­li. Dal soste­gno all’occupazione del­le fami­glie con figli, alle poli­ti­che di soste­gno del red­di­to. Su que­ste ulti­me lo stru­men­to del Red­di­to di Cit­ta­di­nan­za è par­ti­co­lar­men­te impor­tan­te nel­la pro­ble­ma­ti­ca del lavo­ro pove­ro e insta­bi­le. Per un nume­ro rile­van­te di indi­vi­dui e fami­glie, que­sta for­ma di soste­gno al red­di­to è più effi­ca­ce nel con­tra­sta­re la pover­tà rispet­to all’avere un lavo­ro. Tut­ta­via, è mol­to osteg­gia­ta, in quan­to secon­do i cri­ti­ci por­te­reb­be a far sì che le per­so­ne pre­fe­ri­sca­no pren­de­re il sus­si­dio pub­bli­co anzi­ché lavo­ra­re. Sen­za discu­te­re l’infondatezza di que­sta posi­zio­ne, pos­sia­mo rico­no­sce­re che affin­ché il Red­di­to di Cit­ta­di­nan­za sia accet­ta­to da tut­ti, allo­ra, è neces­sa­rio ren­de­re il lavo­ro con­ve­nien­te, ossia assi­cu­ra­re il con­tra­rio: le fami­glie devo­no sta­re meglio con il lavo­ro che con i sussidi.

Il sala­rio mini­mo come strategia

Il sala­rio mini­mo è oggi una misu­ra fon­da­men­ta­le per il nostro Pae­se, tan­to che anche l’Unione Euro­pea lo con­si­de­ra uno stru­men­to neces­sa­rio per argi­na­re il lavo­ro povero.

Secon­do il rap­por­to INPS del 2020 i lavo­ra­to­ri che bene­fi­ce­reb­be­ro di una misu­ra come il sala­rio mini­mo nel nostro pae­se rap­pre­sen­ta­no il 13% del tota­le nel set­to­re privato.

Spes­so, basan­do­si su intui­zio­ni eco­no­mi­che piut­to­sto naïf, si è soste­nu­to che il sala­rio mini­mo andreb­be a dimi­nui­re l’occupazione.

Nel mer­ca­to del lavo­ro, infat­ti, lavo­ra­to­ri e dato­ri di lavo­ro giun­ge­reb­be­ro a un sala­rio di equi­li­brio secon­do la leg­ge del­la doman­da e dell’offerta. Qua­lo­ra il gover­no doves­se inter­ve­ni­re, sta­bi­len­do un sala­rio mini­mo lega­le al di sopra del sala­rio d’equilibrio, ciò spo­ste­reb­be la cur­va d’offerta (quel­la quin­di dei lavo­ra­to­ri che offro­no la loro mano­do­pe­ra) ver­so destra, por­tan­do a un aumen­to quin­di del­la disoccupazione.

Si trat­ta appun­to di un model­lo quan­to­me­no idea­le, che non coglie le carat­te­ri­sti­che essen­zia­li del­la real­tà, sup­po­nen­do a livel­lo tec­ni­co una situa­zio­ne di mer­ca­ti competitivi.

Uno degli esem­pi fon­da­men­ta­li su cui si è con­cen­tra­ta la let­te­ra­tu­ra eco­no­mi­ca è quel­la del monop­so­nio. Dal pun­to di vista intui­ti­vo il monop­so­nio è l’equivalente del mono­po­lio sul lato del­la doman­da. In pre­sen­za di monop­so­nio la cur­va di doman­da assu­me una diver­sa for­ma e i lavo­ra­to­ri ven­go­no retri­bui­ti meno di quan­to gli spet­ta- dal pun­to di vista pura­men­te teo­ri­co, ovve­ro il pro­dot­to mar­gi­na­le del lavo­ro- con effet­ti anche sull’occupazione. Sta­bi­len­do quin­di un sala­rio mini­mo lega­le lo Sta­to andreb­be a rista­bi­li­re un equi­li­brio otti­ma­le nel mer­ca­to del lavoro.

Com’è la situa­zio­ne nel caso ita­lia­no? Un recen­te lavo­ro di Casel­li, Mon­do­no e Schia­vo ha cer­ca­to di fare chia­rez­za sul tema. Nel nostro pae­se la quo­ta di azien­de che deten­go­no pote­re di monop­so­nio si atte­sta intor­no al 35%, con dati estre­ma­men­te ete­ro­ge­nei dal pun­to di vista spa­zia­le: al sud la quo­ta di azien­de in pote­re di monop­so­nio rag­giun­ge il 50%. Inol­tre, come evi­den­zia­no i dati, dal 2016 in poi vi è sta­to un bru­sco calo di impre­se in pote­re di monop­so­nio per via di un anda­men­to fiac­co del­la produttività.

Oltre alle disqui­si­zio­ni pura­men­te teo­ri­che, la que­stio­ne del sala­rio mini­mo è sta­ta affron­ta­ta anche dal pun­to di vista empi­ri­co. A livel­lo sto­ri­co uno dei lavo­ri più impor­tan­ti sul tema, quel­lo di Card e Krue­ger, ha ana­liz­za­to l’impatto di un aumen­to del sala­rio mini­mo in New Jer­sey nel 1992, quan­do l’economia ame­ri­ca­na si tro­va­va in una fase di reces­sio­ne. Con­fron­tan­do­lo l’andamento dell’occupazione nei fast food in Penn­syl­va­nia con stru­men­ti all’avanguardia dal pun­to di vista dell’analisi empi­ri­ca nel mer­ca­to del lavo­ro- il cosid­det­to model­lo di sti­ma Dif­fe­ren­ce in Dif­fe­ren­ce-gli auto­ri han­no evi­den­zia­to come il sala­rio mini­mo aves­se avu­to effet­ti posi­ti­vi sull’occupazione, con­tra­ria­men­te alla teoria.

La que­stio­ne, ovvia­men­te, si fa più sot­ti­le: qual è il livel­lo otti­ma­le di sala­rio mini­mo che garan­ti­sce effet­ti sta­ti­sti­ca­men­te non signi­fi­ca­ti­vi sull’occupazione?

Secon­do una recen­te review sul tema com­mis­sio­na­ta dal gover­no ingle­se, un sala­rio mini­mo al 60% del sala­rio media­no ha effet­ti sta­ti­ca­men­te non signi­fi­ca­ti­vi sull’occupazione.  Nel nostro pae­se, sti­ma­no sem­pre Casel­li, Mon­do­lo, Schia­vo que­sto signi­fi­che­reb­be un sala­rio tra gli 8.25 e i 9.65 al net­to dei con­tri­bu­ti pre­vi­den­zia­li. L’analisi, avver­to­no però gli auto­ri, è sta­ta svol­ta sul set­to­re mani­fat­tu­rie­ro. Altri set­to­ri, come quel­lo dei ser­vi­zi e in par­ti­co­la­re quel­lo turi­sti­co, pre­sen­ta­no paghe non solo più bas­se ma anche un’incidenza ele­va­ta di for­me di lavo­ro nero e irregolarità.

Un altro stu­dio empi­ri­co di gran­de impor­tan­za riguar­da il caso tede­sco: il sala­rio mini­mo è sta­to intro­dot­to nel 2015, a 8,5 euro l’ora, esten­den­do la con­trat­ta­zio­ne col­let­ti­va, per poi esse­re aumen­ta­to nel cor­so degli anni. Pri­ma del­la sua intro­du­zio­ne, l’11,3% dei lavo­ra­to­ri pri­va­ti ave­va un sala­rio infe­rio­re. Gli effet­ti sono sta­ti una dimi­nu­zio­ne del­la disu­gua­glian­za nei livel­li sala­ria­li, un aumen­to del­la retri­bu­zio­ne nei pri­mi due deci­li di sala­rio e nes­su­na ridu­zio­ne dell’occupazione.

 Una cri­ti­ca rivol­ta al sala­rio mini­mo è che andreb­be a intac­ca­re lo sto­ri­co tes­su­to di rela­zio­ni indu­stria­li del nostro pae­se. In real­tà, non esi­ste alcu­na pro­va con­cre­ta che in una con­di­zio­ne di bas­sa den­si­tà sin­da­ca­le un sala­rio mini­mo vada a intac­ca­re la con­trat­ta­zio­ne col­let­ti­va. Il rischio è inve­ce che, sen­za una seria rifor­ma del­la leg­ge sul­la rap­pre­sen­tan­za sin­da­ca­le e una mag­gior for­za dei sin­da­ca­ti, il sala­rio media­no sci­vo­li sem­pre di più ver­so il sala­rio minimo.

Nei pae­si in cui il sala­rio mini­mo non è pre­sen­te, infat­ti, la pre­sen­za dei sin­da­ca­ti è ubi­qua, così come quel­la dei rap­pre­sen­tan­ti di cate­go­ria degli impren­di­to­ri. Attra­ver­so la con­trat­ta­zio­ne col­let­ti­va e la com­pres­sio­ne sala­ria­le, rias­sun­ta in “stes­so lavo­ro stes­sa paga”, i sin­da­ca­ti garan­ti­sco­no paghe ele­va­te ai dipen­den­ti spin­gen­do inve­ce gli impren­di­to­ri a inve­sti­re in inno­va­zio­ne, miglio­ra­men­to del­le dina­mi­che azien­da­li e capi­ta­le uma­no per aumen­ta­re i loro pro­fit­ti. Così facen­do si crea un eco­si­ste­ma che pre­mia quel­le azien­de che garan­ti­sco­no sala­ri ade­gua­ti e con ele­va­ta pro­dut­ti­vi­tà spin­gen­do inve­ce fuo­ri dal mer­ca­to quel­le che non sono floride.

In Ita­lia, nono­stan­te il siste­ma sia simi­le, si è assi­sti­to come dice­va­mo pri­ma a un inde­bo­li­men­to dei sin­da­ca­ti e del­la stra­te­gia del­la con­trat­ta­zio­ne col­let­ti­va. Secon­do i dati del­la fon­da­zio­ne Di Vit­to­rio nel cor­so degli ulti­mi 10 anni i con­trat­ti col­let­ti­vi sono aumen­ta­ti dell’80%, pas­san­do da 551 nel 2012 a 992 nel 2021. Di que­sti nuo­vi con­trat­ti, sol­tan­to 25 risul­ta­no fir­ma­ti dal­le sigle sin­da­ca­li mag­gio­ren­te rap­pre­sen­ta­ti­ve- quin­di CGIL, CISL e UIL. Allo stes­so tem­po, rile­va la fon­da­zio­ne, è anda­to a aumen­tan­do anche il tem­po di rin­no­va degli stes­si contratti.

Que­sti feno­me­ni rispon­do­no, come dice­va­mo pri­ma, a una com­pe­ti­zio­ne che non si svol­ge più sull’innovazione e sul miglio­ra­men­to del­le stra­te­gie azien­da­li quan­to sul­le con­di­zio­ni dei lavo­ra­to­ri sia dal pun­to di vista sala­ria­le sia del­le tute­le. Una dina­mi­ca pre­oc­cu­pan­te, come rive­la un lavo­ro di Hof­f­man, Mala­cri­no e Pista­fer­ri, che ha aumen­ta­to la disu­gua­glian­za sala­ria­le e disin­cen­ti­va­to l’accumulazione di capi­ta­le umano.

Per que­sto le due tema­ti­che van­no tenu­te assie­me: da una par­te quel­la del­la rap­pre­sen­tan­za sin­da­ca­le, dall’altra quel­la del sala­rio mini­mo. In par­ti­co­la­re si rischia che sen­za una rifor­ma del siste­ma di rap­pre­sen­tan­za sin­da­ca­le il sala­rio media­no sci­vo­li ver­so quel­lo mini­mo. La pro­po­sta Catal­fo anda­va nel­la giu­sta direzione

Vi è una moti­va­zio­ne ulte­rio­re per spin­ge­re per un sala­rio mini­mo nel nostro pae­se. Come socie­tà occi­den­ta­le non sia­mo inte­res­sa­ti sol­tan­to alla liber­tà nega­ti­va- la liber­tà come assen­za di impe­di­men­ti- ma anche alla liber­tà posi­ti­va. Un sala­rio mini­mo andreb­be a impe­di­re un paga da fame che non con­sen­te la pie­na rea­liz­za­zio­ne di una per­so­na per quel che riguar­da la sua vita per­so­na­le e il suo tem­po libero.

Con un caveat, però: il sala­rio mini­mo come dice­va­mo pre­ce­den­te­men­te si basa sul livel­lo sala­ria­le nel suo com­ples­so. Per que­sto in una situa­zio­ne di sala­ri bas­si, il sala­rio mini­mo rischia di esse­re altret­tan­to bas­so. Quin­di il sala­rio mini­mo deve esse­re una par­te del­la stra­te­gia, assie­me a una rifor­ma del mer­ca­to del lavo­ro e a un rin­no­va­men­to del­la poli­ti­ca industriale.

Lavoro autonomo

L’universo rap­pre­sen­ta­to dal lavo­ro auto­no­mo (self employed) è un uni­ver­so estre­ma­men­te ete­ro­ge­neo. Ciò è dovu­to essen­zial­men­te a del­le ragio­ni sto­ri­che che han­no a che fare con la con­fi­gu­ra­zio­ne assun­ta dal­la socie­tà capi­ta­li­sti­ca nell’ultimo seco­lo e mezzo.

A una mag­gio­ran­za di col­ti­va­to­ri diret­ti, pic­co­li com­mer­cian­ti e arti­gia­ni in for­te decre­sci­ta si sta pro­gres­si­va­men­te sosti­tuen­do un nume­ro in costan­te cre­sci­ta di pre­sta­to­ri d’opera indi­vi­dua­li, pri­vi di col­la­bo­ra­to­ri, crea­ti dal­la rivo­lu­zio­ne infor­ma­ti­ca e dal­lo svi­lup­po del­le reti vir­tua­li. La cre­sci­ta di que­sta com­po­nen­te è favo­ri­ta anche, soprat­tut­to in Ita­lia, dal pro­li­fe­ra­re di rap­por­ti di lavo­ro pre­ca­ri e occa­sio­na­li e dall’esasperata ricer­ca di fles­si­bi­lià del­la for­za lavo­ro da par­te del­le impre­se. Que­sta com­po­nen­te, nel­la qua­le il lavo­ro pro­fes­sio­na­le che richie­de un’elevata sco­la­riz­za­zio­ne occu­pa una posi­zio­ne rile­van­te, ha carat­te­ri­sti­che del tut­to diver­se dal­la tra­di­zio­na­le com­po­nen­te inqua­dra­ta negli Ordi­ni pro­fes­sio­na­li, la cui ori­gi­ne affon­da addi­rit­tu­ra in seco­li lon­ta­ni (medi­ci, archi­tet­ti, avvo­ca­ti ecc.).

Potrem­mo quin­di rap­pre­sen­ta­re l’universo del lavo­ro auto­no­mo come un aggre­ga­to di diver­si grup­pi socia­li che eser­ci­ta­no atti­vi­tà eco­no­mi­che diver­se sia “in pro­prio” che “per con­to di terzi”.

Que­sta ete­ro­ge­nei­tà è diven­ta­ta però un ele­men­to strut­tu­ra­le che la tra­sfor­ma in fram­men­ta­zio­ne, cioè in ambi­ti dif­fi­cil­men­te comu­ni­can­ti, dal modo in cui lo Sta­to Ita­lia­no ha affron­ta­to il pro­ble­ma dei rap­por­ti coi lavo­ra­to­ri auto­no­mi dal pun­to di vista fisca­le e del­le tute­le previdenziali.

Per capi­re rapi­da­men­te di cosa si sta par­lan­do, pro­via­mo a leg­ge­re il capi­to­lo riguar­dan­te il lavo­ro auto­no­mo nel 2021 ripor­ta­to nel “Rap­por­to Annua­le INPS 2022” alle pp. 130–142. I lavo­ra­to­ri auto­no­mi sono rag­grup­pa­ti in a) arti­gia­ni (1.585 mila posi­zio­ni con­tri­bu­ti­ve), b) com­mer­cian­ti (2.105 mila posi­zio­ni con­tri­bu­ti­ve), c) agri­col­to­ri (440 mila posi­zio­ni con­tri­bu­ti­ve). In tota­le 4 milio­ni 130 mila posi­zio­ni con­tri­bu­ti­ve. A que­ste però van­no aggiun­ti d) gli iscrit­ti al Fon­do del­la Gestio­ne Sepa­ra­ta (1 milio­ne 431,6 posi­zio­ni con­tri­bu­ti­ve), la cui com­po­si­zio­ne rag­giun­ge il mas­si­mo dell’eterogeneità, pur essen­do ugua­li tra loro dal pun­to di vista fisca­le e con­tri­bu­ti­vo, ma diver­si da com­mer­cian­ti, arti­gia­ni e agri­col­to­ri. E diver­si, dovrem­mo aggiun­ge­re, anche dagli Ordi­ni pro­fes­sio­na­li dota­ti di mutue private.

Quin­di l’eterogeneità di natu­ra “socio­lo­gi­ca” diven­ta fram­men­ta­zio­ne per il diver­so inqua­dra­men­to dei rispet­ti­vi grup­pi sia rispet­to al fisco che rispet­to alle tute­le assi­sten­zia­li e pre­vi­den­zia­li. Que­sta fram­men­ta­zio­ne si rispec­chia, ovvia­men­te, nel­le rap­pre­sen­tan­ze, che, in mag­gio­ran­za, risen­to­no for­te­men­te del­le loro ori­gi­ni cor­po­ra­ti­ve e con­tri­bui­sco­no a ren­de­re anco­ra più com­ples­so il già com­ples­so qua­dro dei cor­pi inter­me­di in Italia.

Si stac­ca inve­ce da que­sto pesan­te retag­gio cor­po­ra­ti­vo la rap­pre­sen­tan­za di quel lavo­ro auto­no­mo che si è svi­lup­pa­to con l’affermazione di Inter­net e con la crea­zio­ne di “nuo­ve pro­fes­sio­ni” – il cosid­det­to ‘lavo­ro auto­no­mo di secon­da gene­ra­zio­ne’ – costi­tui­te da pre­sta­to­ri d’opera indi­vi­dua­li, così ini­zial­men­te diver­si dai pro­fes­sio­ni­sti iscrit­ti agli Ordi­ni ma che ten­do­no inve­ce ad asso­mi­gliar­si pro­prio per la tra­sfor­ma­zio­ne con­ti­nua impo­sta dall’evoluzione tec­no­lo­gi­ca, dal cam­bia­men­to degli sti­li di vita, dal­la glo­ba­liz­za­zio­ne ecc..

Si potreb­be dire che il pri­mo esem­pio di que­sta diver­sa rap­pre­sen­tan­za del lavo­ro auto­no­mo, che non nasce con pesan­ti ipo­te­che cor­po­ra­ti­ve ma come rap­pre­sen­tan­za tra­sver­sa­le di tut­te quel­le atti­vi­tà lega­te indis­so­lu­bil­men­te all’èra dell’informatica e del­le reti vir­tua­li è la ‘Free­lan­cer­su­nion’ degli Sta­ti Uni­ti, nata agli ini­zi del Due­mi­la, con la qua­le la cor­ri­spon­den­te Asso­cia­zio­ne ita­lia­na, ACTA, si è gemel­la­ta. ACTA, che fa par­te del­la Con­sul­ta sul lavo­ro auto­no­mo e le pro­fes­sio­ni del CNEL, ha dato il suo con­tri­bu­to alla ste­su­ra del­lo Sta­tu­to del Lavo­ro Auto­no­mo del gover­no Renzi.

Uno dei fat­to­ri che han­no con­sen­ti­to alle destre di recu­pe­ra­re ter­re­no negli ulti­mi anni è sta­ta indub­bia­men­te la pres­so­ché tota­le incom­pren­sio­ne da par­te del­la sini­stra del­le carat­te­ri­sti­che del lavo­ro auto­no­mo e del lavo­ro pre­ca­rio. Par­ten­do dall’assioma che l’unica for­ma di lavo­ro con­ce­pi­bi­le è quel­la del lavo­ro subor­di­na­to, la sini­stra ha con­ti­nua­to a ripe­te­re che il lavo­ro auto­no­mo è un fal­so lavo­ro auto­no­mo (le “fal­se par­ti­te Iva”) e che il lavo­ro pre­ca­rio deve scom­pa­ri­re tra­sfor­man­do­si in lavo­ro subor­di­na­to a tem­po pie­no. In que­sto modo ha pra­ti­ca­men­te eli­mi­na­to il pro­ble­ma del­le tra­sfor­ma­zio­ni del lavo­ro, non ha volu­to entra­re nel­le pro­ble­ma­ti­che e nel­la psi­co­lo­gia del lavo­ro auto­no­mo “auten­ti­co” (che ne rap­pre­sen­ta la stra­gran­de mag­gio­ran­za) e non ha capi­to che le posi­zio­ni lavo­ra­ti­ve pre­ca­rie sono ormai un dato strut­tu­ra­le ine­li­mi­na­bi­le desti­na­to ad aumen­ta­re e a diven­ta­re sem­pre più fra­gi­le e occa­sio­na­le (i cosid­det­ti “lavo­ret­ti” del­la gig eco­no­my) e che ormai milio­ni di per­so­ne han­no tro­va­to stra­te­gie di soprav­vi­ven­za pro­prio all’interno di quest’area di pre­ca­ria­to e mai vor­reb­be­ro rinun­ciar­vi per anda­re a lavo­ra­re in un posto fisso.

Pre­giu­di­zi ideo­lo­gi­ci e pigri­zia men­ta­le han­no in sostan­za reso impos­si­bi­le alla sini­stra rap­pre­sen­ta­re e orga­niz­za­re i lavo­ri “non stan­dard”. I fle­bi­li ten­ta­ti­vi ope­ra­ti dal sin­da­ca­to, dal­la CGIL in par­ti­co­la­re, han­no inte­res­sa­to grup­pi mar­gi­na­li di lavo­ra­to­ri ma pos­so­no esse­re comun­que un avvio a un pro­ces­so di rico­no­sci­men­to, che indub­bia­men­te pre­sen­ta note­vo­lis­si­me dif­fi­col­tà e richie­de gran­di sfor­zi di ana­li­si, in quan­to i diver­si grup­pi pro­fes­sio­na­li del­le cosid­det­te “nuo­ve pro­fes­sio­ni” van­no ana­liz­za­to in det­ta­glio nel­le loro spe­ci­fi­ci­tà, se si vuo­le tro­va­re dei moti­vi con­vin­cen­ti che indu­ca­no i loro mem­bri ad usci­re dall’individualismo. Occor­re che colo­ro che si richia­ma­no alla tra­di­zio­ne del movi­men­to ope­ra­io abban­do­ni­no la loro dif­fi­den­za e tal­vol­ta osti­li­tà nei con­fron­ti del­le nuo­ve rap­pre­sen­tan­ze del lavo­ro auto­no­mo per por­ta­re avan­ti obbiet­ti­vi comu­ni, che con­sen­ta­no ai lavo­ra­to­ri “non stan­dard” di acce­de­re alle tute­le fon­da­men­ta­li che uno sta­to dovreb­be assi­cu­ra­re a tut­ti i cit­ta­di­ni indi­pen­den­te­men­te dal loro sta­tus. La pre­ca­rie­tà e l’intermittenza pos­so­no esse­re impo­ste o scel­te dal sog­get­to lavo­ra­to­re, esse fan­no par­te di una carat­te­ri­sti­ca ine­li­mi­na­bi­le del­la socie­tà capi­ta­li­sti­ca di oggi.

Qua­li pro­po­ste? Com­bat­te­re la fram­men­ta­zio­ne e costrui­re un siste­ma assi­sten­zia­le omo­ge­neo, che inter­ven­ga a tute­la del­le situa­zio­ni di dif­fi­col­tà, indi­pen­den­te­men­te dal set­to­re e dal­la pro­fes­sio­ne. Nel­la vita lavo­ra­ti­va moder­na capi­ta sem­pre più spes­so che le car­rie­re lavo­ra­ti­ve pas­si­no da situa­zio­ni di lavo­ro subor­di­na­to a situa­zio­ni di lavo­ro auto­no­mo nel­le sue diver­se tipo­lo­gie e vice­ver­sa. Ven­go­no così ver­sa­ti i con­tri­bu­ti a diver­se cas­se pre­vi­den­zia­li e diven­ta spes­so impos­si­bi­le cumu­lar­li o rag­giun­ge­re il mini­mo pre­vi­sto dal­le sin­go­le cas­se per poter acce­de­re alle tute­le. Per que­sto è necessario:

- supe­ra­re le attua­li distin­zio­ni tra cas­se pre­vi­den­zia­li che affe­ri­sco­no all’INPS e nel frat­tem­po dare la pos­si­bi­li­tà di cumu­la­re più inden­ni­tà se si affe­ri­sce a più cas­se pre­vi­den­zia­li, in atte­sa del loro con­flui­re in un’unica cassa.

- omo­ge­neiz­za­re il trat­ta­men­to per malat­tia, mater­ni­tà e disoc­cu­pa­zio­ne, in atte­sa di per­ve­ni­re ad una uni­ca cas­sa, prevedendo:

a) l’estensione dell’indennità di mater­ni­tà mini­ma, attual­men­te esi­sten­te per col­ti­va­tri­ci diret­te, com­mer­cian­ti, arti­gia­ne, pro­fes­sio­ni­ste con ordi­ni, a tut­te le gestio­ni pre­vi­den­zia­li, com­pre­sa la Gestio­ne Separata

b) uni­for­ma­re il trat­ta­men­to del­la malat­tia, con l’eliminazione dei mas­si­ma­li di red­di­to come vin­co­lo di acces­so e con la coper­tu­ra pen­sio­ni­sti­ca dei perio­di indennizzati

c) intro­dur­re una misu­ra uni­ca di soste­gno al red­di­to, sosti­tu­ti­va degli attua­li dis-coll, iscro e alas.

Economia per la cultura e la creatività

Negli ulti­mi 20 anni, da quan­do il ter­mi­ne ha ini­zia­to a dif­fon­der­si anche nel nostro Pae­se l’economia cul­tu­ra­le e crea­ti­va ha vis­su­to di due poten­ti quan­to peri­co­lo­se reto­ri­che. Pri­mo, da momen­to che l’Italia ha un patri­mo­nio arti­sti­co e musea­le invi­dia­to in tut­to il mon­do (i famo­si “gia­ci­men­ti cul­tu­ra­li”), si è dif­fu­sa l’idea che potrem­mo ave­re un enor­me benes­se­re sem­pli­ce­men­te “sfrut­tan­do” la gran­de bel­lez­za del­le nostre cit­tà e dei nostri pae­sag­gi. Come corol­la­rio, è opi­nio­ne dif­fu­sa quan­to mal­ri­po­sta che la filie­ra turi­sti­ca sia il set­to­re che potreb­be trai­na­re l’intera eco­no­mia nazio­na­le, quan­do è noto a tut­ti che il turi­smo è tra le atti­vi­tà a bas­so valo­re aggiun­to che impie­ga soprat­tut­to per­so­na­le a bas­sa qua­li­fi­ca e gene­ra impor­tan­ti feno­me­ni di sot­toc­cu­pa­zio­ne e occu­pa­zio­ne precaria.

Il secon­do equi­vo­co riguar­da il mito del­la crea­ti­vi­tà, che par­ten­do dal­la nar­ra­zio­ne roman­ti­ca dell’artista soli­ta­rio e crea­to­re, vie­ne volu­ta­men­te asso­cia­to all’imprenditore che con volon­tà e inven­ti­va è in gra­do di cam­bia­re le sor­ti pro­prie e di chi con lui lavo­ra. Non è un caso che l’imprenditorialità crea­ti­va nasca in con­trap­po­si­zio­ne alla “gri­gia” buro­cra­zia di isti­tu­zio­ni cul­tu­ra­li pub­bli­che a cui negli anni sono sta­te pro­gres­si­va­men­te tol­te risor­se con la con­se­guen­te ridu­zio­ne di quan­ti­tà e qua­li­tà di ser­vi­zi cul­tu­ra­li nel­le cit­tà, nei musei e nei teatri.

Il com­bi­na­to dispo­sto di que­ste reto­ri­che ha pro­vo­ca­to dan­ni enor­mi non solo al patri­mo­nio cul­tu­ra­le ma anche all’economia del Pae­se e, soprat­tut­to, ai lavo­ra­to­ri dei set­to­ri cul­tu­ra­li. Per mol­te ammi­ni­stra­zio­ni loca­li e cen­tra­li, le poli­ti­che cul­tu­ra­li sono diven­ta­te un como­do sur­ro­ga­to a bas­so costo di una visio­ne di futu­ro e quin­di di una poli­ti­ca eco­no­mi­ca che rea­liz­zas­se tale visio­ne. Per anni abbia­mo assi­sti­to ad un approc­cio mes­sia­ni­co alla cul­tu­ra, in cui impro­ba­bi­li sacer­do­ti-impre­sa­ri ci han­no fat­to cre­de­re stru­men­tal­men­te che festi­val e musei, cit­tà del­la cul­tu­ra e mostre, incu­ba­to­ri e pro­get­ti di rige­ne­ra­zio­ne sono sem­pre moto­ri di svi­lup­po eco­no­mi­co e nuo­va occu­pa­zio­ne, non­ché inclu­sio­ne socia­le e cre­sci­ta cul­tu­ra­le del­le comu­ni­tà.  Quel­lo che osser­via­mo è mol­to diverso.

Secon­do diver­se sti­me, le cosid­det­te indu­strie crea­ti­ve e cul­tu­ra­li (ICC) in Ita­lia, alme­no pri­ma del­la pan­de­mia (2019), occu­pa­no cir­ca 1,5 mln di per­so­ne. Di que­sti cir­ca i due ter­zi lavo­ra­no in set­to­ri tra­di­zio­na­li (arti, patri­mo­nio e musei, edi­to­ria, musi­ca e audio­vi­si­vo) e indu­strie cul­tu­ra­li (comu­ni­ca­zio­ne, desi­gn e archi­tet­tu­ra, soft­ware), men­tre un ter­zo lavo­ra con man­sio­ni crea­ti­ve in set­to­ri non cul­tu­ra­li. A far­la da padro­ne nei set­to­ri tra­di­zio­na­li sono soft­ware ed edi­to­ria che insie­me val­go­no cir­ca il 50% dell’occupazione, men­tre le arti e i musei riman­go­no fana­li­no di coda.

Secon­do Feder­cul­tu­re (2022) la pan­de­mia ha affos­sa­to i con­su­mi cul­tu­ra­li, soprat­tut­to quel­li con­nes­si alla mobi­li­tà, impat­tan­do sull’occupazione più che pro­por­zio­nal­men­te rispet­to ad altri set­to­ri. Que­sto dato con­fer­ma un’ulteriore veri­tà spes­so taciu­ta sul­la com­po­si­zio­ne dei lavo­ra­to­ri del­la cul­tu­ra: in qua­si un caso su due si trat­ta di lavo­ra­to­ri auto­no­mi e micro-impre­se, che vivo­no di con­trat­ti a bre­ve e bre­vis­si­mo ter­mi­ne, di retri­bu­zio­ni mol­to bas­se e spes­so anche di cor­ri­spet­ti­vi in nero sen­za contributi.

Le poche cer­tez­ze su cui c’è con­sen­so nel­la let­te­ra­tu­ra scien­ti­fi­ca è che l’economia cul­tu­ra­le ten­de a con­cen­trar­si nel­le gran­di cit­tà e a favo­ri­re le gran­di isti­tu­zio­ni. Le poli­ti­che mini­ste­ria­li di Fran­ce­schi­ni inve­ce di bilan­cia­re que­sta ten­den­za han­no aval­la­to la crea­zio­ne di cam­pio­ni nazio­na­li, che se da un lato dan­no lustro alla nazio­ne, dall’altro han­no con­se­guen­ze nega­ti­ve sia per le cit­tà d’arte, in cui il turi­smo ten­de a spiaz­za­re ogni altra atti­vi­tà, tra­sfor­man­do i cen­tri sto­ri­ci in ren­di­te da ven­di­to­ri di sou­ve­nir, menù turi­sti­ci e affit­ti bre­vi, sia per i pic­co­li cen­tri e le aree inter­ne, lascia­te ad un desti­no di spo­po­la­men­to e degra­do pae­sag­gi­sti­co. A que­sto si aggiun­ge il PNRR in cui sono pre­vi­sti inter­ven­ti infra­strut­tu­ra­li rile­van­ti per alcu­ni set­to­ri cul­tu­ra­li, ma con­te­stual­men­te si rile­va una dimi­nu­zio­ne sostan­zia­le la spe­sa per la cul­tu­ra del­le ammi­ni­stra­zio­ni pubbliche.

Una poli­ti­ca cul­tu­ra­le diver­sa impo­ne un cam­bio di men­ta­li­tà. Pri­mo, le atti­vi­tà e il patri­mo­nio cul­tu­ra­li non pos­so­no esse­re sem­pre la pana­cea per i pro­ble­mi socio-eco­no­mi­ci di un ter­ri­to­rio. Occor­re limi­ta­re reto­ri­che eco­no­mi­ci­sti­che sugli impat­ti eco­no­mi­ci e resti­tui­re appie­no il valo­re for­ma­ti­vo e demo­cra­ti­co del­le isti­tu­zio­ni cul­tu­ra­li. Il patri­mo­nio è un bene pub­bli­co, met­tia­mo­ci in testa che com­por­ta dei costi per la comu­ni­tà; quin­di, gli inter­ven­ti fina­liz­za­ti a “met­te­re a pro­fit­to” sono per natu­ra desti­na­ti spes­so a fal­li­re oppu­re rischia­no di esse­re pro­fon­da­men­te distor­si­vi. Secon­do, la crea­ti­vi­tà è pre­zio­sa per l’innovazione, ma non sosti­tui­sce il biso­gno di ser­vi­zi essen­zia­li che Sta­to e enti ter­ri­to­ria­li devo­no for­ni­re ai cit­ta­di­ni anche nel­la cul­tu­ra, attra­ver­so biblio­te­che, archi­vi, musei, tea­tri e atti­vi­tà cul­tu­ra­li. In que­sto sen­so, occor­re un pia­no di assun­zio­ne di gio­va­ni negli uffi­ci ter­ri­to­ria­li alla cul­tu­ra e nel­le isti­tu­zio­ni, inter­na­liz­zan­do fun­zio­ni (come quel­le edu­ca­ti­ve e orga­niz­za­ti­ve) inve­ce di ester­na­liz­zar­le e ren­der­le pre­ca­rie. L’esternalizzazione favo­ri­sce l’approccio mor­di e fug­gi degli even­ti­fi­ca­to­ri di pro­fes­sio­ne e svuo­ta di pro­fes­sio­na­li­tà e com­pe­ten­za gli ope­ra­to­ri locali. 

Ter­zo, il turi­smo non è sem­pre la solu­zio­ne, occor­re vigi­la­re affin­ché non diven­ti il pro­ble­ma. L’effetto del­le atti­vi­tà cul­tu­ra­li sul­le cit­tà mino­ri e sui ter­ri­to­ri mar­gi­na­li è qua­si sem­pre effi­me­ro sia sul turi­smo sia sui resi­den­ti se non asso­cia­to ad inve­sti­men­ti infra­strut­tu­ra­li (acces­si­bi­li­tà) e soprat­tut­to di poli­ti­ca eco­no­mi­ca. Occor­re costrui­re incen­ti­vi non tan­to alla cemen­ti­fi­ca­zio­ne di pro­vin­cia e mon­ta­gna, quan­to al mece­na­ti­smo e alle reti di patri­mo­nio “mino­re”. Quar­to, la rige­ne­ra­zio­ne urba­na con carat­te­ri­sti­che cul­tu­ra­li pro­du­ce nel­la miglio­re del­le ipo­te­si gen­tri­fi­ca­zio­ne e nel­la peg­gio­re lascia cat­te­dra­li nel deser­to. Nel pri­mo caso, il rego­la­to­re pub­bli­co non deve favo­ri­re spe­cu­la­zio­ni immo­bi­lia­ri (pre­mes­sa alla gen­tri­fi­ca­zio­ne e poi alla turi­sti­fi­ca­zio­ne) impo­nen­do che sia­no garan­ti­ti spa­zi e ser­vi­zi pub­bli­ci a livel­lo di quar­tie­re (ver­de, scuo­le, sani­tà ter­ri­to­ria­le, tra­spor­ti) e affit­ti a cano­ni cal­mie­ra­ti. Nel secon­do caso, chi con­ce­de le auto­riz­za­zio­ni al recu­pe­ro di edi­fi­ci o aree deve richie­de­re un pia­no gestio­na­le che indi­chi chia­ra­men­te la soste­ni­bi­li­tà eco­no­mi­co-finan­zia­ria dei pro­get­ti di tra­sfor­ma­zio­ne alme­no nel medio perio­do. Il pro­li­fe­ra­re di gene­ri­ci con­te­ni­to­ri cul­tu­ra­li e incu­ba­to­ri di impre­sa crea­ti­va ha dimo­stra­to scar­sa capa­ci­tà di visio­ne più che la nasci­ta di rea­li oppor­tu­ni­tà occu­pa­zio­na­li o for­ma­ti­ve per i giovani.

Settori strategici e lavori essenziali

 Sta­to, si è par­la­to tan­to di Sta­to in que­sto anno pan­de­mi­co segna­to dal­la più gran­de tra­ge­dia col­let­ti­va dopo la Secon­da Guer­ra mon­dia­le. Si è par­la­to di Sta­to come garan­te, come for­ni­to­re, come pre­sen­te, come respon­sa­bi­le, come vici­no, uno Sta­to che si sareb­be dovu­to fare cari­co del­lo shock pan­de­mi­co e garan­ti­re equi­tà, uno Sta­to che avreb­be per­mes­so di coor­di­na­re gli sfor­zi decen­tra­liz­za­ti e di costrui­re una sal­va­guar­dia col­let­ti­va. Meno si è par­la­to di quan­to e come que­ste pro­mes­se sia­no sta­te fal­li­men­ta­ri e di come dopo un anno dal­la pan­de­mia il ruo­lo del­lo Sta­to e del­le isti­tu­zio­ni comu­ni­ta­rie sia risul­ta­to in lar­ga par­te ina­de­gua­to nel cen­tra­liz­za­re le pro­du­zio­ni, le for­ni­tu­re e gli approv­vi­gio­na­men­ti e nel ten­ta­re di garan­ti­re pro­te­zio­ne socia­le uni­ver­sa­le.  Dopo anni in cui il capi­ta­li­smo glo­ba­le si è defi­ni­to sul­l’on­da del­l’ab­bon­dan­za, del sovrap­più e del­lo spre­co, rien­tra­no dal­la fine­stra spet­tri lon­ta­ni come la cri­si da sot­to-pro­du­zio­ne, cri­si da offer­ta, una nozio­ne remo­ta nel­la mag­gior par­te del­le ana­li­si del siste­ma pro­dut­ti­vo basa­to sul­la spe­cia­liz­za­zio­ne e sull’accumulazione. 

Al più, il capi­ta­li­smo pro­du­ce in ecces­so non in scar­si­tà, que­sta la vul­ga­ta, eppu­re abbia­mo visto nel­l’ul­ti­mo anno tan­te nuo­ve cri­si da offer­ta. Cri­si da assen­za di masche­ri­ne, di respi­ra­to­ri, di test dia­gno­sti­ci, di rea­gen­ti, di far­ma­ci, cri­si da pro­du­zio­ne di vac­ci­ni. Ma ancor di più, cri­si di for­za lavo­ro. E per capi­re que­ste cri­si da offer­ta occor­re inqua­drar­le all’in­ter­no di un ven­ten­nio in cui il tes­su­to pro­dut­ti­vo ita­lia­no ha tra­sfe­ri­to all’estero gran par­te del­le com­pe­ten­ze cen­tra­liz­za­te nei set­to­ri a più alto con­te­nu­to di cono­scen­za, a par­ti­re dal chi­mi­co, dal far­ma­ceu­ti­co e dal­le mac­chi­ne uten­si­li. La ten­den­za a rilo­ca­liz­za­re all’e­ste­ro atti­vi­tà pro­dut­ti­ve defi­ni­te “stra­te­gi­che” è coe­si­sti­ta con la per­pe­tua­ta dequa­li­fi­ca­zio­ne e sot­to-remu­ne­ra­zio­ne di quel­la for­za lavo­ro che mai era sta­ta con­si­de­ra­ta come rile­van­te e che è tor­na­ta alle cro­na­che con la nozio­ne di essen­zia­le. Accan­to al lavo­ro essen­zia­le è poi emer­so il lavo­ro “non essen­zia­le”, in pri­mis quel­lo del­lo spet­ta­co­lo, del­la cul­tu­ra, del tem­po libe­ro, uno dei seg­men­ti più fero­ce­men­te col­pi­ti dai vari loc­k­do­wn e dal­l’as­sen­za di stra­te­gie di pro­te­zio­ne uni­ver­sa­le del red­di­to e di aper­tu­re pia­ni­fi­ca­te.  Il con­tral­ta­re è sta­to lo spo­sta­men­to mas­si­vo ver­so la ter­zia­riz­za­zio­ne a bas­si sala­ri, che nel­la vul­ga­ta pre­pan­de­mi­ca è sem­pre sta­ta con­si­de­ra­ta, e di fat­to con­ti­nua a esser­lo all’og­gi, for­za lavo­ro a bas­so con­te­nu­to di valo­re, gene­ral­men­te assor­bi­ta dal­le coo­pe­ra­ti­ve del­la logi­sti­ca, del set­to­re di cura e di assi­sten­za agli anzia­ni, del­le puli­zie. Altra for­za lavo­ro è man­ca­ta, for­za lavo­ro nel com­par­to del­la sani­tà pub­bli­ca, anche esso ves­sa­to da alme­no un decen­nio di taglio alla spe­sa sani­ta­ria (Bra­muc­ci et al., 2020), rifun­zio­na­liz­za­to ver­so il man­tra del­l’ot­ti­miz­za­zio­ne dei flus­si e dei pro­ces­si di lavo­ro, rior­ga­niz­za­to con il taglio dei repar­ti ad alto costo e a bas­so con­te­nu­to di pro­fit­to. Lo spa­zio lascia­to vuo­to dal­la sani­tà pub­bli­ca, ri-otti­miz­za­ta ver­so un uso effi­cien­te del­le risor­se, è sta­to assor­bi­to da un pri­va­to pre­da­to­re, che non si cura del­le malat­tie socia­li, che non si cura del­la malat­tie d’ur­gen­za e che pre­fe­ri­sce inve­ce con­vo­glia­re risor­se nei repar­ti a più alta pro­fit­ta­bi­li­tà e meno rischiosi. 

E se chi leg­ge si chie­de­rà se il pub­bli­co è per defi­ni­zio­ne meglio, lo stes­so pub­bli­co del malaf­fa­re e del­la cor­ru­zio­ne, il pub­bli­co del clien­te­li­smo e del­l’i­nef­fi­cien­za, si rispon­de­rà che il malaf­fa­re, la cor­ru­zio­ne e l’i­nef­fi­cien­za non sono carat­te­ri­sti­che del­l’or­ga­niz­za­zio­ne pub­bli­ca in sè ma sono attri­bu­ti del­le orga­niz­za­zio­ni, sia­no esse pub­bli­che o pri­va­te, come mostra­to dal­le suc­ces­sio­ni di pri­va­tiz­za­zio­ni, segna­te da  fal­li­men­ti azien­da­li, da stra­gi socia­li e ambien­ta­li, da mor­ti “sen­za cau­sa” e da pro­ces­si giu­di­zia­ri spes­so con­clu­si con asso­lu­zio­ni. Ciò che distin­gue l’as­set­to pub­bli­co da quel­lo pri­va­to non riguar­da la capa­ci­tà orga­niz­za­ti­va e l’i­nef­fi­cien­za più o meno intren­se­ca ma mol­to più lo spa­zio di con­ten­di­bi­li­tà e la mes­sa in discus­sio­ne di stra­te­gie di azio­ne e di scel­te, che se pub­bli­che pos­so­no esse­re con­te­se, se pri­va­te no. Ciò che distin­gue pub­bli­co da pri­va­to è la pos­si­bi­li­tà di indi­vi­dua­re, lad­do­ve neces­sa­rio, respon­sa­bi­li­tà altri­men­ti dilui­te tra con­si­gli di ammi­ni­stra­zio­ne, tra gerar­chie nebu­la­ri, tra dire­zio­ni ese­cu­ti­ve. E soprat­tut­to ciò che distin­gue pub­bli­co da pri­va­to è il fine ulti­mo, se vol­to a sod­di­sfa­re l’in­te­res­se col­let­ti­vo o l’in­te­res­se individuale.

 Pro­po­nia­mo un’a­gen­da di inter­ven­to diret­to in tre set­to­ri spe­ci­fi­ci al fine di pro­por­re del­le prio­ri­tà rispet­to alla più ampia nozio­ne di poli­ti­ca indu­stria­le che spes­so fati­ca a decli­nar­si in concreto.

1. Crea­zio­ne di un’in­du­stria far­ma­ceu­ti­ca pub­bli­ca che sia in gra­do di fare ricer­ca e inno­va­zio­ne nel­le aree di inte­res­se a mag­gior rischio in ter­mi­ni di risul­ta­to, ma a mag­gio­re con­te­nu­to inno­va­ti­vo e di rispo­sta a biso­gni col­let­ti­vi, a par­ti­re dal­la resi­sten­za agli anti­bio­ti­ci, dai vac­ci­ni e dagli antiretrovirali.

L’ar­re­tra­men­to del­la far­ma­ceu­ti­ca pri­va­ta nel fare vere inno­va­zio­ni rispet­to alle mere repli­ca­zio­ni “me too” è sta­to ampia­men­te docu­men­ta­to. Anche se nel­la rispo­sta pan­de­mi­ca abbia­mo visto il fio­ri­re di sva­ria­te tipo­lo­gie di vac­ci­ni, risul­ta ormai evi­den­te come le impre­se far­ma­ceu­ti­che rispon­da­no pri­ma agli anda­men­ti del prez­zo del­le azio­ni quo­ta­te, alla distri­bu­zio­ne dei divi­den­di e all’ac­cu­mu­la­zio­ne dei pro­fit­ti, e poi for­se alla for­ni­tu­ra dei vac­ci­ni con­cor­da­ti addi­rit­tu­ra con accor­di secre­ta­ti come nel caso di quel­li acqui­sta­ti del­la Com­mis­sio­ne Euro­pea. Si ricor­di come se è vero che vi è sta­ta una rispo­sta nel­la pro­du­zio­ne, que­sta è avve­nu­ta attra­ver­so un’i­nie­zio­ne mas­si­va di finan­zia­men­ti pub­bli­ci. Nono­stan­te ciò, i pae­si occi­den­ta­li non sono sta­ti in gra­do di impor­re una clau­so­la di “com­pul­so­ry licen­cing” che per­met­ta il riu­ti­liz­zo del bre­vet­to sui vac­ci­ni sen­za incor­re­re alla vio­la­zio­ne di dirit­ti di pro­prie­tà intel­let­tua­le, fat­ti­spe­cie pre­vi­sta in seno allo stes­so WTO (art. 31 del TRIP) nel caso di emer­gen­ze nazio­na­li, con buo­na pace dei pro­cla­mi dell’OMS sul vac­ci­no come bene pub­bli­co glo­ba­le. Per tut­ta rispo­sta, UE, USA, Giap­po­ne e UK, tra gli altri, si sono oppo­sti alla pro­po­sta avan­za­ta da India e Suda­fri­ca al tavo­lo del WTO per chie­de­re la sospen­sio­ne dei bre­vet­ti sui vac­ci­ni e tec­no­lo­gie ad esse asso­cia­te COVID-19.

Vista l’en­ne­si­ma dimo­stra­zio­ne del­la “bene­vo­len­za” di Big-Phar­ma ver­so il pub­bli­co che l’ha finan­zia­ta, urge met­te­re in cam­po una pro­po­sta di pro­du­zio­ne nazio­na­le di far­ma­ci con­tro cri­si da pro­du­zio­ne e inac­cet­ta­bi­li mono­po­li intel­let­tua­li. Il caso del vac­ci­no cuba­no è un esem­pio di come un vac­ci­no svi­lup­pa­to all’in­ter­no di labo­ra­to­ri di ricer­ca e pro­dot­to in sta­bi­li­men­ti pub­bli­ci pos­sa esistere.

 L’industria far­ma­ceu­ti­ca ita­lia­na si posi­zio­na pri­ma in Euro­pa per pro­du­zio­ne, ma si trat­ta di un pri­ma­to come con­to ter­zi, in cui le impre­se ita­lia­ne, per quan­to regi­stri­no alti volu­mi di fat­tu­ra­to e di espor­ta­zio­ni, sono respon­sa­bi­li di una o più fasi del pro­ces­so ma non del bene fina­le. Il caso del­le 29 milio­ni di dosi del vac­ci­no Astra­Ze­ne­ca tro­va­te ad Ana­gni, dove avve­ni­va la sola ope­ra­zio­ne di infia­la­tu­ra (il “fill&finish”) per poi esse­re spe­di­ti all’e­ste­ro per fasi suc­ces­si­ve, è un esem­pio arche­ti­pi­co del posi­zio­na­men­to del­l’I­ta­lia come par­te­ci­pan­te nel­la fase inter­me­dia del pro­ces­so di pro­du­zio­ne. Tale carat­te­ri­sti­ca sta diven­tan­do un trat­to comu­ne tra i set­to­ri più avan­za­ti del­la mani­fat­tu­ra ita­lia­na e pre­lu­de al con­so­li­da­men­to di un nuo­vo model­lo di spe­cia­liz­za­zio­ne pro­dut­ti­va, dal far­ma­ceu­ti­co alla com­po­nen­ti­sti­ca fino ai mac­chi­na­ri, si pro­du­ce in con­to ter­zi per impre­se capo-filie­ra di altri pae­si, spes­so tedesche.

In sin­te­si: la far­ma­ceu­ti­ca ita­lia­na pro­du­ce mol­to, ma lar­ga­men­te com­po­nen­ti inter­me­die per pro­dot­ti fina­li far­ma­ceu­ti­ci di altri pae­si, ossia dipen­de dal­le stra­te­gie di azien­de far­ma­ceu­ti­che pre­va­len­te­men­te tede­sche e statunitensi.

 Occor­re inve­sti­re in un’industria far­ma­ceu­ti­ca pub­bli­ca capa­ce di fare ricer­ca e inno­va­zio­ne in aree poco pro­fit­te­vo­li per il pri­va­to ma neces­sa­rie per la salu­te col­let­ti­va e per crea­re lavo­ri di qua­li­tà. Occor­re inol­tre un dise­gno stra­te­gi­co coe­ren­te con il tes­su­to pro­dut­ti­vo ita­lia­no che va dall’occupazione alla pro­du­zio­ne di beni fina­li essen­zia­li. Di fat­to, la pro­du­zio­ne di far­ma­ci non può pre­scin­de­re dal­l’in­dot­to sot­to­stan­te di for­ni­tu­ra di appa­rec­chi, mac­chi­ne uten­si­li e di pre­ci­sio­ne, stru­men­ta­zio­ne da labo­ra­to­rio, reat­to­ri neces­sa­ri alla spe­ri­men­ta­zio­ne e pro­du­zio­ne. Que­sti pro­dot­ti pos­so­no e devo­no esse­re rea­liz­za­ti da un’in­du­stria pub­bli­ca anche per ovvia­re ai pro­ble­mi ampia­men­te veri­fi­ca­ti­si duran­te la pan­de­mia di espor­ta­zio­ne all’e­ste­ro diret­ta ver­so il miglior offe­ren­te. Per la natu­ra di set­to­re ver­ti­cal­men­te inte­gra­to con tut­to il siste­ma pro­dut­ti­vo e per la sua capa­ci­tà di sti­mo­la­re inno­va­zio­ni e atti­va­re buo­na occu­pa­zio­ne, una nuo­va poli­ti­ca indu­stria­le non può pre­scin­de­re da una stra­te­gia mira­ta e radi­ca­le sull’industria farmaceutica.

Pri­ma il pas­sag­gio di FIAT a FCA nel 2014 e ades­so la nuo­va acqui­si­zio­ne da par­te di PSA con la for­ma­zio­ne del neo-grup­po Stel­lan­tis rac­con­ta­no di una imper­do­na­bi­le assen­za del ruo­lo del­lo Sta­to nel­l’in­fluen­za­re le tra­iet­to­rie di ricer­ca e svi­lup­po, i pia­ni occu­pa­zio­na­li, la pro­get­ta­zio­ne del­l’au­to­mo­bi­le ita­lia­na e non da ulti­mo la pro­prie­tà. Oltre il roman­ti­ci­smo ver­so il mito del­l’au­to­mo­bi­le, l’I­ta­lia, quan­do con­fron­ta­ta con gli altri due prin­ci­pa­li pae­si euro­pei pro­dut­to­ri di auto (Fran­cia e Ger­ma­nia) man­ca siste­ma­ti­ca­men­te di par­te­ci­pa­re con quo­te pro­prie­ta­rie, con capa­ci­tà di indi­riz­zo e con­trol­lo e per­fi­no di un sem­pli­ce pia­no per l’automobile[8]. Da ulti­mo, si con­fer­ma l’as­sen­za di pro­prie­tà di azio­ni, ad esem­pio dete­nu­te dal­la Cas­sa Depo­si­ti e Pre­sti­ti, nel­la for­ma­zio­ne del nuo­vo grup­po a regia fran­ce­se, il cui gover­no detie­ne il 6,2% attra­ver­so la ban­ca pub­bli­ca BPI Fran­ce. Ciò non stu­pi­sce da par­te del­lo stes­so gover­no che nel Mag­gio 2020 ha con­ces­so un pre­sti­to di 5 miliar­di di euro all’an­co­ra FCA sen­za alcun tipo di garan­zia sul­la tenu­ta occu­pa­zio­na­le e su un pia­no di inve­sti­men­to. Ciò che man­ca da anni alla ex-FCA, i cui pia­ni di svi­lup­po e inno­va­zio­ne tec­no­lo­gi­ca sono sem­pre sta­ti subor­di­na­ti a quel­li finan­zia­ri, sono pro­dot­ti nuo­vi da pro­dur­re secon­do una tra­iet­to­ria eco-com­pa­ti­bi­le. Tut­ti gli sta­bi­li­men­ti ex-FCA in Ita­lia ope­ra­no infat­ti in media al 55% del­la capa­ci­tà pro­dut­ti­va, eccet­to Sevel che pro­du­ce il Duca­to, e da ormai una deci­na di anni fan­no un ricor­so costan­te alla cas­sa inte­gra­zio­ne. L’as­sen­za di nuo­vi model­li da poter rea­liz­za­re mostra in pri­mis l’as­sen­za di com­pe­ten­ze del saper pen­sa­re e innovare.

Oltre a Stel­lan­tis, la pro­du­zio­ne di auto­mo­bi­li e moto ita­lia­ne si con­cen­tra nel lus­so, in par­ti­co­la­re con Lam­bor­ghi­ni e Duca­ti den­tro il grup­po AUDI. Anche in tal caso, assen­te è una poli­ti­ca indu­stria­le, se non con qual­che top­pa mes­sa dal­l’in­ter­ven­to regio­na­le. L’ul­ti­ma trac­cia di stra­te­gia indu­stria­le nazio­na­le, se così la si vuo­le defi­ni­re, è il pia­no Indu­stria 4.0 il cui risul­ta­to più che l’a­do­zio­ne di tec­no­lo­gie all’a­van­guar­dia ha visto le impre­se lar­ga­men­te ricor­re a inve­sti­men­to in sicu­rez­za digi­ta­le (ISTAT, 2020) ed è fini­to per raf­for­za­re le asim­me­trie regio­na­li tra nord e sud Italia.

Urge, anche in luce del­le nuo­ve ristrut­tu­ra­zio­ni azien­da­li avve­nu­te nel grup­po ex-FCA, una poli­ti­ca indu­stria­le nel set­to­re del­l’au­to­mo­bi­le che veda il ruo­lo del­lo Sta­to come garan­te del­l’in­te­res­se pub­bli­co, in pri­mis nel­la tute­la e garan­zia del­l’oc­cu­pa­zio­ne, oltre l’u­so del­la cas­sa inte­gra­zio­ne, e capa­ce di dare dire­zio­ne e indi­riz­zo sul cosa fare e con qua­li tec­no­lo­gie, a par­ti­re dal­l’e­let­tri­co e dal­la mobi­li­tà inte­gra­ta, ogget­ti non in discus­sio­ne tra le stan­ze dei palaz­zi gover­na­ti­vi all’oggi.

Una poli­ti­ca sala­ria­le per un lavo­ro di cura pub­bli­co in gra­do di riqua­li­fi­ca­re il lavo­ro nei ser­vi­zi vera­men­te pro­dut­ti­vi. Pro­ie­zio­ni del Bureau of Labor Sta­ti­stics pre­ve­do­no per gli Sta­ti Uni­ti nei pros­si­mi die­ci anni che 6 tra le prin­ci­pa­li 10 occu­pa­zio­ni in cre­sci­ta saran­no nel set­to­re sani­ta­rio e del­la cura e non è dif­fi­ci­le imma­gi­nar­si pro­ie­zio­ni simi­li per l’Italia.

E’ pos­si­bi­le lascia­re al pri­va­to dei grup­pi sani­ta­ri da una par­te e alle coo­pe­ra­ti­ve dal­l’al­tra la gestio­ne di malat­tie col­let­ti­ve e del lavo­ro di assi­sten­za? Gli ulti­mi die­ci anni di auste­ri­tà e di pri­va­tiz­za­zio­ni ci han­no ridot­ti all’in­ca­pa­ci­tà di gesti­re la malat­tia attra­ver­so un siste­ma sani­ta­rio e socio-assi­sten­zia­le distri­bui­to, decen­tra­liz­za­to e capil­la­re. L’u­ni­ca distri­bu­zio­ne è sta­ta quel­la del pote­re del­l’au­to­no­mia del­le Regio­ni, che sul­la base di un pre­sun­to prin­ci­pio di sus­si­dia­rie­tà, ha enor­me­men­te con­tri­bui­to alla crea­zio­ne di dispa­ri­tà nei trat­ta­men­ti e nel­l’ac­ces­so alle cure.

 Se la mani­fat­tu­ra rap­pre­sen­ta la fon­te di inno­va­zio­ne con rica­du­te posi­ti­ve per tut­to l’as­set­to pro­dut­ti­vo, è però altret­tan­to vera la cen­tra­li­tà dei lavo­ri di cura dimo­stra­ta dall’andamento effet­ti­vo dell’occupazione. Tali lavo­ri sono essen­zia­li nel sod­di­sfa­ci­men­to di biso­gni e in quan­to tali una poli­ti­ca indu­stria­le non può igno­rar­li, ma pren­der­ne atto, legit­ti­mar­li e dare loro dignità.

Assor­bi­re il lavo­ro di cura con occu­pa­zio­ne pub­bli­ca deve esse­re prio­ri­ta­rio, unen­do la crea­zio­ne di infra­strut­tu­re di wel­fa­re con una nuo­va idea di demo­cra­zia orien­ta­ta ai biso­gni collettivi[11]. A ciò si asso­cia una neces­sa­ria rifor­ma del­la poli­ti­ca sala­ria­le che richie­de con urgen­za l’in­tro­du­zio­ne di un sala­rio mini­mo, che lun­gi dal­l’es­se­re il gri­mal­del­lo con­tro la con­trat­ta­zio­ne sin­da­ca­le, può esse­re con­fi­gu­ra­to in coe­si­sten­za a essa. Insie­me al sala­rio mini­mo, occor­re l’e­sten­sio­ne dei con­trat­ti sin­da­ca­li erga omnes (pur­ché essi sia­no supe­rio­ri a un mini­mo con­cor­da­to per leg­ge) al fine di rom­pe­re l’in­giu­sta e intol­le­ra­bi­le asim­me­tria nel­le retri­bu­zio­ni tra set­to­ri (INPS, 2020). Cura pub­bli­ca non solo per l’u­ma­no, cura anche per il ter­ri­to­rio mar­to­ria­to che urge un pia­no mas­si­vo di risa­na­men­to e boni­fi­ca, anche con l’u­ti­liz­zo del­la miglio­re tec­no­lo­gia robo­ti­ca a dispo­si­zio­ne, in gra­do di sosti­tui­re l’u­ma­no sì, ma nel­le fun­zio­ni vera­men­te rischio­se, sot­traen­do la gestio­ne e lo smal­ti­men­to alle mafie e alle isti­tu­zio­ni corrotte.

Se di un’ac­qui­si­zio­ne di spa­zio pub­bli­co si è discus­so, si vuo­le anche sot­to­li­nea­re come non esi­ste alcu­na tri­via­le equa­zio­ne “pubblico=bello”, “pubblico=giusto”, “pubblico=sostenibile”.  Oltre a più pub­bli­co e meno pri­va­to nel­la gestio­ne degli inte­res­si col­let­ti­vi, si richie­de un com­ple­to ripen­sa­men­to del­le strut­tu­re di gover­nan­ce del­le ammi­ni­stra­zio­ni e dei pro­ces­si deci­sio­na­li: poco con­ta esse­re rap­pre­sen­ta­ti con un mem­bro den­tro al con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne di un’a­zien­da di sta­to o pro­va­re a eser­ci­ta­re timi­da­men­te una gol­den share se tali rap­pre­sen­tan­ze non sono por­ta­tri­ci di inte­res­si non di Sta­to ma col­let­ti­vi. E alla costru­zio­ne di un imma­gi­na­rio col­let­ti­vo e razio­na­le, che sap­pia met­te­re in discus­sio­ne la natu­ra­li­tà e l’a-sto­ri­ci­tà del capi­ta­li­smo mostran­do­ne inve­ce l’ir­ra­zio­na­li­tà e l’es­se­re pre­da­to­rio si riman­da con urgen­za e necessità.

TERRITORIO E GOVERNO LOCALE

Mezzogiorno e divari regionali

 Nel pri­mo ven­ten­nio del XXI seco­lo il Mez­zo­gior­no ha subi­to un pro­ces­so di mar­gi­na­liz­za­zio­ne socia­le, eco­no­mi­ca, civi­le. Le distan­ze aggre­ga­te tra Nord e Sud si sono allar­ga­te e sono cre­sciu­te anche le dispa­ri­tà inter­ne al Mez­zo­gior­no tra cit­tà e aree inter­ne, tra regio­ni, tra poli urba­ni e pae­si. Per­ché il Sud arre­tra? Una pri­ma ragio­ne è da ritrac­cia­re nel­le gran­di tra­sfor­ma­zio­ni poli­ti­che, eco­no­mi­che, geo­gra­fi­che e demo­gra­fi­che post-nove­cen­te­sche. Il domi­nio del libe­ri­smo ha impli­ca­to un ridi­men­sio­na­men­to del ruo­lo del­lo Sta­to e del­le poli­ti­che pub­bli­che, a sca­pi­to del­le pri­va­tiz­za­zio­ni e del mer­ca­to, e una disat­ten­zio­ne al tema del­le disu­gua­glian­ze tra per­so­ne e tra ter­ri­to­ri. Con la cadu­ta del Muro e l’allargamento dei pri­mi anni del nuo­vo seco­lo, il bari­cen­tro del­la geo­gra­fia pro­dut­ti­va euro­pea si è pro­gres­si­va­men­te spo­sta­to ver­so Nord-Est e, con­se­guen­te­men­te, anche le prio­ri­tà dell’Ue, aggiu­sta­men­ti che pena­liz­za­no soprat­tut­to le regio­ni debo­li dell’Europa meri­dio­na­le. La dif­fu­sio­ne del­le cate­ne glo­ba­li del valo­re, favo­ri­te dal­le con­nes­sio­ni infor­ma­ti­che e dal­la ridu­zio­ne dei costi di tra­spor­to, han­no indot­to il decen­tra­men­to di fasi inter­me­die di sva­ria­te pro­du­zio­ni nei pae­si invia di svi­lup­po, che han­no spiaz­za­to mol­te regio­ni a “svi­lup­po inter­me­dio”, quel­le che subi­sco­no un dop­pio svan­tag­gio com­pe­ti­ti­vo: dal­le aree con bas­si costi del lavo­ro e da quel­le eco­no­mi­ca­men­te avan­za­te. Ha inci­so e inci­de­rà sem­pre più la tran­si­zio­ne demo­gra­fi­ca, in par­ti­co­la­re i sal­di natu­ra­li nega­ti­vi nell’intera Euro­pa, e le cor­re­la­te ridu­zio­ni del­le for­ze di lavo­ro e aumen­to degli indi­ci di dipen­den­za, per cui l’incremento demo­gra­fi­co dipen­de dal­le migra­zio­ni, che per ragio­ni eco­no­mi­che ten­do­no a diri­ger­si ver­so le regio­ni e le aree urba­ne più for­ti e svi­lup­pa­te. In que­sto nuo­vo sce­na­rio, l’Italia e le sue sin­go­le regio­ni han­no per­so ter­re­no rispet­to alla media Ue, in modo più accen­tua­to quel­le del Sud. La gran­de reces­sio­ne del 2008 e la pan­de­mia del 2020 han­no aggra­va­to le cau­se strut­tu­ra­li del­la decre­sci­ta meri­dio­na­le, non faci­li da muta­re sen­za un’inversione radi­ca­le del­le poli­ti­che pub­bli­che. La dif­fi­col­tà prin­ci­pa­le è il bas­so tas­so di occu­pa­zio­ne, in par­ti­co­la­re per gio­va­ni e don­ne, che si asso­cia alla cre­scen­te pre­ca­riz­za­zio­ne e alle bas­se retri­bu­zio­ni. La dif­fu­sio­ne di som­mer­so e lavo­ro nero, del­le occu­pa­zio­ni sot­to­pa­ga­te e sot­to­tu­te­la­te e dei sus­si­di pub­bli­ci spie­ga­no la resi­lien­za socia­le meri­dio­na­le, anche in anni di dura cri­si economica.

Sep­pu­re meno arti­co­la­to del pas­sa­to, il Mez­zo­gior­no con­ti­nua ad esse­re una gran­de regio­ne euro­pea alquan­to dif­fe­ren­zia­ta al suo inter­no. Il Sud non è una lan­da deso­la­ta, né un mero luo­go d’elezione di assi­sten­zia­li­smo, clien­te­li­smo, devian­ze cri­mi­na­li e mafio­se. Il Sud non è un’area alte­ra, pato­lo­gi­ca­men­te mala­ta e dis­so­nan­te ben­sì un pez­zo ordi­na­rio d’Italia, con limi­ti e cri­ti­ci­tà mag­gio­ri rispet­to al resto del pae­se. Ini­zia­ti­ve pro­dut­ti­ve di qua­li­tà e filie­re di pro­du­zio­ne sono attec­chi­te da tem­po nel Mez­zo­gior­no e altre se ne aggiun­go­no gra­dual­men­te. Abbi­glia­men­to-moda, ali­men­ta­zio­ne, aero­nau­ti­ca e auto sono com­par­ti mani­fat­tu­rie­ri meri­dio­na­li di gran­de rile­van­za nel pano­ra­ma indu­stria­le nazio­na­le, con impre­se inno­va­ti­ve e dina­mi­che. Anche nel set­to­re agri­co­lo del Sud sono radi­ca­te aree di spe­cia­liz­za­zio­ne e aggre­ga­ti pro­dut­ti­vi impor­tan­ti, sem­pre più nel seg­men­to del­le pro­du­zio­ni bio­lo­gi­che e cer­ti­fi­ca­te. Non man­ca­no nep­pu­re espe­rien­ze e poli turi­sti­ci di qua­li­tà e nuclei di ter­zia­rio inno­va­ti­vo, spe­cie attor­no alle uni­ver­si­tà e ai cen­tri di ricer­ca. L’insieme di que­ste espe­rien­ze tut­ta­via non rie­sco­no a per­mea­re il Mez­zo­gior­no e a strut­tu­rar­lo come un’area eco­no­mi­ca e socia­le robu­sta e resi­lien­te. Innan­zi­tut­to per­ché il dina­mi­smo meri­dio­na­le di ter­ri­to­ri, poli e impre­se è alquan­to cir­co­scrit­to e poco dif­fu­so e, in secon­do luo­go, per­ché mol­to spes­so si trat­ta di espe­rien­ze scol­le­ga­te le une dal­le altre e che dun­que non rie­sco­no a con­fi­gu­rar­si come mas­sa cri­ti­ca. D’altro can­to, le poli­ti­che pub­bli­che, anche se for­te­men­te ridi­men­sio­na­te, han­no con­ti­nua­to a soste­ne­re e incen­ti­va­re le sin­go­le ini­zia­ti­ve, qua­si mai il loro adden­sa­men­to in siste­mi inter­con­nes­si, fun­zio­na­li, ter­ri­to­ria­li. Se per lun­ghis­si­mi decen­ni post-uni­ta­ri la “que­stio­ne meri­dio­na­le” si è rias­sun­ta in pover­tà e angu­stie mate­ria­li, oggi mostra soprat­tut­to il vol­to del defi­cit di cit­ta­di­nan­za. La dota­zio­ne e la qua­li­tà dei ser­vi­zi pub­bli­ci essen­zia­li nel Sud sono di gran lun­ga infe­rio­ri al resto del pae­se. Le scuo­le, gli ospe­da­li, i tra­spor­ti, i ser­vi­zi socio-assi­sten­zia­li sono, in media, meno dif­fu­si e meno effi­cien­ti nel Sud, ali­men­tan­do la bas­sa qua­li­tà del­la vita quo­ti­dia­na dei meri­dio­na­li e lo spo­po­la­men­to. Que­ste caren­ze di ser­vi­zi essen­zia­li sono più mar­ca­te nel­le aree inter­ne e nel­le comu­ni­tà più pic­co­le e remo­te, nono­stan­te copra­no quo­te di ter­ri­to­rio e di popo­la­zio­ne rile­van­ti. In Ita­lia, più che altro­ve, la qua­li­tà del wel­fa­re è stret­ta­men­te con­nes­sa alla situa­zio­ne eco­no­mi­ca: i cit­ta­di­ni del­le regio­ni più ric­che, per lo più al Cen­tro-Nord, pos­so­no gode­re di ser­vi­zi di cit­ta­di­nan­za più este­si e miglio­ri, diver­sa­men­te i cit­ta­di­ni del­le regio­ni eco­no­mi­ca­men­te svan­tag­gia­te, per lo più al Sud, devo­no accon­ten­tar­si di ser­vi­zi e di infra­strut­tu­re civi­li per la quo­ti­dia­ni­tà di gran lun­ga infe­rio­ri. Il diva­rio civi­le è mol­to più gra­ve e intol­le­ra­bi­le di quel­lo eco­no­mi­co: in uno stes­so Sta­to uni­ta­rio, come il nostro, tut­ti i cit­ta­di­ni, a pre­scin­de­re da dove vivo­no e dal livel­lo del loro red­di­to dovreb­be­ro, per Costi­tu­zio­ne, poter usu­frui­re, in quan­ti­tà e stan­dard, degli stes­si ser­vi­zi essen­zia­li. Al con­tra­rio, la real­tà pre­sen­ta un’asimmetria accen­tua­ta e cre­scen­te tra i ser­vi­zi col­let­ti­vi di base a dispo­si­zio­ne degli ita­lia­ni del Nord e di quel­li per gli ita­lia­ni del Sud, un’odiosa seg­men­ta­zio­ne del­la cit­ta­di­nan­za che rischia di aggra­var­si ulte­rior­men­te se scia­gu­ra­ta­men­te andas­se in por­to il cosid­det­to “regio­na­li­smo dif­fe­ren­zia­to”, ma anche se non si modi­fi­ca radi­cal­men­te l’impianto tec­no­cra­ti­co e top-down del Pnrr.

Il Mez­zo­gior­no, deru­bri­ca­to da tem­po a mero pro­ble­ma loca­le emer­gen­zia­le, può ritor­na­re ad esse­re que­stio­ne di inte­res­se nazio­na­le sol­tan­to attra­ver­so un’inversione del­lo sguar­do: guar­da­re l’Italia tut­ta dal Sud, le cit­tà metro­po­li­ta­ne dal­le aree inter­ne e dai pic­co­li pae­si di mon­ta­gna e di col­li­na, l’Europa dal Medi­ter­ra­neo, il Nord dal Mez­zo­gior­no, il cen­tro dal mar­gi­ne. Non una sem­pli­ce e mec­ca­ni­ca inver­sio­ne del­la dire­zio­na­li­tà dell’osservazione, ben­sì un nuo­vo modo di guar­da­re al tut­to dai luo­ghi e dal­le per­so­ne mar­gi­na­liz­za­te da un siste­ma eco­no­mi­co capi­ta­li­sti­co e da poli­ti­che libe­ri­ste divi­si­ve, pola­riz­zan­ti, squi­li­bran­ti. Se si abban­do­na la postu­ra, ana­li­ti­ca e poli­ti­ca, domi­nan­te, il Mez­zo­gior­no, para­fra­san­do Car­lo Aze­glio Ciam­pi, appa­re come il luo­go con la più pro­met­ten­te “riser­va di futu­ro” per l’Italia. I gio­va­ni, i por­ti, le pro­du­zio­ni ali­men­ta­ri bio­lo­gi­che e di nic­chia, il Medi­ter­ra­neo, il sole, il mare, il ven­to, i pae­si, l’Appennino, la musi­ca, i boschi, il cine­ma, la let­te­ra­tu­ra, sono risor­se di “futu­ro” rela­ti­va­men­te abbon­dan­ti nel Mez­zo­gior­no e, spes­so, rela­ti­va­men­te scar­se altro­ve. Se rico­no­sciu­te, in pri­mo luo­go dai meri­dio­na­li, come risor­se “abi­li­tan­ti” per il cam­bia­men­to, e se valo­riz­za­te in modo inte­gra­to in una visio­ne poli­ti­ca nazio­na­le nuo­va, con­sen­ti­reb­be­ro di ripen­sa­re uno svi­lup­po “dal vol­to uma­no” per il Sud e per l’Italia.

Il Mez­zo­gior­no potrà esse­re la riser­va di futu­ro dell’Italia se ritor­na al cen­tro dell’attenzione pub­bli­ca nazio­na­le. Ser­vo­no innan­zi­tut­to case­mat­te sim­bo­li­che, segni tan­gi­bi­li di inver­sio­ne di rot­ta. Pri­ma anco­ra di tra­sfe­ri­men­ti finan­zia­ri, di poli­ti­che ter­ri­to­ria­li, di soste­gno ai sog­get­ti isti­tu­zio­na­li loca­li. L’innovazione più gran­de è inco­rag­gia­re spe­ran­za e mobi­li­ta­zio­ne, can­cel­lan­do prov­ve­di­men­ti sim­bo­lo del­la mar­gi­na­liz­za­zio­ne del Sud e pro­muo­ven­do, nel con­tem­po, azio­ni a soste­gno del­le isti­tu­zio­ni e del­le popo­la­zio­ni più fra­gi­li ma con ele­va­te poten­zia­li­tà di cam­bia­men­to di sistema.

La pri­ma can­cel­la­zio­ne è rela­ti­va al regio­na­li­smo dif­fe­ren­zia­to, con­di­zio­ne indi­spen­sa­bi­le per affer­ma­re che i dirit­ti di cit­ta­di­nan­za di ogni ita­lia­no non pos­so­no esse­re dif­fe­ren­zia­ti, che il benes­se­re col­let­ti­vo e le infra­strut­tu­re fon­da­men­ta­li del­la vita quo­ti­dia­na non sono lega­ti né al red­di­to né alla geo­gra­fia, che l’Italia è un pae­se uni­to e che per costi­tu­zio­ne i ceti socia­li ric­chi, a pre­scin­de­re dal­la loro col­lo­ca­zio­ne ter­ri­to­ria­le, con­tri­bui­sco­no soli­da­ria­men­te a soste­ne­re i ceti svantaggiati.

Una secon­da can­cel­la­zio­ne riguar­da il para­dos­so del Pnrr di finan­zia­re i biso­gni attra­ver­so ban­di “com­pe­ti­ti­vi”, che impli­ca che le ammi­ni­stra­zio­ni pub­bli­che più strut­tu­ra­te sot­to il pro­fi­lo pro­get­tua­le e gestio­na­le cat­tu­ri­no risor­se indi­pen­den­te­men­te dal livel­lo dei biso­gni socia­li. E’ già suc­ces­so che Comu­ni già dota­ti di strut­tu­re e ser­vi­zi per l’infanzia abbia­mo “vin­to” finan­zia­men­ti per rea­liz­za­re nuo­ve strut­tu­re men­tre Comu­ni del tut­to sprov­vi­sti di tali ser­vi­zi, a ragio­ne del­la loro debo­lez­za orga­niz­za­ti­va, non sono riu­sci­ti a “vin­ce­re” la com­pe­ti­zio­ne. Con il risul­ta­to che un Pia­no desti­na­to nel­le inten­zio­ni a ridur­re le distan­ze fini­sce per raf­for­zar­le. I biso­gni non si met­to­no a ban­do, van­no sod­di­sfat­ti con strut­tu­re e ser­vi­zi ade­gua­ti lad­do­ve man­ca­no o sono carenti.

Il Mez­zo­gior­no ha un dispe­ra­to biso­gno di raf­for­za­re le ammi­ni­stra­zio­ni comu­na­li, for­te­men­te depo­ten­zia­te dai tagli e dai defi­nan­zia­men­ti del­le poli­ti­che di auste­ri­tà dell’ultimo quin­di­cen­nio. E’ neces­sa­rio con urgen­za un gran­de pia­no di reclu­ta­men­to nei Comu­ni meri­dio­na­li di cen­ti­na­ia di miglia­ia di gio­va­ni pre­pa­ra­ti e moti­va­ti: inge­gne­ri, eco­no­mi­sti, socio­lo­gi, infor­ma­ti­ci, bota­ni­ci, agro­no­mi, valu­ta­to­ri, ani­ma­to­ri, espe­ri in gestio­ne e ren­di­con­ta­zio­ne di pro­get­ti. L’accanito dar­wi­ni­smo isti­tu­zio­na­le degli ulti­mi anni ha impo­ve­ri­to la pla­tea isti­tu­zio­na­le nell’intero Pae­se e in modo più dra­sti­co nel Sud. I Comu­ni sono rima­sti gli uni­ci pre­si­di isti­tu­zio­na­li nel Mez­zo­gior­no, a mag­gior ragio­ne è dun­que neces­sa­rio un loro deci­so raf­for­za­men­to attra­ver­so una nuo­va leva di gio­va­ni tec­ni­ci, fun­zio­na­ri, amministrativi.

Il futu­ro del Mez­zo­gior­no, e dell’Italia, è in lar­ga par­te lega­to al desti­no del­le sue aree inter­ne. Da decen­ni le clas­si domi­nan­ti, acce­ca­ti dall’illusione urba­no-cen­tri­ca, han­no abban­do­na­to le aree inter­ne, con­dan­nan­do­le alla pro­gres­si­va deser­ti­fi­ca­zio­ne demo­gra­fi­ca e pro­dut­ti­va. La mar­gi­na­liz­za­zio­ne di que­ste aree appen­ni­ni­che ha impli­ca­to non solo la scom­par­sa di eco­si­ste­mi vita­li, di sape­ri seco­la­ri, di pro­du­zio­ni di nic­chia di qua­li­tà, di abi­li­tà rura­li sedi­men­ta­te, ma anche rischi cre­scen­ti per le cit­tà a val­le, che si mani­fe­sta­no con­ti­nua­men­te sot­to­for­ma di allu­vio­ni e fra­ne disa­stro­se, di caren­za di acqua, di ten­sio­ni e affol­la­men­to abi­ta­ti­vi. Si è col­pe­vol­men­te dimen­ti­ca­to che l’abbandono del­le aree inter­ne di col­li­na e di mon­ta­gna avreb­be por­ta­to con sé anche la scom­par­sa di diver­si­fi­ca­ti beni pub­bli­ci di estre­ma uti­li­tà per le popo­la­zio­ni di pia­nu­ra. Per dare innan­zi­tut­to digni­tà ai restan­ti del­le aree inter­ne meri­dio­na­li e per avvia­re pro­ces­si del ripo­po­la­men­to uma­no, sul­la scia del­le poli­ti­che atti­va­te dal­la Snai sareb­be assai uti­le soste­ne­re le uni­ver­si­tà meri­dio­na­li in pros­si­mi­tà del­le aree inter­ne affin­ché avvii­no pro­gram­mi di ricer­ca-azio­ne in que­ste aree, di rico­gni­zio­ne di risor­se e biso­gni, di coin­vol­gi­men­to atti­vo del­le popo­la­zio­ni loca­li, di fer­ti­liz­za­zio­ne incro­cia­ta tra cono­scen­ze con­te­stua­li e cono­scen­ze scien­ti­fi­che. Finan­zia­men­ti “ordi­na­ri” aggiun­ti­vi alle uni­ver­si­tà del Sud inten­zio­na­te ad abbrac­cia­re la mis­sio­ne civi­le del­la rina­sci­ta dei ter­ri­to­ri inter­ni sareb­be­ro uti­lis­si­mi oltre che ai ter­ri­to­ri mar­gi­na­liz­za­ti alle stes­se uni­ver­si­tà in ter­mi­ni di spe­ri­men­ta­zio­ne didat­ti­ca e di ricer­ca, di rela­zio­ni coo­pe­ra­ti­ve tra cen­tri e peri­fe­rie, tra ricer­ca appli­ca­ta di imme­dia­ta uti­li­tà sociale.

Aree interne

L’Italia è il pae­se del­la diver­si­tà: il nostro trat­to nazio­na­le è la varie­tà ter­ri­to­ria­le. Que­sta non ci divi­de, ma ci uni­sce. I pro­ble­mi di un Sin­da­co di un pic­co­lo Comu­ne nel­le Alpi nord-occi­den­ta­li, sono simi­li a quel­li di un Sin­da­co di un pic­co­lo Comu­ne appen­ni­ni­co del cen­tro-sud: demo­gra­fia avver­sa, infra­strut­tu­re di cit­ta­di­nan­za debo­li, man­can­za di tra­sfe­ri­men­ti. Ma anche lon­ta­nan­za dal­le scuo­le, dai pre­si­di sani­ta­ri, dai tra­spor­ti: la logi­ca dell’eccellenza e del­la con­cen­tra­zio­ne ter­ri­to­ria­le in pochi gran­di “poli” non è adat­ta al nostro Pae­se. L’esigibilità dei dirit­ti di cit­ta­di­nan­za richie­de la pre­sen­za di infra­strut­tu­re di beni e ser­vi­zi di qua­li­tà, eco­no­mi­ca­men­te acces­si­bi­li, vici­ni alle per­so­ne e ai loro biso­gni quo­ti­dia­ni. Pos­sia­mo anche dir­la così: le aree inter­ne rispon­do­no a una “doman­da di diver­si­tà”, ma per esse­re in gra­do di sod­di­sfa­re que­sta doman­da han­no biso­gno di atten­zio­ne pub­bli­ca, poli­ti­che ter­ri­to­ria­li dedi­ca­te e rico­no­sci­men­to poli­ti­co-socia­le. Vive­re lon­ta­ni dall’offerta dei ser­vi­zi essen­zia­li, crea “cit­ta­di­ni dimez­za­ti”. Le aree inter­ne ita­lia­ne, inol­tre, sono sen­za “voce” e pri­ve di rap­pre­sen­tan­za, svuo­ta­te del­la capa­ci­tà di inci­de­re sul­la distri­bu­zio­ne del­le risor­se pub­bli­che. Pur essen­do pari al 53% dei Comu­ni ita­lia­ni, a più del 60% del ter­ri­to­rio e a cir­ca il 23% del­la popo­la­zio­ne, sono esclu­se dal­la sfe­ra pub­bli­ca. Tan­to spa­zio, ma poco peso poli­ti­co. Sono “man­gia­te” dal dise­gno dei col­le­gi elet­to­ra­li e sono sta­te pri­va­te del­le uni­che isti­tu­zio­ni inter­me­die che le rap­pre­sen­ta­va­no, le comu­ni­tà mon­ta­ne. La Leg­ge “Del Rio” (leg­ge n. 56/2014) sul­le cit­tà metro­po­li­ta­ne è un fal­li­men­to poli­ti­co e isti­tu­zio­na­le, che con­se­gna all’irrilevanza il gover­no del poli­cen­tri­smo ter­ri­to­ria­le. Cosa abbia­mo gua­da­gna­to dal sacri­fi­cio ritua­le del­le isti­tu­zio­ni inter­me­die? L’antipolitica ha sacri­fi­ca­to le Pro­vin­ce e le Comu­ni­tà Mon­ta­ne, ma ha lascia­to intat­to la “casta” che vole­va spaz­za­re via. Il risul­ta­to è che un ter­ri­to­rio com­ples­so e arti­co­la­to come quel­lo ita­lia­no è sta­to con­se­gna­to a isti­tu­zio­ni lon­ta­ne dai biso­gni del­le per­so­ne nei luo­ghi; con le Regio­ni, e le cit­tà metro­po­li­ta­ne, dele­ga­te al ruo­lo di isti­tu­zio­ni inter­me­die, ma in modo del tut­to inef­fi­ca­ce e incon­si­sten­te. Qua­le imma­gi­ne evo­ca la deno­mi­na­zio­ne “cit­tà metro­po­li­ta­na”? Edi­fi­ci, piaz­ze e monu­men­ti con­nes­si da una rete di tra­spor­to, soprae­le­va­to e/o sot­ter­ra­neo; conur­ba­zio­ni segna­te dall’alternarsi di case, capan­no­ni e rac­cor­di stra­da­li; cen­tri abi­ta­ti con una ele­va­ta den­si­tà demo­gra­fi­ca che si esten­do­no in aree pia­neg­gian­ti. Ma quel­le che oggi in Ita­lia sono deno­mi­na­te cit­tà metro­po­li­ta­ne sono, con pochis­si­me ecce­zio­ni, costi­tui­te da per­cen­tua­li rile­van­ti di Comu­ni mon­ta­ni e/o par­zial­men­te mon­ta­ni. Geno­va, la “cit­tà di mare”, è par­te dell’area metro­po­li­ta­na ita­lia­na con il più alto indi­ce di mon­ta­ni­tà. Anche la cit­tà metro­po­li­ta­na di Tori­no è carat­te­riz­za­ta in gran­de par­te da un ter­ri­to­rio mon­ta­no. Fat­ta ecce­zio­ne per Mila­no e Vene­zia, 10 su 12 cit­tà metro­po­li­ta­ne ita­lia­ne sono costi­tui­te da per­cen­tua­li impor­tan­ti di Comu­ni clas­si­fi­ca­ti come mon­ta­ni o par­zial­men­te mon­ta­ni; 6 (Geno­va, Roma, Reg­gio-Cala­bria, Mes­si­na, Paler­mo, Caglia­ri) han­no più del 50% di Comu­ni mon­ta­ni o par­zial­men­te montani.

Que­sto esem­pio è para­dig­ma­ti­co di una situa­zio­ne più gene­ra­le: i ter­ri­to­ri del mar­gi­ne non sono rap­pre­sen­ta­ti nel­le scel­te di inve­sti­men­to pub­bli­co di lun­go perio­do, che sono inve­ce amma­lia­te dal­la dife­sa di posi­zio­ni di ren­di­ta di bre­ve perio­do a favo­re di pochi grup­pi, indi­vi­dui o aree “polo”, con il con­sen­so atti­vo del­la poli­ti­ca e del­la rego­la­zio­ne pub­bli­ca. Del resto, qua­le poli­ti­co costrui­reb­be la sua car­rie­ra sul con­sen­so di aree che non han­no peso elet­to­ra­le? E qua­le comu­ne di costa si met­te­reb­be con­tro gli inte­res­si “che con­ta­no”? E non sarà il “pic­co­lo­bor­ghi­smo” esplo­so duran­te la pan­de­mia a sal­va­re le aree inter­ne e mon­ta­ne. Come già per la cul­tu­ra, l’evocazione del “bor­go” fa sì che anche la valo­riz­za­zio­ne del ter­ri­to­rio sia tale solo se inglo­ba­ta nel­la gof­fa ege­mo­nia del turi­smo petro­lio d’Italia, che paga sala­ri ridi­co­li e non lascia valo­re sul ter­ri­to­rio. Nes­su­no sguar­do di lun­go perio­do, nes­su­na atten­zio­ne per la vita quo­ti­dia­na del­le per­so­ne che in quei luo­ghi abi­ta­no o vor­reb­be­ro tra­sfe­rir­si. Una nar­ra­zio­ne fal­sa e selet­ti­va, quel­la dei bor­ghi, basa­ta sul­la bel­lez­za come descrit­to­re vuo­to e con chia­ri con­no­ta­ti di clas­se e di potere.

Che fare, dun­que? La Stra­te­gia Nazio­na­le per le Aree Inter­ne (SNAI) ave­va indi­vi­dua­to tre linee di inter­ven­to, che van­no oggi poten­zia­te e valorizzate:

a. Tute­la del ter­ri­to­rio e sicu­rez­za degli abitanti;

b. Pro­mo­zio­ne del­la diver­si­tà culturale/naturale e del policentrismo;

c. Rilan­cio del­lo svi­lup­po attra­ver­so l’uso di risor­se non sfrut­ta­te o uti­liz­za­te male.

La tute­la del ter­ri­to­rio e dei suoi abi­tan­ti deve pas­sa­re pro­prio attra­ver­so que­sti ulti­mi: i cit­ta­di­ni del­le aree inter­ne devo­no esse­re mes­si in gra­do di acqui­si­re cono­scen­ze tali da poter pro­muo­ve­re e svol­ge­re le atti­vi­tà di mes­sa in sicu­rez­za del ter­ri­to­rio attra­ver­so un’ordinaria atti­vi­tà di manu­ten­zio­ne, che la popo­la­zio­ne avrà inte­res­se ad attua­re pro­prio per­ché ne trar­rà dei van­tag­gi. La tute­la e la con­ser­va­zio­ne infat­ti non sono più del­le azio­ni “pas­si­ve”, cioè degli obiet­ti­vi da per­se­gui­re attra­ver­so il non inter­ven­to, il “lascia­re tut­to com’è”; la tute­la deve pas­sa­re, anzi, attra­ver­so l’azione intel­li­gen­te dell’uomo sul pro­prio ter­ri­to­rio al fine di con­ser­var­lo, resti­tuen­do alle comu­ni­tà loca­li il com­pi­to del­la sua tute­la. Il neo-popo­la­men­to voca­zio­na­le e le stra­te­gie per attuar­lo, quin­di, sono al cen­tro dell’azione.  Oltre all’interesse, le popo­la­zio­ni del­le aree inter­ne devo­no anche pos­se­de­re le cono­scen­ze neces­sa­rie per attua­re l’attività di tute­la e con­ser­va­zio­ne del ter­ri­to­rio. Tali cono­scen­ze sono il frut­to dell’ibridazione tra sape­ri loca­li e cen­tri ester­ni, tra dimen­sio­ne taci­ta e dimen­sio­ne for­ma­le, tra tra­di­zio­ne e nuo­ve tec­no­lo­gie. Cono­scen­za e inte­res­se, infi­ne, riman­da­no ai regi­mi pro­prie­ta­ri e ai dirit­ti di pro­prie­tà del­le risor­se fon­da­men­ta­li: cosa impli­ca, esat­ta­men­te, l’azione di tute­la e con­ser­va­zio­ne da par­te del­le comu­ni­tà loca­li in ter­mi­ni di dirit­ti di pro­prie­tà? Non sono suf­fi­cien­ti dirit­ti indi­vi­dua­li ben dise­gna­ti. Trat­tan­do­si di beni comu­ni (ter­ra, acqua, pae­sag­gio, cono­scen­za loca­le), è neces­sa­rio dise­gna­re dirit­ti di pro­prie­tà col­let­ti­va e solu­zio­ni con­di­vi­se e di “mes­sa in comu­ne” del­le risor­se loca­li. Inol­tre, la cura dei beni e dei ser­vi­zi “fon­da­men­ta­li” (casa, lavo­ro, tra­spor­ti, scuo­la, salu­te) deve esse­re al cen­tro di poli­ti­che per l’abitabilità quo­ti­dia­na dei luo­ghi. Dise­gno isti­tu­zio­na­le a misu­ra di ter­ri­to­rio, risor­se uma­ne ed eco­no­mi­che dedi­ca­te, pro­ce­du­re velo­ci ed effi­ca­ci, nuo­ve strut­tu­re orga­niz­za­ti­ve di attua­zio­ne e dia­lo­go for­te tra ammi­ni­stra­zio­ne e poli­ti­ca: una poli­ti­ca ter­ri­to­ria­le per le aree inter­ne pone que­stio­ni di inte­res­se gene­ra­le per il Pae­se nel suo insieme.

Accoglienza

Nel 2015, dopo gli esi­ti tra­gi­ci del­le “Pri­ma­ve­re ara­be”, un signi­fi­ca­ti­vo flus­so di pro­fu­ghi dal Nor­da­fri­ca ver­so l’Europa era pre­ve­di­bi­le. Eppu­re, il nostro Pae­se si fece coglie­re impre­pa­ra­to: a pre­va­le­re fu la let­tu­ra emer­gen­zia­le del feno­me­no e, quin­di, la scel­ta poli­ti­ca di alle­sti­re gran­di hotspot e cen­tri di acco­glien­za ad hoc, spes­so situa­ti ai mar­gi­ni di aree metro­po­li­ta­ne già gra­va­te da disa­gio socio-eco­no­mi­co e cre­scen­te insof­fe­ren­za ver­so gli stranieri.

Nono­stan­te ciò, in par­ti­co­la­re tra il 2015 e il 2018, si è rea­liz­za­ta una signi­fi­ca­tiv redi­stri­bu­zio­ne dei richie­den­ti asi­lo sul ter­ri­to­rio nazio­na­le dagli effet­ti in gran par­te impre­vi­sti. Nel qua­dro di una poli­ti­ca nazio­na­le di ricol­lo­ca­men­to che mira­va a sgra­va­re le gran­di cit­tà del peso del­la acco­glien­za e gra­zie alle capil­la­ri ini­zia­ti­ve dei sin­da­ci e del­la socie­tà civi­le – che han­no sapu­to leg­ge­re le oppor­tu­ni­tà offer­te da quel­la situa­zio­ne, con­ver­ten­do lo svan­tag­gio in risor­sa – sia­mo giun­ti ad ave­re nel 2018 oltre il 40% dei pro­fu­ghi ospi­ta­ti in aree inter­ne, spes­so in pic­co­li pro­get­ti lega­ti all’allora siste­ma SPRAR. Come docu­men­ta­to dal­le ricer­che con­dot­te in que­gli anni — tra cui lo stu­dio sui “mon­ta­na­ri per for­za” rea­liz­za­to da Disli­vel­li (Demat­teis, Di Gio­ia e Mem­bret­ti, 2018) e la ricer­ca sugli “Alpi­ne Refu­gees” con­dot­ta dal net­work ForAlps (www.foralps.eu; Per­lik et al. 2019), pro­prio que­ste aree sono sta­te spes­so in gra­do di fare leva sull’arrivo dei rifu­gia­ti per rida­re lin­fa a comu­ni­tà stre­ma­te dal pun­to di vista demo­gra­fi­co, eco­no­mi­co e sociale.

Il siste­ma dell’accoglienza dif­fu­sa ha sapu­to valo­riz­za­re i richie­den­ti asi­lo come leva di svi­lup­po loca­le, gra­zie alla siner­gia tra i fon­di sta­ta­li per l’ospitalità (uti­liz­za­ti a favo­re del­le comu­ni­tà nel loro com­ples­so) e le capa­ci­tà di inno­va­zio­ne dimo­stra­te dai sog­get­ti ter­ri­to­ria­li (Mem­bret­ti, Kofler e Viaz­zo, 2017): riat­ti­va­zio­ne di eco­no­mie cir­co­la­ri, crea­zio­ne di pic­co­le coo­pe­ra­ti­ve di lavo­ro, manu­ten­zio­ne dei beni comu­ni, ser­vi­zi di pros­si­mi­tà per gli anzia­ni, for­ma­zio­ne pro­fes­sio­na­le indi­riz­za­ta alle voca­zio­ni ter­ri­to­ria­li; ma anche man­te­ni­men­to degli spor­tel­li posta­li, del tra­spor­to pub­bli­co loca­le, di pic­co­le scuo­le a rischio di chiu­su­ra. La pre­sen­za dei rifu­gia­ti nel­le aree inter­ne ha gene­ra­to un impat­to glo­bal­men­te posi­ti­vo per le comu­ni­tà ospi­tan­ti (come ana­liz­za­to in que­sti ulti­mi anni dal pro­get­to euro­peo MATILDE: www.matilde-migration.eu), sen­za nascon­de­re alcu­ni ele­men­ti di cri­ti­ci­tà: dove sono man­ca­ti inter­ven­ti e poli­ti­che di radi­ca­men­to loca­le, lega­ti al lavo­ro e alle rela­zio­ni socia­li, tan­ti infat­ti sono gli stra­nie­ri accol­ti che alla fine si sono spo­sta­ti in città.

Eppu­re il nes­so tra acco­glien­za degli immi­gra­ti – rifu­gia­ti così come migran­ti “eco­no­mi­ci” — e svi­lup­po ter­ri­to­ria­le non è sta­to mes­so al cen­tro di alcu­na poli­ti­ca nazio­na­le negli anni a segui­re: anzi, una nuo­va reto­ri­ca poli­ti­ca ha fini­to con l’imporsi, pro­pa­gan­dan­do con vio­len­za l’equazione tra rifugiati/immigrati e costo socia­le, tra immi­gra­zio­ne e minac­cia per la socie­tà. Lo sman­tel­la­men­to del siste­ma SPRAR, la deni­gra­zio­ne e poi l’attacco giu­di­zia­rio al caso emble­ma­ti­co di Ria­ce, la tota­le indif­fe­ren­za ver­so le mor­ti nel Medi­ter­ra­neo sot­to la ban­die­ra del respin­gi­men­to ad oltran­za, sono alcu­ni dei prin­ci­pa­li pas­sag­gi che ci han­no por­ta­to a non aver fat­to teso­ro di quel­le espe­rien­ze posi­ti­ve; per­lo­me­no non a livel­lo di Sta­to centrale.

 Con­si­de­ra­re al con­tra­rio gli stra­nie­ri che arri­va­no in Ita­lia una risor­sa e non un pro­ble­ma, — soprat­tut­to in alcu­ni ter­ri­to­ri a rischio di col­las­so demo­gra­fi­co, come quel­li inter­ni — vuol dire:

1) con­si­de­ra­re il feno­me­no immi­gra­to­rio in un’ottica win-win, di mutuo bene­fi­cio per i migran­ti e per le comu­ni­tà loca­li del­le aree inter­ne, supe­ran­do l’approccio emer­gen­zia­le a favo­re di una poli­ti­ca strut­tu­ra­le e pla­ce-sen­si­ti­ve del­la accoglienza.

2) valu­ta­re in modo mul­ti­di­men­sio­na­le e fon­da­to su basi dati atten­di­bi­li il con­tri­bu­to dei nuo­vi abi­tan­ti allo svi­lup­po loca­le di que­sti ter­ri­to­ri, per cono­sce­re gli aspet­ti su cui si può inter­ve­ni­re e favo­ri­re nel con­tem­po una cor­ret­ta ana­li­si del feno­me­no, non­chè una infor­ma­zio­ne non ideo­lo­gi­ca­men­te viziata.

3) pro­muo­ve­re la par­te­ci­pa­zio­ne atti­va e agen­cy dei nuo­vi abi­tan­ti stra­nie­ri, per favo­rir­ne il radi­ca­men­to ter­ri­to­ria­le e l’esercizio con­cre­to dei dirit­ti di cit­ta­di­nan­za, evi­tan­do che sia­no por­ta­ti a lascia­re le aree inter­ne per spo­star­si altrove.

 Rispet­to al pri­mo pun­to, è fon­da­men­ta­le dise­gna­re le poli­ti­che – anche quel­le migra­to­rie — nei luo­ghi, sul­le base anche del­le esi­gen­ze dei nuo­vi abi­tan­ti, che pos­so­no, insie­me ai resi­den­ti, chie­de­re miglio­ri ser­vi­zi, alzan­do così la capa­ci­tà nego­zia­le dei ter­ri­to­ri stes­si, a par­ti­re da una mag­gio­re mas­sa cri­ti­ca rag­giun­ta. E’ impor­tan­te nel con­tem­po rac­con­ta­re pub­bli­ca­men­te, sul­la base dei mol­ti dati qua­li­ta­ti­vi ormai a dispo­si­zio­ne e den­tro una nar­ra­zio­ne che ribal­ti quel­la basa­ta sul­la disin­for­ma­zio­ne, che nei comu­ni pic­co­li e inter­ni le espe­rien­ze posi­ti­ve di acco­glien­za di migran­ti sono sta­te mol­te e spes­so vin­cen­ti, gra­zie al lavo­ro dei sin­da­ci e del­la socie­tà civi­le. Un ribal­ta­men­to di pro­spet­ti­va, che guar­di alla migra­zio­ne come feno­me­no strut­tu­ra­le che deve esse­re ogget­to di poli­ti­che del­la com­ples­si­tà, in gra­do di coniu­ga­re inclu­sio­ne e resi­lien­za, den­tro model­li di svi­lup­po soste­ni­bi­le e di gover­nan­ce che valo­riz­zi­no il poten­zia­le del­le aree inter­ne non solo in ter­mi­ni di acco­glien­za ma anche come labo­ra­to­ri di inno­va­zio­ne socio-eco­no­mi­ca, basa­ta pro­prio sul­la siner­gia tra i diver­si tipi di abitanti.

 Il secon­do insie­me di poli­cy da costrui­re riguar­da il tema del­la valu­ta­zio­ne di impat­to del­la pre­sen­za immi­gra­ta: a fron­te di una caren­za di dati uti­li e per­ti­nen­ti, soprat­tut­to a sca­le ter­ri­to­ria­li mino­ri come quel­le tipi­che del­le aree inter­ne, sono impor­tan­ti le oppor­tu­ni­tà lega­te al nuo­vo siste­ma del cen­si­men­to per­ma­nen­te, in gra­do nel pros­si­mo futu­ro di pro­dur­re dati sem­pre aggior­na­ti sugli anda­men­ti del­la popo­la­zio­ne nel suo com­ples­so, e dei vari seg­men­ti di inte­res­se. Nel con­tem­po, la cre­scen­te mobi­li­tà (inter­na, cir­co­la­re, tem­po­ra­nea, per­ma­nen­te, ..) del­le per­so­ne, a par­ti­re dai migran­ti inter­na­zio­na­li che giun­go­no in aree rura­li e mon­ta­ne del pae­se da quel­le urba­ne, met­te in luce la neces­si­tà di segui­re in modo pun­tua­le e arti­co­la­to tut­te que­ste per­so­ne nei loro spo­sta­men­ti (inter­ni al pae­se come inter­na­zio­na­li, qua­li quel­li lega­ti al lavo­ro sta­gio­na­le), accen­tuan­do la con­nes­sio­ne tra infor­ma­zio­ni per­so­na­li e posi­zio­ne nel­lo spa­zio, per coglie­re (e quin­di cer­ca­re di gover­na­re) i flus­si nel­la loro com­ples­si­tà e multi-direzionalità.

Il ter­zo ambi­to di poli­cy su cui inter­ve­ni­re è quel­lo del­la agen­cy e del­la par­te­ci­pa­zio­ne atti­va degli immi­gra­ti stra­nie­ri alla vita loca­le nei con­te­sti di arri­vo. Le poli­ti­che su cui inve­sti­re sono dun­que quel­le in gra­do di favo­ri­re il pie­no radi­ca­men­to dei nuo­vi abi­tan­ti stra­nie­ri, den­tro pro­ces­si che favo­ri­sca­no nel con­tem­po la par­te­ci­pa­zio­ne e il pro­ta­go­ni­smo di comu­ni­tà loca­li oggi spes­so mar­gi­na­liz­za­te. Poli­ti­che di nego­zia­zio­ne, anzi­tut­to, che pun­ti­no a media­re e a costrui­re con­giun­ta­men­te oriz­zon­ti di svi­lup­po comu­ne, cen­tra­ti sul­la rea­le con­di­vi­sio­ne di respon­sa­bi­li­tà rispet­to al pre­sen­te e al futu­ro dei ter­ri­to­ri e del­le comu­ni­tà, da con­si­de­ra­re come beni comu­ni. In que­sto sen­so, risul­ta­no cen­tra­li i temi del­l’ac­ces­so (rego­la­re e tute­la­to) degli stra­nie­ri al mer­ca­to del lavo­ro (a fron­te di una nor­ma­ti­va nazio­na­le che stroz­za le pos­si­bi­li­tà di ingres­so nel pae­se per ragio­ni lavo­ra­ti­ve) e alla casa (oggi para­dos­sal­men­te bene raro, anche in aree inter­ne spo­po­la­te) ma anche la mes­sa in cam­po di per­cor­si for­ma­ti­vi spe­ci­fi­ci in gra­do di valo­riz­zar­ne le com­pe­ten­ze e le atti­tu­di­ni pro­fes­sio­na­li, in linea con le voca­zio­ni loca­li e i sape­ri del­le aree interne.

Si apre allo­ra oggi, pro­prio in una situa­zio­ne di cri­si socio-eco­no­mi­ca, ambien­ta­le e geo-poli­ti­ca glo­ba­le, una impor­tan­te occa­sio­ne per rivi­ta­liz­za­re il siste­ma del­la acco­glien­za dif­fu­sa dei migran­ti, pri­vi­le­gian­do le aree inter­ne come labo­ra­to­ri di cit­ta­di­nan­za e di inno­va­zio­ne. Immo­bi­li sot­to uti­liz­za­ti o dismes­si che si pos­so­no riqua­li­fi­ca­re, comu­ni­tà in sof­fe­ren­za demo­gra­fi­ca che pos­so­no esse­re rin­gio­va­ni­te, ser­vi­zi ter­ri­to­ria­li che pos­so­no tro­va­re nuo­vi uten­ti: acco­glie­re i migran­ti nei pic­co­li comu­ni del­le aree inter­ne – nel qua­dro di un pia­no nazio­na­le che sap­pia coniu­ga­re emer­gen­za e pro­gram­ma­zio­ne, soli­da­rie­tà e svi­lup­po loca­le, e che rico­no­sca il pro­ta­go­ni­smo degli abi­tan­ti di que­sti ter­ri­to­ri  – può esse­re dun­que una azio­ne lun­gi­mi­ran­te. Se le cit­tà reste­ran­no pro­ba­bil­men­te il pri­mo polo di inse­ri­men­to degli immi­gra­ti stra­nie­ri, tut­ta­via, pro­prio a par­ti­re dal­la acco­glien­za dif­fu­sa in aree inter­ne, abbia­mo oggi la pos­si­bi­li­tà di apri­re una pagi­na nuo­va, inve­sten­do sull’accoglienza per per­se­gui­re pro­ces­si dura­tu­ri di inno­va­zio­ne eco­no­mi­ca, socia­le e isti­tu­zio­na­le, favo­ren­do inol­tre un rin­no­va­to lega­me tra aree urba­ne e ter­ri­to­ri rurali.

Agricoltura

Non c’è set­to­re del­l’e­co­no­mia con­tem­po­ra­nea che meglio del­l’a­gri­col­tu­ra indu­stria­le mostri l’e­sau­ri­men­to sto­ri­co del modo di pro­du­zio­ne capi­ta­li­sti­co, la sua incom­pa­ti­bi­li­tà, dram­ma­ti­ca­men­te cre­scen­te, con gli equi­li­bri del pia­ne­ta. Così come non c’è ambi­to che meglio del­la pro­du­zio­ne agri­co­la mostri un’al­ter­na­ti­va mate­ria­le già in atto, un nuo­vo modo di fare eco­no­mia, capa­ce di rige­ne­ra­re la ter­ra, rispet­tan­do l’am­bien­te, tute­lan­do il lavo­ro. Quan­do par­lia­mo di agri­col­tu­ra indu­stria­le ci rife­ria­mo più esat­ta­men­te al siste­ma mon­dia­le di pro­du­zio­ne del cibo. Quin­di com­pren­dia­mo anche gli alle­va­men­ti inten­si­vi, la sta­bu­la­zio­ne di diver­se deci­ne di miliar­di di buoi, maia­li, pol­li che occu­pa­no oltre il 30% del­la super­fi­cie ara­bi­le del­la Ter­ra e richie­do­no una pari esten­sio­ne per col­ti­va­re soia, mais, orzo, etc., desti­na­ti alla loro ali­men­ta­zio­ne. Dun­que un immen­sa super­fi­cie sot­trat­ta alla pro­du­zio­ne agri­co­la per l’a­li­men­ta­zio­ne uma­na, ma al tem­po stes­so, una gigan­te­sca fon­te di con­ta­mi­na­zio­ne del­le risor­se idri­che, dei suo­li fer­ti­li, di pro­du­zio­ne di meta­no, un poten­te gas climalterante.

Quan­do si fa cen­no agli squi­li­bri ambien­ta­li pro­vo­ca­ti dal­l’a­gri­col­tu­ra indu­stria­le ci si limi­ta di soli­to a ram­men­ta­re che essa con­tri­bui­sce per alme­no il 30% al riscal­da­men­to glo­ba­le. Si trat­ta di una valu­ta­zio­ne super­fi­cia­le, uti­le al ceto poli­ti­co e agli ambien­ti scien­ti­fi­ci di sup­por­to, che   pen­sa­no di risol­ve­re i pro­ble­mi attra­ver­so l’in­no­va­zio­ne tec­ni­ca, in que­sto caso cam­bian­do le fon­ti di ener­gia. Mostria­mo quin­di bre­ve­men­te e per cen­ni che il siste­ma mon­dia­le di pro­du­zio­ne del cibo sta let­te­ral­men­te distrug­gen­do la Terra.

Il pri­mo aspet­to da ricor­da­re è che il modo estrat­ti­vo di pro­dur­re beni agri­co­li, con l’u­so siste­ma­ti­co di con­ci­ma­zio­ne chi­mi­ca, diser­ban­ti, fito­far­ma­ci, nel cor­so degli anni iste­ri­li­sce il suo­lo e lo espo­ne all’a­zio­ne distrut­ti­va degli agen­ti cli­ma­ti­ci. Si cal­co­la che ogni anno si per­do­no nel mon­do tra 10–12 milio­ni di ter­re fer­ti­li. Dun­que l’a­gri­col­tu­ra capi­ta­li­sti­ca distrug­ge pro­gres­si­va­men­te le basi stes­se del­la pro­pria eco­no­mia.  Non basta. Il model­lo attua­le di pro­du­zio­ne e alle­va­men­to con­su­ma alme­no il 70% del­le risor­se idri­che del pia­ne­ta. Si trat­ta di un siste­ma intro­dot­to dagli USA negli anni ’50, con la cosid­det­ta Rivo­lu­zio­ne ver­de, che ha ele­va­to la pro­dut­ti­vi­tà del­l’a­gri­col­tu­ra attra­ver­so tre leve: semen­ti ibri­de, con­ci­ma­zio­ne chi­mi­ca, irri­ga­zio­ne. Tale model­lo si è impo­sto a livel­lo glo­ba­le. E’ sta­to cal­co­la­to che tra il 1950 e il 1985 la pro­du­zio­ne agri­co­la mon­dia­le misu­ra­ta in gra­no è cre­sciu­ta del 250%. Ma nel­lo stes­so tem­po gli input di ener­gia impie­ga­ti sono aumen­ta­ti del 5000%. Una spro­por­zio­ne gigan­te­sca. Per 10,000 anni l’a­gri­col­tu­ra ha pro­dot­to ener­gia in for­ma di cibo e di fibre, con­sen­ten­do al gene­re uma­no di cre­sce­re ed espan­der­si, ora la con­su­ma in pro­por­zio­ni gigan­te­sche. Occor­re aggiun­ge­re che non si trat­ta solo di sper­pe­ro. Dob­bia­mo con­si­de­ra­re anche i dan­ni eco­no­mi­ci, ambien­ta­li, socia­li pro­dot­ti da tale siste­ma. La con­ci­ma­zio­ne chi­mi­ca, ad esem­pio, con­ta­mi­na le fal­de idri­che coi nitra­ti, impo­nen­do ai comu­ni i costi del­la depu­ra­zio­ne, ma col tem­po ha mostra­to dan­ni più vasti. L’a­zo­to e il fosfo­ro tra­sci­na­ti dai fiu­mi nei mari e nei laghi pro­vo­ca l’eu­tro­fiz­za­zio­ne del­le acque e ucci­de, per caren­za di ossi­ge­no, ogni for­ma di vita. Negli anni sono emer­se le cosid­det­te dead zone, le zone mor­te, come quel­le del Gol­fo del Mes­si­co o del Mar Bal­ti­co, ma si cal­co­la che nel mon­do alme­no 20.000 Km2 di baie mari­ne sono col­pi­te dal feno­me­no con dan­ni rile­van­ti alle popo­la­zio­ni  costie­re che per­do­no l’e­co­no­mia del­la pesca.

Ma anche le nostre popo­la­zio­ni per­do­no eco­no­mie. L’a­van­za­re del­le mono­col­tu­re indu­stria­li e la pres­sio­ne dei super­mer­ca­ti han­no fat­to scom­pa­ri­re in euro­pa una mol­ti­tu­di­ne di con­ta­di­ni, crean­do deser­ti ter­ri­to­ria­li. Nell ‘Euro­pa a 28, tra il 2003 e il 2016, sono sta­ti abban­do­na­ti 27 milio­ni di etta­ri, l’I­ta­lia ha per­du­to il 46,8% del­le sue impre­se. Scom­pa­io­no i con­ta­di­ni e aumen­ta­no i brac­cian­ti immi­gra­ti che vivo­no in con­di­zio­ne di semi-schiavitù.

Per fini­re   con l’e­sa­me del­l’in­so­ste­ni­bi­li­tà di que­sto model­lo ram­men­tia­mo che esso ha distrut­to e con­ti­nua a distrug­ge­re la bio­di­ver­si­tà, sia natu­ra­le che agri­co­la. Ma la bio­di­ver­si­tà è il patri­mo­nio gene­ti­co del­la Ter­ra, la nostra più gran­de ric­chez­za, frut­to del­l’e­vo­lu­zio­ne natu­ra­le e del mil­le­na­rio lavo­ro di sele­zio­ne dei con­ta­di­ni. Poco meno di un seco­lo fa ave­va­mo miglia­ia di varie­tà di riso, di gra­no, di pata­te, di mele, di pere, di viti, oggi ne abbia­mo poche deci­ne, per­ché l’a­gri­col­tu­ra indu­stria­le ha sele­zio­na­to quel­le più pro­dut­ti­ve e più adat­te ai trasporti.

Ma tale uni­for­mi­tà gene­ti­ca, carat­te­ri­sti­ca del­le mono­col­tu­re spe­cia­liz­za­te, costi­tui­sce un impo­ve­ri­men­to gra­ve, ogni nuo­va malat­tia distrug­ge tut­to il rac­col­to, come avvie­ne coi virus negli alle­va­men­ti inten­si­vi, e al tem­po stes­so non for­ni­sce dife­sa alle pian­te di fron­te al caos climatico.

A tale  eco­no­mia sui­ci­da c’è alter­na­ti­va. Da decen­ni l’a­gri­col­tu­ra bio­lo­gi­ca e bio­di­na­mi­ca, la per­ma­cul­tu­ra, e altre pra­ti­che che ripren­do­no la poli­col­tu­ra con­ta­di­na, sono in cre­sci­ta in tut­te le regio­ni del mon­do. Oggi l’a­groe­co­lo­gia è il ter­mi­ne che abbrac­cia que­sti model­li di agri­col­tu­ra, che sono spes­so il frut­to del­la col­la­bo­ra­zio­ne tra scien­zia­ti e con­ta­di­ni, i qua­li fron­teg­gia­no le avver­si­tà cli­ma­ti­che e dei paras­si­ti tra­mi­te la mesco­lan­ze dei semi e del­le pian­te, esal­tan­do la bio­di­ver­si­tà. Que­ste nuo­ve eco­no­mie rige­ne­ra­no costan­te­men­te la fer­ti­li­tà dei suo­li, non uti­liz­za­no i con­ci­mi chi­mi­ci, ma il leta­me ani­ma­le e il com­po­st. Con­ser­van­do e arric­chen­do la sostan­za orga­ni­ca, che signi­fi­ca imma­gaz­zi­na­re car­bo­nio, le pian­te han­no biso­gno di poca acqua, resi­sto­no più effi­ca­ce­men­te alla sic­ci­tà. Gli imput ener­ge­ti­ci crol­la­no e gli inter­ven­ti chi­mi­ci si ridu­co­no enor­me­men­te o scom­pa­io­no. Al tem­po stes­so i pro­dot­ti sono incon­ta­mi­na­ti e supe­rio­ri per qua­li­tà a quel­li industriali.

L’I­ta­lia è secon­da solo alla Spa­gna, in Euro­pa, per le super­fi­ci col­ti­va­te a bio­lo­gi­co, con 1 milio­ne 800 mila etta­ri, il 15% del­la super­fi­ce col­ti­va­ta. E gio­va ricor­da­re che tan­to l’agricoltura bio­lo­gi­ca che quel­la bio­di­na­mi­ca si inscri­vo­no oggi all’in­ter­no  del  pro­get­to Green Deal. Euro­pa pri­mo con­ti­nen­te a impat­to cli­ma­ti­co zero entro il 2050.Dunque l’a­gri­col­tu­ra alter­na­ti­va rap­pre­sen­ta un fron­te in espan­sio­ne per­fi­no den­tro i rego­la­men­ti del­l’Eu­ro­pa neo­li­be­ri­sta, per la for­za intrin­se­ca che ha il model­lo agroe­co­lo­gi­co, per il favo­re cre­scen­te che i cit­ta­di­ni, come in USA, in Ame­ri­ca Lati­na e in altre par­ti del mon­do, accor­da­no ai beni agri­co­li sani del­l’a­gri­col­tu­ra sen­za chimica.

Pro­po­ste

1)Assegnare un red­di­to di pre­si­dio ambien­ta­le a tut­ti i pic­co­li col­ti­va­to­ri euro­pei col­lo­ca­ti in col­li­na e in montagna.

 2) Accor­da­re alle regio­ni la pos­si­bi­li­tà di fis­sa­re un prez­zo mini­mo di acqui­sto del­le prin­ci­pa­li der­ra­te sta­gio­na­li (pomo­do­ri, aran­ce, ecc.) da par­te del­le gran­di cate­ne di distribuzione.

3) Una leg­ge di soste­gno per la for­ma­zio­ne di coo­pe­ra­ti­ve di ven­di­ta che rac­col­ga­no le pro­du­zio­ni disper­se dei pic­co­li coltivatori.

Poli­ti­ca agri­co­la, eco­no­mia con­ta­di­na e svol­ta ecologica

 Negli ulti­mi 38 anni sono spa­ri­te due azien­de agri­co­le su tre ma negli ulti­mi 10 anni è aumen­ta­to il nume­ro del­le azien­de con una dimen­sio­ne supe­rio­re a 100 etta­ri che, pur essen­do solo l’1,6% del tota­le, col­ti­va­no il 30% del­la ter­ra. Un nuo­vo lati­fon­di­smo che ren­de dif­fi­ci­le ogni pos­si­bi­li­tà di ingres­so di nuo­vi agri­col­to­ri. La mor­ta­li­tà del­le azien­de agri­co­le non è equa­men­te ripar­ti­ta tra le regio­ni ita­lia­ne. In effet­ti del­le cir­ca 900.000 azien­de con una dimen­sio­ne infe­rio­re ai 10 etta­ri, meno di un quar­to sono al Nord, il 15% al Cen­tro ed il 60% nel Mez­zo­gior­no (cioè 527.293 azien­de). Un patri­mo­nio fon­da­men­ta­le a dife­sa del­le aree inter­ne e del­le zone più svan­tag­gia­te del paese.

L’agricoltura è un set­to­re che offre lavo­ro a milio­ni di per­so­ne anche se negli ulti­mi 10 anni abbia­mo per­so più di un milio­ne di per­so­ne al lavo­ro. Uffi­cial­men­te resta­no anco­ra poco meno di 3 milio­ni. La tra­sfor­ma­zio­ne dell’occupazione in agri­col­tu­ra segue una ten­den­za che vede ridur­si gra­dual­men­te il peso del­la mano­do­pe­ra fami­lia­re – dovu­to alla spa­ri­zio­ne del­le pic­co­le e medie azien­de agri­co­le (quel­le fino a 30 etta­ri) – a van­tag­gio di azien­de di più gran­de dimen­sio­ne, a for­te capi­ta­liz­za­zio­ne, in cui il lavo­ro è svol­to da dipen­den­ti di cui, però, qua­si il 70% è costi­tui­to da lavo­ra­to­ri assun­ti in “for­ma sal­tua­ria”, cioè gior­na­lie­ri. Il pre­ca­ria­to – anche in agri­col­tu­ra, con i feno­me­ni di sfrut­ta­men­to cono­sciu­ti da tut­ti che spes­so scon­fi­na­no qua­si nel­la schia­vi­tù – sta diven­tan­do la rego­la sosti­tuen­do la sta­bi­li­tà del lavo­ro indi­pen­den­te del­le azien­de diret­to col­ti­va­tri­ci. In effet­ti i lavo­ra­to­ri dipen­den­ti extraeu­ro­pei uffi­cial­men­te cen­si­ti sono pre­sen­ti in mol­te regio­ni ma con una con­cen­tra­zio­ne in Emi­lia Roma­gna, nel cuo­re dell’agricoltura industriale.

Anche se nel 2020 la mano­do­pe­ra fami­lia­re è pre­sen­te nel 98,3% del­le azien­de, il model­lo agri­co­lo ita­lia­no – gra­zie all’ingiusta ripar­ti­zio­ne del soste­gno pub­bli­co sia euro­peo che nazio­na­le che pre­mia gli etta­ri inve­ce che il lavo­ro – è domi­na­to da un ristret­tis­si­mo nume­ro di gran­di e gran­dis­si­me azien­de spe­cia­liz­za­te, sem­pre più spes­so di pro­prie­tà di socie­tà, tra cui ban­che ed assi­cu­ra­zio­ni, che —  peren­ne­men­te in cri­si a cau­sa dell’insostenibilità dei pro­ces­si di indu­stria­liz­za­zio­ne dell’agricoltura — soprav­vi­vo­no gra­zie allo sfrut­ta­men­to del­la mano­do­pe­ra e al con­ti­nuo sup­por­to da par­te del­le poli­ti­che nazio­na­li e regio­na­li. La con­cen­tra­zio­ne di que­sti tipi di azien­de in pochis­si­me regio­ni ha crea­to ampie zone di deser­ti­fi­ca­zio­ne, un pro­ces­so di distru­zio­ne del­le risor­se natu­ra­le – ne è ripro­va l’impatto del­la sic­ci­tà nel­le acque sia di super­fi­cie che di fal­da – che si abbat­te sull’intero pae­se. Inca­pa­ci di un’effettiva svol­ta eco­lo­gi­ca, di una sta­bi­liz­za­zio­ne dell’occupazione fon­da­men­ta­le per que­sto tipo di tran­si­zio­ne, soste­nu­te da grup­pi di pote­re ben strut­tu­ra­ti den­tro la pub­bli­ca ammi­ni­stra­zio­ne e da un siste­ma di rap­pre­sen­tan­za asso­lu­ta­men­te anti­de­mo­cra­ti­co e che pro­teg­ge inte­res­si costi­tui­ti, la filie­ra è così diven­ta­ta la fon­te di mate­rie pri­me a bas­so costo per la GDO e l’industria agroalimentare .

Il mer­ca­to inter­no, nono­stan­te il qua­dro sin qui deli­nea­to, vede anco­ra una buo­na pre­sen­za di pro­du­zio­ni di pros­si­mi­tà che deb­bo­no com­pe­te­re con prez­zi decre­scen­ti, spes­so al disot­to dei costi di pro­du­zio­ne, spes­so fron­teg­gia­ti con un mag­gior (auto)sfruttamento anche del­la mano­do­pe­ra fami­lia­re e del conduttore/trice. Le azien­de di pic­co­la e media dimen­sio­ne non han­no fino ad oggi avu­to nes­sun ascol­to nel­la defi­ni­zio­ne del­le poli­ti­che pub­bli­che – tan­to da pro­vo­ca­re un for­te richia­mo al Gover­no da par­te del­la Com­mis­sio­ne euro­pea – e neces­si­ta­no di un rico­no­sci­men­to che met­ta al pri­mo posto la qua­li­tà dell’occupazione, il meto­do agroe­co­lo­gi­co del­la pro­du­zio­ne, la spe­ci­fi­ci­tà dei loro biso­gni e la dife­sa del­la loro auto­no­mia. Auto­no­mia che è sta­ta fon­da­men­ta­le nel momen­to del­la cri­si del COVID. Scri­ve l’ISTAT “La dimen­sio­ne azien­da­le ha rap­pre­sen­ta­to un fat­to­re discri­mi­nan­te per la resi­lien­za del­le azien­de agri­co­le. Con­si­de­ran­do la dimen­sio­ne in ter­mi­ni di mano­do­pe­ra, la per­cen­tua­le di azien­de con alme­no 10 ULA che han­no dichia­ra­to effet­ti dal­la pan­de­mia è sta­ta del 58,8%, cin­que vol­te più alta rispet­to a quel­la rile­va­ta per le azien­de più pic­co­le, fino a 1 ULA (11,6%)…”.

Le pro­po­ste che discen­do­no da que­sta pro­spet­ti­va sono le seguenti:

1)     Que­ste azien­de, che resta­no il siste­ma fon­da­men­ta­le dell’agricoltura ita­lia­na non han­no biso­gno di ele­mo­si­ne, ma di poli­ti­che pub­bli­che basa­te sui loro biso­gni, capa­ci di con­tra­sta­re la loro per­ma­nen­te dimi­nu­zio­ne nume­ri­ca, adat­te a con­tra­sta­re le posi­zio­ne di domi­nio asso­lu­to di poche cen­tra­li d’acquisto e di pochis­si­me indu­strie semen­tie­re nazio­na­li o mul­ti­na­zio­na­li. Ma anche in gra­do di arre­sta­re il pro­ces­so di acca­par­ra­men­to di ter­re e di con­su­mo di suo­lo, sia a fini urba­ni­sti­ci che agri­co­li (neces­sa­ria pro­te­zio­ne del­la ter­ra agricola);

2)      Occor­re svi­lup­pa­re poli­ti­che posi­ti­ve che favo­ri­sco­no la crea­zio­ne di nuo­ve azien­de, nume­ro­se e quin­di di pic­co­le e medie dimen­sio­ni, favo­ren­do l’accesso all’uso del­la ter­ra da par­te di gio­va­ni o quan­ti voglia­no, in par­ti­co­la­re nel­le zone mon­ta­ne e collinari.

3)     Occor­re garan­ti­re il dirit­to degli agri­col­to­ri a pro­dur­re, ripro­dur­re, con­ser­va­re, scam­bia­re e ven­de­re le pro­prie semen­ti ad altri agri­col­to­ri come stru­men­to fon­da­men­ta­le per pro­dur­re il neces­sa­rio adat­ta­men­to del­le col­ti­va­zio­ni ai cam­bia­men­ti climatici.

Turismi e turismo per il futuro

 Il turi­smo è un set­to­re non solo impor­tan­te, ma anche irri­nun­cia­bi­le nel nostro Pae­se. Ma non a tut­ti i costi. Non più per tut­ti i turi­smi. Negli ulti­mi decen­ni, con una pro­gres­sio­ne sem­pre più aggres­si­va e mono­spe­ci­fi­ca, il turi­smo si è impo­sto come un set­to­re eco­no­mi­co il cui vigo­re è rap­pre­sen­ta­to osses­si­va­men­te da due indi­ca­to­ri di quan­ti­tà: pre­sen­ze e arri­vi (da cui gli incas­si). Que­sta cop­pia di indi­ca­to­ri la dice lun­ga su quan­to il turi­smo sia un set­to­re dove la mas­sa è quel che con­ta. E se è la mas­sa a con­ta­re, l’industria turi­sti­ca si inven­ta di tut­to per attrar­re attrar­re e anco­ra attrar­re. Qua­lun­que cosa ecci­ti l’attrattività ha facol­tà di esi­ste­re per il turi­smo di mas­sa. Può esse­re così doma­ni? Pro­via­mo a con­cen­trar­ci su tre aspet­ti: a) ambien­te: il turi­smo di mas­sa usa ed abu­sa del­le risor­se natu­ra­li e pae­sag­gi­sti­che sia estraen­do quan­to più valo­re pos­si­bi­le sia sca­ri­can­do una gran quan­ti­tà di rifiu­ti ed ester­na­li­tà; b) cul­tu­ra: le ori­gi­ni del turi­smo risie­do­no in una vicen­da di for­ma­zio­ne cul­tu­ra­le del­le gio­va­ni éli­te euro­pee; di quell’impegno for­ma­ti­vo si è per­sa trac­cia; c) buon lavo­ro: sap­pia­mo che la for­za lavo­ro del turi­smo è spes­so pre­ca­ria, sfrut­ta­ta, mal paga­ta, con poche garan­zie socia­li. Non ser­vo­no discor­si com­ples­si per ren­der­si con­to di cosa il turi­smo di mas­sa ha lascia­to in ere­di­tà lun­go miglia­ia di chi­lo­me­tri di coste ita­lia­ne, cen­ti­na­ia di etta­ri di aree alpi­ne, deci­ne e deci­ne di cen­tri sto­ri­ci dive­nu­ti brut­ti cen­tri com­mer­cia­li. Risul­ta­ti resi pos­si­bi­li gra­zie a enor­mi con­ces­sio­ni pub­bli­che a bas­so o zero costo (spiag­ge, boschi, pra­ti, fiu­mi, lagu­ne, cen­tri sto­ri­ci, etc.) e a una costan­te spe­sa pub­bli­ca per tene­re in ordi­ne (pur male) stra­de, par­cheg­gi, tra­spor­ti, rac­col­ta e smal­ti­men­to rifiu­ti, musei, par­chi, fer­ro­vie, bus, etc. Beni pub­bli­ci di fat­to pre­da­ti dall’industria turi­sti­ca sen­za che que­sta abbia ver­sa­to il giu­sto prez­zo. Il pros­si­mo turi­smo non può esse­re in nes­sun modo estrattivo/dissipativo/inquinante, lascian­do­ci debi­ti e degra­do. Né può esse­re un turi­smo indif­fe­ren­te alla mis­sio­ne edu­ca­tri­ce da cui è nato. E nep­pu­re può repli­ca­re un model­lo basa­to sul­lo sfrut­ta­men­to lavo­ra­ti­vo sta­gio­na­le. Stan­te che non è cor­ret­to rinun­cia­re al turi­smo in un Pae­se come l’Italia e che occor­re inve­stir­ci anco­ra, al set­to­re dob­bia­mo chie­de­re di cur­var­si con deci­sio­ne alle due più gran­di istan­ze dell’attualità: quel­la eco­lo­gi­co-cli­ma­ti­ca e quel­la dell’equità. Mas­si­ma­men­te quan­do il turi­smo si rivol­ge alle aree inter­ne alle qua­li striz­za l’occhio intra­ve­den­do là nuo­vi ‘mer­ca­ti’, come li chia­ma tra­den­do il viziet­to estrat­ti­vi­sta. Le aree inter­ne sono deli­ca­te e fra­gi­li. La tra­scu­ra­tez­za che han­no subi­to è sta­ta in par­te una for­tu­na poi­ché si sono con­ser­va­te sto­ria e sto­rie, tra­di­zio­ni arti­gia­ne e popo­la­ri, bel­lez­za e schiet­tez­za, natu­ra e cul­tu­ra. Quei patri­mo­ni inter­ni che oggi atti­ra­no l’industria turi­sti­ca deri­va­no dall’enorme sfor­zo col­let­ti­vo di chi nel pas­sa­to si è pre­so cura di quei luo­ghi, ma non cer­to per con­se­gnar­li nel­le mani di pochi spe­cu­la­to­ri. Quel patri­mo­nio inter­no è di tut­ti e non una tavo­la appa­rec­chia­ta per faci­li ren­di­te turi­sti­che. Se le aree inter­ne sono vit­ti­me di spo­po­la­men­to, non devo­no cer­to subi­re nuo­ve gen­tri­fi­ca­zio­ni da par­te di chi rastrel­la abi­ta­zio­ni loca­li per far­ci resort di lus­so per facol­to­si turi­sti. Di que­sto turi­smo non ha biso­gno l’interno del Pae­se e van­no eret­ti argi­ni per evi­tar­lo. Oggi pos­sia­mo pro­por­re qual­co­sa di più immu­ne da quei virus: quel­le for­me di turi­smo incar­di­na­te sul bino­mio len­tez­za e viag­gio. Par­tia­mo dal­la len­tez­za che è un anti­do­to natu­ra­le al pen­sie­ro uni­co del­la velo­ci­tà oggi diven­ta­ta una nor­ma socia­le discri­mi­nan­te che si per­met­te, ingiu­sta­men­te e con effet­ti noci­vi, di divi­der­ci tra vin­cen­ti ed effi­cien­ti (i velo­ci) e tra per­den­ti e inef­fi­cien­ti (i non velo­ci). Pra­ti­ca­re la len­tez­za nel tem­po libe­ro, come dire­mo, è un anti­do­to che può aiu­tar­ci a cre­sce­re spi­ri­tual­men­te e cul­tu­ral­men­te e far bene al ter­ri­to­rio e alle sue socie­tà. Alla cri­si non si può rispon­de­re uni­ca­men­te con la velo­ci­tà e la tec­no­lo­gia, sua paren­te stret­ta, ma va con­si­de­ra­ta anche la len­tez­za: tra­scu­rar­la signi­fi­ca pren­der­si una respon­sa­bi­li­tà poli­ti­ca che equi­va­le a esclu­de­re alcu­ne eco­no­mie e un model­lo di pro­gres­so più sano e alter­na­ti­vo. Dopo la paro­la len­tez­za, met­tia­mo al cen­tro di un pro­get­to turi­sti­co per il Pae­se la paro­la viag­gio. Seb­be­ne con viag­gia­re oggi indi­chia­mo pre­va­len­te­men­te lo spo­sta­men­to da un’origine a una desti­na­zio­ne, ridu­cen­do così il signi­fi­ca­to alla fun­zio­ne del tra­spor­to, meno nobi­le, se spo­stia­mo la nostra atten­zio­ne a quel che c’è tra ori­gi­ne e desti­na­zio­ne, ovve­ro il ter­ri­to­rio per­mea­to dal viag­gio, deci­den­do di far­ne la vera meta del nostro turi­smo, la pro­spet­ti­va cam­bia per noi e i ter­ri­to­ri attra­ver­sa­ti. Per noi, per­ché il viag­gio len­to ci aiu­ta ad abbrac­cia­re una dimen­sio­ne espe­rien­zia­le che ci fa apprez­za­re quel che tro­via­mo pas­so dopo pas­so, le rela­zio­ni con i ter­ri­to­ri e gli abi­tan­ti, etc. Per i ter­ri­to­ri in mez­zo, per­ché si tro­va­no pazien­te­men­te per­cor­si e non più velo­ce­men­te attra­ver­sa­ti. Chi va len­to si fer­ma ovun­que desi­de­ri: per visi­ta­re, man­gia­re, ripo­sa­re, dia­lo­ga­re, ammi­ra­re, impa­ra­re. Ognu­na di que­ste azio­ni ‘len­te’ è lega­ta a pos­si­bi­li buo­ni effet­ti cul­tu­ra­li, socia­li ed eco­no­mi­ci che, inve­ce, la velo­ci­tà non depo­si­ta in quel­le ter­re, visto che le sal­ta. Il risul­ta­to è un turi­smo len­to incar­di­na­to su lun­ghe trac­ce – sen­tie­ri e ciclo­vie prin­ci­pal­men­te – a bas­sa velo­ci­tà: cam­mi­ni e ciclo­tu­ri­smi. È qui che abbia­mo urgen­za di investire. 

L’enorme e anti­co patri­mo­nio di sen­tie­ri e cam­mi­ni ita­lia­ni (dal­la via Fran­ci­ge­na al Sen­tie­ro Ita­lia CAI, dal­le anti­che vie etru­sche e roma­ne alle tan­te vie del sale, dai sen­tie­ri sem­pre esi­sti­ti tra pae­si e cam­pa­gne ai trat­tu­ri, etc.) assie­me al più recen­te Siste­ma Nazio­na­le del­le Ciclo­vie Turi­sti­che devo­no con­vin­ta­men­te appar­te­ne­re al pros­si­mo pia­no di inve­sti­men­to infra­strut­tu­ra­le, non meno di altro. In cer­te par­ti d’Europa un chi­lo­me­tro di ciclo­via turi­sti­ca ben pen­sa­to e dise­gna­to è in gra­do di sup­por­ta­re cin­que occu­pa­ti per km gene­ran­do indot­ti a van­tag­gio del­le eco­no­mie loca­li per 2–300.000 euro per km per anno. In Ger­ma­nia i 50.000 km di lun­ghe ciclo­vie sosten­go­no 9 miliar­di di indot­to all’anno per le aree inter­ne e oltre 300.000 posti di lavo­ro a un costo di inve­sti­men­to per km che è 100–150 infe­rio­re a quel­lo di una auto­stra­da. Par­lia­mo di occu­pa­zio­ne di qua­li­tà che per noi coin­ci­de con le nostre oste­rie, pic­co­li nego­zi, musei e ser­vi­zi alla per­so­na. Spes­so nul­la di più che buo­ni ser­vi­zi di vici­na­to oggi sono in sof­fe­ren­za ma che il turi­smo len­to, da viag­gio, potreb­be aiu­ta­re a rige­ne­rar­si sen­za per­de­re iden­ti­tà loca­le. I turi­smi len­ti, però, non sono immu­ni dal cor­rom­per­si in turi­smi di mas­sa. Mol­ti ope­ra­to­ri si stan­no affac­cian­do alla len­tez­za con il loro codi­ce estrat­ti­vo, pro­po­nen­do, tan­to ai turi­sti quan­to ai ter­ri­to­ri attra­ver­sa­ti, dei for­mat che non pre­mia­no né i pri­mi né i secon­di, ma pre­va­len­te­men­te loro stes­si. Occor­re evi­ta­re que­ste nuo­ve for­me di pre­da­zio­ne, lavo­ran­do sul buon pro­get­to di linea len­ta e su pro­get­ti di ter­ri­to­rio che abi­li­ti­no le ammi­ni­stra­zio­ni pub­bli­che loca­li, le impre­se com­mer­cia­li e le azien­de agri­co­le a esse­re loro stes­si pre­sta­to­ri d’opera per i turi­sti e spie­gan­do loro le novi­tà dei turi­smi len­ti itineranti. 

Pro­pon­go due pic­co­li casi ita­lia­ni che stan­no fun­zio­nan­do e han­no ini­zia­to ad apri­re la stra­da a un turi­smo len­to non di mas­sa e non estrat­ti­vo, dimo­stran­do che vi è spa­zio per model­li diver­si e più capa­ci di distri­bui­re van­tag­gi e ren­di­te ai cit­ta­di­ni, alle impre­se e ai luo­ghi. VENTO (www.cicloviavento.it) è il pro­get­to di una ciclo­via nazio­na­le di 700km tra VENe­zia e TOri­no lun­go il fiu­me Po, basa­to pro­prio sull’idea che le per­so­ne si pos­sa­no muo­ve­re libe­ra­men­te e len­ta­men­te lun­go una linea sicu­ra, acces­si­bi­le a tut­ti, con­for­te­vo­le e capa­ce di ricu­ci­re la bel­lez­za per­sa e disper­sa. Un pro­get­to che ha richia­ma­to il sog­get­to pub­bli­co al suo ruo­lo di inve­sti­to­re visio­na­rio ma con­cre­to, di siste­ma tan­to alla sca­la vasta, quan­to a favo­re del­le real­tà loca­li. Un pro­get­to che ha ripor­ta­to in pri­mo pia­no l’idea di inve­sti­re su pro­get­ti di linee al posto del­la con­ti­nua spe­sa in con­nes­sio­ni discon­ti­nue e tra­spor­ti­sti­che (le mini-cicla­bi­li) o in pro­mo­zio­ne turi­sti­ca o in bonus per gli ope­ra­to­ri turistici. 

Il secon­do caso è TWIN (www.twin.polimi.it), Trek­king, Wal­king and cycling for INclu­sion, dove si è dimo­stra­to che è pos­si­bi­le fare inven­tan­do­si tan­ti pic­co­li pun­ti di acco­glien­za per cam­mi­nan­ti e peda­lan­ti in viag­gio, ma aven­do cura che tut­to il ciclo di rea­liz­za­zio­ne-gestio­ne favo­ri­sca sog­get­ti svan­tag­gia­ti e non estrat­to­ri. Con TWIN è sta­ta rea­liz­za­ta una capan­na in legno al pas­so del­la Cisa all’incrocio tra Sen­tie­ro Ita­lia e via Fran­ci­ge­na, usan­do il legna­me del­la tem­pe­sta Vaia2018, facen­do lavo­ra­re quat­tro dete­nu­ti su un pro­get­to a mano pub­bli­ca (del Poli­tec­ni­co di Mila­no che ha usa­to i fon­di del 5per1000), ingag­gian­do isti­tu­ti tec­ni­ci per la for­ma­zio­ne dei dete­nu­ti, coin­vol­gen­do pic­co­li comu­ni e asso­cia­zio­ni (a par­ti­re dal CAI) e dan­do in gestio­ne la capan­na a una coo­pe­ra­ti­va loca­le che a sua vol­ta assu­me una per­so­na svan­tag­gia­ta per gesti­re capan­na e turi­sti len­ti: par­te del­la tarif­fa va a lei. Due casi, VENTO e TWIN, che han­no inter­pre­ta­to il turi­smo len­to secon­do un’altra decli­na­zio­ne, pos­si­bi­le e gra­de­vo­le, più atten­ta a rispet­ta­re i ter­ri­to­ri, abi­li­tar­ne le loro qua­li­tà e dare una rispo­sta con­cre­ta alle fra­gi­li­tà. Due casi che un pro­get­to poli­ti­co visio­na­rio può vede­re come pun­ti di par­ten­za. Il turi­smo len­to, se pen­sa­to per tem­po ovve­ro oggi, può esse­re un labo­ra­to­rio pri­vi­le­gia­to dove coniu­ga­re cre­sci­ta cul­tu­ra­le, cura del pae­sag­gio e dell’ambiente, inclu­sio­ne socia­le e rige­ne­ra­zio­ne ter­ri­to­ria­le per le aree più fra­gi­li. Tut­te cose che non avven­go­no però per caso né con il vec­chio mar­ke­ting né con la reto­ri­ca dei bonus per acqui­sta­re una bici­clet­ta, ma con un pro­get­to pre­ci­so e pub­bli­co, con una visio­ne di insie­me (la linea len­ta) e con valo­ri e prin­ci­pi di gestio­ne nuo­vi e fer­ma­men­te inclu­si­vi. Un pro­get­to di ter­ri­to­rio che si può fare.

Regioni ed enti locali

A par­ti­re dal­la rifor­ma uli­vi­sta del Tito­lo V del­la Costi­tu­zio­ne (2001), il prin­ci­pio di sus­si­dia­rie­tà è il ful­cro intor­no al qua­le sono model­la­ti i rap­por­ti tra lo Sta­to e gli enti ter­ri­to­ria­li. Nucleo del­la sus­si­dia­rie­tà è l’idea che deb­ba­no esse­re i cit­ta­di­ni a occu­par­si diret­ta­men­te del­le que­stio­ni che li riguar­da­no, così che i pote­ri pub­bli­ci, a par­ti­re da quel­li comu­na­li, per poi pas­sa­re a quel­li pro­vin­cia­li, regio­na­li e sta­ta­li (sus­si­dia­rie­tà in sen­so “ver­ti­ca­le”), sono da rite­ner­si legit­ti­ma­ti a inter­ve­ni­re solo se i cit­ta­di­ni non sono in gra­do di fare da sé (sus­si­dia­rie­tà in sen­so “oriz­zon­ta­le”).

In defi­ni­ti­va: prio­ri­tà al pri­va­to sul pub­bli­co e, se pro­prio pub­bli­co dev’essere, prio­ri­tà agli enti ter­ri­to­ria­li mino­ri. Una visio­ne, dun­que, dop­pia­men­te antistatalista.

A favo­re del­la sus­si­dia­rie­tà sono soli­ta­men­te por­ta­te tre argomentazioni:

1) Gli enti ter­ri­to­ria­li mino­ri, a par­ti­re dai comu­ni, sono quel­li più atten­ti ai biso­gni dei cit­ta­di­ni, per­ché ope­ra­no a con­tat­to diret­to e quo­ti­dia­no con gli stes­si e sareb­be­ro quin­di in gra­do di meglio cono­scer­ne le esigenze;

2) mino­re è la dimen­sio­ne ter­ri­to­ria­le degli enti pub­bli­ci, più con­trol­la­bi­li dagli ammi­ni­stra­ti essi risul­ta­no: l’azione pub­bli­ca più pros­si­ma sareb­be, infat­ti, quel­la meglio cono­sci­bi­le e veri­fi­ca­bi­le dai cittadini;

3) mag­gio­ri sono i com­pi­ti attri­bui­ti agli enti loca­li di dimen­sio­ni mino­ri, mag­gio­re è l’efficienza ammi­ni­stra­ti­va com­ples­si­va del siste­ma pub­bli­co, dal momen­to che è dal­la distan­za tra gover­nan­ti e gover­na­ti che deri­ve­reb­be­ro inef­fi­cien­ze, spre­chi e ruberie.

All’atto pra­ti­co, tut­ta­via, tali ipo­te­ti­ci van­tag­gi sono spes­so risul­ta­ti rove­scia­ti in spe­cu­la­ri svantaggi:

1) la vici­nan­za tra gover­nan­ti e gover­na­ti ren­de i pri­mi più con­di­zio­na­bi­li dagli inte­res­si di par­te dei secon­di, disto­glien­do l’amministrazione pub­bli­ca (loca­le o regio­na­le) dal­la rea­liz­za­zio­ne dell’interesse generale;

2) nume­ro­si pote­ri loca­li, spe­cie comu­na­li e regio­na­li, sono sta­ti tra­vol­ti da cla­mo­ro­si casi di cor­ru­zio­ne: la mag­gio­re vici­nan­za ai cit­ta­di­ni può infat­ti tra­dur­si in mag­gio­re faci­li­tà di con­tat­to tra mal­go­ver­no e malaffare;

3) è dub­bio che l’efficienza di cui alcu­ne ammi­ni­stra­zio­ni loca­li han­no fat­to moti­vo di van­to sia attri­bui­bi­le all’autonomia di cui godo­no, essen­do piut­to­sto, alme­no in par­te, ricon­du­ci­bi­le alle dise­gua­glian­ze di cui alcu­ne zone del ter­ri­to­rio nazio­na­le si avvan­tag­gia­no da tempo.

Oltre alla rifor­ma del Tito­lo V del 2001, nume­ro­si e con­ti­nui inter­ven­ti nor­ma­ti­vi han­no inte­res­sa­to la mate­ria negli ulti­mi anni (a par­ti­re dal­le leg­gi Bas­sa­ni­ni del 1997–1999 sul «fede­ra­li­smo a Costi­tu­zio­ne inva­ria­ta», sino alla leg­ge Del­rio del 2014 sul­la tra­sfor­ma­zio­ne del­le pro­vin­ce in enti elet­ti­vi di secon­do livel­lo, pas­san­do per la nor­ma­ti­va sul fede­ra­li­smo fisca­le intro­dot­ta a par­ti­re dal 2009 e mai defi­ni­ti­va­men­te entra­ta a regime).

In mol­ti casi, la con­fu­sio­ne nor­ma­ti­va ha lascia­to sco­per­te fun­zio­ni basi­la­ri (soprat­tut­to pro­vin­cia­li) come la manu­ten­zio­ne degli isti­tu­ti sco­la­sti­ci, del­le stra­de, del ter­ri­to­rio in gene­ra­le. In altri, tra­du­cen­do­si di fat­to nel­la cri­stal­liz­za­zio­ne del cri­te­rio del­la “spe­sa sto­ri­ca”, ha acui­to oltre il tol­le­ra­bi­le le dise­gua­glian­ze ter­ri­to­ria­li nell’attuazione dei dirit­ti fon­da­men­ta­li: in par­ti­co­la­re, la salu­te, l’assistenza, l’istruzione.

Un dato su tut­ti: secon­do l’Istat, la spe­ran­za di vita alla nasci­ta è pari, in Umbria a 85,6 anni per le don­ne e a 81,1 anni per gli uomi­ni; in Cam­pa­nia è di 83,3 anni per le don­ne e di 78,4 anni per gli uomi­ni: una dif­fe­ren­za tra i due anni e mez­zo e i tre anni di vita tra cit­ta­di­ne e cit­ta­di­ni che, in teo­ria, vivo­no nel­lo stes­so Pae­se! Con­si­de­ra­zio­ni simi­li potreb­be­ro esse­re svol­te con riguar­do alla scuo­la, all’università, all’assistenza socia­le, all’abitazione.

Eppu­re, al cen­tro del dibat­ti­to pub­bli­co in mate­ria di poli­ti­che ter­ri­to­ria­li, anzi­ché le cre­scen­ti dise­gua­glian­ze, cam­peg­gia­no le richie­ste di regio­na­li­smo dif­fe­ren­zia­to avan­za­te (per ora) da Vene­to, Lom­bar­dia ed Emi­lia Roma­gna e vol­te a ulte­rior­men­te raf­for­za­re i ter­ri­to­ri già più forti.

Su tut­to, domi­na l’insensato discor­so sui resi­dui fisca­li regio­na­li (sul­la base del fal­so pre­sup­po­sto che sia­no le regio­ni e non i cit­ta­di­ni a paga­re le tas­se…), fina­liz­za­to a rat­trap­pi­re egoi­sti­ca­men­te e inco­sti­tu­zio­nal­men­te la soli­da­rie­tà da nazio­na­le a regio­na­le: come se, nell’affrontare il pro­ble­ma del­la redi­stri­bu­zio­ne del­la ric­chez­za, la regio­ne di resi­den­za fos­se più impor­tan­te del­la con­di­zio­ne di benes­se­re o indigenza.

Occor­re cam­bia­re ver­so, con l’obiettivo di dare a tut­ti gli ita­lia­ni, in qua­lun­que par­te del ter­ri­to­rio nazio­na­le viva­no, egua­li oppor­tu­ni­tà di rea­liz­za­re i pro­pri pro­get­to di vita. La logi­ca di mer­ca­to, impron­ta­ta alla con­cor­ren­za, non può esse­re ele­va­ta a cri­te­rio attra­ver­so cui gesti­re i rap­por­ti tra Sta­to e auto­no­mie. Ter­ri­to­ri e cit­tà non devo­no esse­re costret­ti a ope­ra­re in com­pe­ti­zio­ne gli uni con­tro gli altri, ma devo­no poter con­ta­re sul­la soli­da­rie­tà reci­pro­ca. Le risor­se van­no distri­bui­te con l’obiettivo pri­ma­rio di miglio­ra­re i ser­vi­zi là dove più sono caren­ti, nel con­tem­po pre­ser­van­do quel­li che già han­no rag­giun­to ido­nei livel­li di qualità.

In que­sto qua­dro, par­te del­le com­pe­ten­ze attual­men­te attri­bui­te alle regio­ni devo­no tor­na­re a esse­re gesti­te dal­lo Sta­to, in par­ti­co­la­re in quei set­to­ri dove si è per­du­ta, o si sta per­den­do, la dimen­sio­ne nazio­na­le dell’azione poli­ti­ca. Negli ambi­ti del­la salu­te, del­la scuo­la, del­la for­ma­zio­ne, del­la tute­la dei beni cul­tu­ra­li, del­la pro­te­zio­ne dell’ambiente, del gover­no del ter­ri­to­rio le com­pe­ten­ze regio­na­li van­no ridot­te a bene­fi­cio dell’incremento del­le com­pe­ten­ze del­lo Stato.

Il regio­na­li­smo dif­fe­ren­zia­to va respin­to e un pro­fon­do ripen­sa­men­to deve inve­sti­re le regio­ni a Sta­tu­to spe­cia­le: la spe­cia­li­tà ha in gran par­te per­so giu­sti­fi­ca­zio­ne e si è tra­sfor­ma­ta in pri­vi­le­gio odio­so e con­tro­pro­du­cen­te. L’eventuale attri­bu­zio­ne con leg­ge costi­tu­zio­na­le di poche com­pe­ten­ze ulte­rio­ri (per esem­pio, in ambi­to lin­gui­sti­co), moti­va­te da ragio­ni ogget­ti­ve, deve pren­de­re il posto degli Sta­tu­ti spe­cia­li. Insom­ma: tut­te le regio­ni tor­ni­no a esse­re ordi­na­rie e con com­pe­ten­ze cir­co­scrit­te a pro­fi­li non riguar­dan­ti dirit­ti costi­tu­zio­na­li da garan­ti­re egual­men­te a tutti.

Occor­re, inol­tre, rimet­te­re al cen­tro la que­stio­ne meridionale.

Il Mez­zo­gior­no d’Italia è ora­mai uno dei ter­ri­to­ri più arre­tra­ti d’Europa. Trop­pe risor­se poli­ti­che, intel­let­tua­li ed eco­no­mi­che sono sta­te negli ulti­mi anni rivol­te ad affron­ta­re una que­stio­ne set­ten­trio­na­le in effet­ti ine­si­sten­te, men­tre la vera que­stio­ne ter­ri­to­ria­le del Pae­se, quel­la meri­dio­na­le, veni­va dimen­ti­ca­ta e abban­do­na­ta a se stessa.

L’arretratezza del meri­dio­ne deve diven­ta­re un tema sen­ti­to da tut­ti gli ita­lia­ni, per­ché è l’intero Pae­se a pati­re la per­di­ta di oppor­tu­ni­tà eco­no­mi­che, socia­li e cul­tu­ra­li che ne deri­va (ovvia­men­te, anche a cau­sa del­la dif­fu­sio­ne in tut­to il Pae­se del­la cri­mi­na­li­tà orga­niz­za­ta). Occor­re pen­sa­re a for­me di inter­ven­to accen­tra­te a livel­lo sta­ta­le per­ché solo l’azione del­lo Sta­to può ade­gua­ta­men­te far fron­te a un pro­ble­ma che coin­vol­ge lo Sta­to nel suo complesso.

Anco­ra, occor­re apri­re una rifles­sio­ne sul­la for­ma di gover­no dei comu­ni e del­le regio­ni, vizia­ta da un iper-pre­si­den­zia­li­smo che si ritor­ce con effet­ti noci­vi sul loro stes­so ruolo.

Il com­bi­na­to tra l’elezione diret­ta dei ver­ti­ci dell’esecutivo e la loro non-sfi­du­cia­bi­li­tà da par­te dell’organo con­si­lia­re, sal­vo il suo stes­so scio­gli­men­to, ren­de di fat­to sin­da­ci e pre­si­den­ti regio­na­li padro­ni asso­lu­ti del­la vita poli­ti­ca dell’ente da loro ammi­ni­stra­to, dal momen­to che non solo le oppo­si­zio­ni, ma anche le mag­gio­ran­ze non han­no, in effet­ti, alcun ruo­lo signi­fi­ca­ti­vo (anche per­ché è il capo del­la giun­ta a nomi­na­re e revo­ca­re gli asses­so­ri a sua discrezione).

Ciò pro­du­ce un dop­pio effet­to distor­si­vo: da un lato, spo­li­ti­ciz­za la vita pub­bli­ca comu­na­le e regio­na­le, dal momen­to che qual­sia­si dina­mi­ca inter­na è para­liz­za­ta e rin­via­ta alle suc­ces­si­ve ele­zio­ni (come se si potes­se fare poli­ti­ca “a sin­ghioz­zo”, una vol­ta ogni cin­que anni); dall’altro lato, iper-poli­ti­ciz­za il ruo­lo di sin­da­ci e pre­si­den­ti di regio­ne, sino a far­li non di rado assur­ge­re a lea­der di rilie­vo più nazio­na­le che loca­le, disto­glien­do­li dal­la loro pri­ma­ria funzione.

Infi­ne, con riguar­do spe­ci­fi­co agli enti loca­li, occor­re riat­tri­bui­re un ruo­lo cer­to, per com­pe­ten­ze e finan­zia­men­ti, all’ente sovra­co­mu­na­le (pro­vin­cia o cit­tà metro­po­li­ta­na), even­tual­men­te anche accor­pan­do in esso le fun­zio­ni ora attri­bui­te a una ple­to­ra di enti di area vasta a com­pe­ten­za mono­fun­zio­na­li (ambi­ti ter­ri­to­ria­li idri­ci e rifiu­ti, baci­ni imbri­fe­ri, con­sor­zi di varia natu­ra, ecc.).

AZIONE PUBBLICA

Lotta alle mafie

La sto­ria del­le mafie, lun­gi dall’essere una que­stio­ne mera­men­te cri­mi­na­le, è par­te inte­gran­te del­la sto­ria civi­le, socia­le, eco­no­mi­ca e poli­ti­ca d’Italia. Se fos­se­ro sol­tan­to comu­ni asso­cia­zio­ni per delin­que­re o sem­pli­ci orga­niz­za­zio­ni cri­mi­na­li, Cosa nostra, ’ndran­ghe­ta e camor­ra non avreb­be­ro attra­ver­sa­to tut­te le epo­che sen­za solu­zio­ne di con­ti­nui­tà dall’unificazione a oggi. Le mafie meri­dio­na­li sono isti­tu­zio­ni, ancor più che orga­niz­za­zio­ni, e non seguo­no infat­ti tra­iet­to­rie pura­men­te cri­mi­na­li: non si trat­ta sol­tan­to del con­trol­lo vio­len­to di inte­ri ter­ri­to­ri attra­ver­so il rac­ket, l’intimidazione e l’omertà, o del­la movi­men­ta­zio­ne e offer­ta di beni e ser­vi­zi ille­ci­ti; ciò che le con­trad­di­stin­gue sono i rap­por­ti che il pote­re cri­mi­na­le intrat­tie­ne con altri pote­ri uffi­cia­li e con la socie­tà. Que­sti rap­por­ti non si limi­ta­no cer­to alle real­tà loca­li, ma toc­ca­no sto­ri­ca­men­te la gran­de impren­di­to­ria nazio­na­le, mini­stri e pre­si­den­ti del con­si­glio; e se a ciò si aggiun­ge la capa­ci­tà di espan­sio­ne ter­ri­to­ria­le al Nord dimo­stra­ta negli ulti­mi decen­ni, non si può che rite­ne­re fuor­vian­te il rac­con­to di chi vede nel­le mafie il sem­pli­ce frut­to dell’arretratezza di alcu­ne aree del Mez­zo­gior­no, del­le sue clas­si diri­gen­ti e del­la sua società.

A trent’anni dal­le stra­gi che costa­ro­no la vita a Fal­co­ne e Bor­sel­li­no, pos­sia­mo dire che il loro sacri­fi­cio non è sta­to vano. Le bom­be di Cosa Nostra furo­no sen­za dub­bio la rea­zio­ne alla rot­tu­ra dell’impunità sto­ri­ca arri­va­ta con il Maxi­pro­ces­so sul fini­re degli anni Ottan­ta, ma que­sta scel­ta bru­ta­le si è ritor­ta con­tro la mafia, che da allo­ra ha dovu­to affron­ta­re il rifiu­to di gran par­te del­la popo­la­zio­ne e una repres­sio­ne giu­di­zia­ria mol­to più effi­ca­ce anche gra­zie alle misu­re di con­tra­sto da anni invo­ca­te da Fal­co­ne e final­men­te intro­dot­te dopo la sua morte.

Cosa Nostra è pas­sa­ta alla stra­te­gia dell’«inabissamento». Le altre orga­niz­za­zio­ni – più lon­ta­ne dai riflet­to­ri – han­no sfrut­ta­to le oppor­tu­ni­tà aper­te dal­la cri­si dei clan sici­lia­ni per incre­men­ta­re il pro­prio giro d’affari e la pro­pria influen­za sen­za fare trop­po rumo­re. La ’ndran­ghe­ta è dive­nu­ta for­se la più poten­te orga­niz­za­zio­ne cri­mi­na­le del mon­do, assu­men­do un ruo­lo pre­mi­nen­te nel nar­co­traf­fi­co glo­ba­le gra­zie alla sua pre­sen­za nei cin­que con­ti­nen­ti. La sua espan­sio­ne nel Nord Ita­lia, secon­do nume­ro­se inchie­ste giu­di­zia­rie, assu­me i con­tor­ni di una vera e pro­pria colo­niz­za­zio­ne. E negli ulti­mi anni si regi­stra­no feno­me­ni di “gem­ma­zio­ne” di nuo­ve orga­niz­za­zio­ni mafio­se o para­ma­fio­se, sep­pu­re dif­fi­cil­men­te inqua­dra­bi­li nel­le fat­ti­spe­cie pre­vi­ste dal Codi­ce pena­le, come nel caso di Mafia Capi­ta­le a Roma.

Non è cam­bia­ta solo la map­pa del pote­re cri­mi­na­le. Oggi le mafie spa­ra­no meno, sono silen­zio­se, per­si­no invi­si­bi­li, si sono date strut­tu­re orga­niz­za­ti­ve sem­pre più fles­si­bi­li e reti­co­la­ri e ricor­ro­no alla vio­len­za solo come ulti­ma ratio. L’attività cri­mi­na­le vie­ne a fon­dar­si soprat­tut­to su rap­por­ti di scam­bio e col­lu­sio­ne nei mer­ca­ti ille­ga­li e ancor più lega­li, sul­la com­pli­ci­tà siste­ma­ti­ca con impren­di­to­ri, pro­fes­sio­ni­sti, poli­ti­ci, buro­cra­ti, per­si­no magi­stra­ti, spes­so gra­zie al col­lan­te di mas­so­ne­rie e log­ge devia­te. Se lo shock del­le stra­gi e la rin­no­va­ta atten­zio­ne media­ti­ca e civi­le han­no ridot­to il con­sen­so socia­le e cul­tu­ra­le del­la popo­la­zio­ne nei con­fron­ti del­le mafie, è para­dos­sal­men­te aumen­ta­to il con­sen­so “stru­men­ta­le” in diver­si set­to­ri poli­ti­ci ed eco­no­mi­ci, anche e soprat­tut­to al Nord. Come ha effi­ca­ce­men­te sin­te­tiz­za­to la rela­zio­ne fina­le del­la Com­mis­sio­ne anti­ma­fia nel 2018, il con­sen­so mafio­so «è pas­sa­to dal bas­so del­la socie­tà alle élite».

Pen­sia­mo al colos­sa­le busi­ness – e alle dram­ma­ti­che con­se­guen­ze per l’ambiente e per la salu­te – del­lo smal­ti­men­to ille­ga­le dei rifiu­ti tos­si­ci; agli affa­ri nel­la sani­tà pri­va­ta (non solo al Sud ma anche in Lom­bar­dia); al ric­chis­si­mo ban­chet­to del­le gran­di ope­re, a cui le orga­niz­za­zio­ni cri­mi­na­li par­te­ci­pa­no tra­mi­te il mec­ca­ni­smo dei subap­pal­ti (alta velo­ci­tà, MOSE ed Expo 2015 sono gli esem­pi più noti ed ecla­tan­ti); alla pre­sen­za mafio­sa in set­to­ri assai diver­si come il gio­co d’azzardo, i com­pro oro, le ener­gie rin­no­va­bi­li, le cate­ne di super­mer­ca­ti; all’industria del rici­clag­gio dei capi­ta­li spor­chi che, per la Ban­ca d’Italia, rap­pre­sen­ta­va già solo nel 2011 il 10% del Pil ita­lia­no: a pre­va­le­re è un tipo di mafia “som­mer­sa”, che minac­cia in misu­ra mino­re la sicu­rez­za e la vita quo­ti­dia­na del­le per­so­ne, ma è mol­to più peri­co­lo­sa in ter­mi­ni di disu­gua­glian­za socia­le ed ero­sio­ne del­la demo­cra­zia. Una mafia sem­pre più dilui­ta in siste­mi di pote­re e cor­ru­zio­ne a varia den­si­tà cri­mi­na­le, all’interno dei qua­li sfu­ma­no anche i con­fi­ni tra lega­le e ille­ga­le, tra pub­bli­co e pri­va­to. Il che vale non solo quan­do si trat­ta di sofi­sti­ca­te impre­se cri­mi­na­li o di depre­da­zio­ne del dena­ro pub­bli­co su lar­ga sca­la, ma anche per set­to­ri come l’edilizia di base e il movi­men­to terra.

Non dovreb­be­ro sfug­gi­re le impli­ca­zio­ni poli­ti­che di que­sta vera e pro­pria meta­mor­fo­si. Ma per com­pren­der­la anco­ra più a fon­do occor­re tener pre­sen­te che si trat­ta di un feno­me­no glo­ba­le: all’Italia toc­ca il tri­ste pri­ma­to del­la loro “inven­zio­ne” sto­ri­ca, ma soprat­tut­to negli ulti­mi decen­ni le mafie stan­no cono­scen­do uno straor­di­na­rio suc­ces­so in tut­to il pia­ne­ta, rive­lan­do­si un feno­me­no ripro­du­ci­bi­le. Come sostie­ne per esem­pio Fabio Armao, le mafie – inter­con­nes­se in reti trans­na­zio­na­li, pro­ta­go­ni­ste dell’espansione in nuo­ve “colo­nie” ma anco­ra for­te­men­te radi­ca­te nei luo­ghi d’origine – san­no ormai «coniu­ga­re glo­ba­le e loca­le mol­to meglio del­lo sta­to». E sono fun­zio­na­li a un cer­to modo di inten­de­re il capi­ta­li­smo e la politica.

Il capi­ta­li­sta dedi­to al per­se­gui­men­to incon­di­zio­na­to del pro­fit­to può avva­ler­si dei loro ser­vi­zi per annul­la­re la con­cor­ren­za, reclu­ta­re mano­do­pe­ra clan­de­sti­na, repri­me­re qua­lun­que riven­di­ca­zio­ne sala­ria­le, acce­de­re ille­ci­ta­men­te a finan­zia­men­ti pub­bli­ci e pri­va­ti, aggi­ra­re le restri­zio­ni di leg­ge in mate­ria ambien­ta­le, socia­le o di sicu­rez­za. A livel­lo glo­ba­le, le mafie sono in gra­do di far cir­co­la­re quan­ti­ta­ti­vi di dena­ro colos­sa­li e mer­ci ille­ga­li estre­ma­men­te red­di­ti­zie, che però richie­do­no altis­si­mi costi d’investimento, come le dro­ghe o le armi: in que­sto modo pre­sie­do­no a un’accumulazione sel­vag­gia di capi­ta­li sgan­cia­ti da ogni logi­ca di pro­du­zio­ne, fun­zio­na­li a sod­di­sfa­re la sem­pre più for­te richie­sta siste­mi­ca di capi­ta­li liqui­di impo­sta dall’economia glo­ba­le. Non è quin­di una for­za­tu­ra affer­ma­re che la cri­mi­na­li­tà orga­niz­za­ta pro­li­fe­ra e si arric­chi­sce in tut­to il mon­do di pari pas­so con la ten­den­za alla finan­zia­riz­za­zio­ne dell’economia e lo svi­lup­po dei mer­ca­ti offshore.

Le pato­lo­gie del clien­te­li­smo e del­la cor­ru­zio­ne, dif­fu­se anche negli altri pae­si demo­cra­ti­ci, assu­mo­no in Ita­lia una for­ma com­ple­ta­men­te diver­sa e siste­mi­ca soprat­tut­to a cau­sa del­le mafie, che le ali­men­ta­no gra­zie alle loro ingen­ti risor­se di vio­len­za, dena­ro, invi­si­bi­li­tà, rive­lan­do­si gli allea­ti idea­li per quel modo di far poli­ti­ca che vive come un intral­cio le rego­le del­la demo­cra­zia e del­lo sta­to di dirit­to. Con la Secon­da Repub­bli­ca la cor­ru­zio­ne è esplo­sa e si è rin­sal­da­to un siste­ma di appro­pria­zio­ne par­ti­co­la­ri­sti­ca di risor­se col­let­ti­ve in cui le mafie si sono inse­ri­te sem­pre di più, con un ruo­lo di “faci­li­ta­to­ri”. E il regi­me di auste­ri­ty che, a fase alter­ne, l’Italia ha abbrac­cia­to negli ulti­mi trent’anni non ha gio­va­to (smen­ten­do la reto­ri­ca libe­ri­sta dell’«affamare la bestia»): chiu­de­re i rubi­net­ti del­la spe­sa pub­bli­ca non ridu­ce l’afflusso di dena­ro ai pote­ri cri­mi­na­li, ma intac­ca il fun­zio­na­men­to stes­so del Wel­fa­re Sta­te, del­la sani­tà, del­le infra­strut­tu­re e degli enti loca­li, in cui cor­ru­zio­ne e mafie si pos­so­no infil­tra­re anco­ra più a fon­do. La pri­va­tiz­za­zio­ne del­la poli­ti­ca ha fini­to per pri­va­tiz­za­re anche la cor­ru­zio­ne che, secon­do il con­sue­to cir­co­lo vizio­so, ha offer­to nuo­vi pre­te­sti alla reto­ri­ca del­lo Sta­to mini­mo e dell’antipolitica.

Non solo: la pan­de­mia di Covid si è inne­sta­ta in un tes­su­to eco­no­mi­co già segna­to da oltre die­ci anni di cri­si per­ma­nen­te, sca­te­nan­do una gra­ve cri­si di liqui­di­tà per sva­ria­te pic­co­le e medie impre­se che in mol­ti casi si sono rivol­te all’usura di stam­po mafio­so, il cui esi­to è spes­so l’acquisizione dell’azienda da par­te di impren­di­to­ri cri­mi­na­li. Sfrut­tan­do le pro­prie immen­se riser­ve di capi­ta­li e la minac­cia (qua­si mai l’uso diret­to) del­la vio­len­za, le mafie han­no sof­fo­ca­to chi era alla dispe­ra­ta ricer­ca di ossi­ge­no e han­no fat­to shop­ping a buon mer­ca­to, impa­dro­nen­do­si di una fet­ta anco­ra più ampia dell’economia legale.

Qua­le anti­ma­fia, in un qua­dro simi­le? Sul fron­te del con­tra­sto giu­di­zia­rio, occor­re in pri­mo luo­go difen­de­re il qua­dro nor­ma­ti­vo ere­di­ta­to dall’epoca di Fal­co­ne, e difen­de­re i magi­stra­ti che lo appli­ca­no fede­li al prin­ci­pio dell’uguaglianza di tut­ti i cit­ta­di­ni di fron­te alla leg­ge. Esi­ste indub­bia­men­te qual­che discre­pan­za tra le ana­li­si socio­lo­gi­che e gli ele­men­ti empi­ri­ci sul­le mafie appe­na pre­sen­ta­ti e la defi­ni­zio­ne data dal 416-bis, secon­do il qua­le «un’associazione è di tipo mafio­so» se ha come mez­zo spe­ci­fi­co «la for­za di inti­mi­da­zio­ne del vin­co­lo asso­cia­ti­vo e del­la con­di­zio­ne di assog­get­ta­men­to e di omer­tà che ne deri­va». Come abbia­mo visto, infat­ti, non di rado inti­mi­da­zio­ne e assog­get­ta­men­to cedo­no il pas­so al con­sen­so, al sod­di­sfa­ci­men­to – potrem­mo dire – di una doman­da di mer­ca­to dei ser­vi­zi mafio­si. Ciò non signi­fi­ca che il 416-bis – il qua­le ha pro­dot­to risul­ta­ti eccel­len­ti e si pro­po­ne come un model­lo anche agli altri pae­si euro­pei – deve esse­re modi­fi­ca­to, ma che si ren­de neces­sa­ria una rifles­sio­ne su come affian­car­lo con nuo­ve nor­me pena­li in gra­do di col­pi­re la “zona gri­gia”, di anda­re oltre il rea­to di deri­va­zio­ne giu­ri­spru­den­zia­le (e come tale inde­fi­ni­to e di com­ples­sa appli­ca­zio­ne) del con­cor­so ester­no in asso­cia­zio­ne mafio­sa e di ave­re stru­men­ti più affi­la­ti con­tro i pote­ri criminali.

Ma è altret­tan­to evi­den­te che gli stru­men­ti del­la leg­ge non basta­no. E che la reto­ri­ca del­la lega­li­tà è diven­ta­ta qua­si con­tro­pro­du­cen­te, soprat­tut­to oggi che il movi­men­to anti­ma­fia, cre­sciu­to enor­me­men­te dagli anni Novan­ta, si ritro­va in cri­si d’identità, spes­so pri­gio­nie­ro di vec­chi ste­reo­ti­pi e di ceri­mo­nie stan­tie. Un’antimafia per­mea­bi­le a vol­te al gio­co di veri e pro­pri impo­sto­ri, su tut­ti Sil­va­na Sagu­to, ex pre­si­den­te del­la sezio­ne misu­re di pre­ven­zio­ne del tri­bu­na­le di Paler­mo con­dan­na­ta per cor­ru­zio­ne per aver gesti­to ille­ci­ta­men­te i beni seque­stra­ti e con­fi­sca­ti alla mafia, e Anto­nel­lo Mon­tan­te, ex pre­si­den­te di Con­fin­du­stria Sici­lia che men­tre si erge­va a pala­di­no del­la lot­ta a Cosa nostra ave­va crea­to un impres­sio­nan­te siste­ma cri­mi­na­le dedi­to a dos­sie­rag­gi, affa­ri e pat­ti indi­ci­bi­li, per poi esse­re con­dan­na­to per con­cor­so ester­no in asso­cia­zio­ne mafio­sa. Ecco allo­ra l’esigenza di rilan­cia­re un’antimafia radi­ca­ta nel­la socie­tà rea­le. Se la mafia è un feno­me­no eco­no­mi­co, poli­ti­co e socia­le, oltre che cri­mi­na­le, anche la lot­ta alla mafia dovreb­be assu­me­re una pro­spet­ti­va eco­no­mi­ca, poli­ti­ca e socia­le. Di segui­to alcu­ne idee da cui partire:

Sul fron­te economico:

-  Con­tra­sta­re l’usura di stam­po mafio­so aumen­tan­do i fon­di di soli­da­rie­tà e moni­to­ran­do il feno­me­no anche a livel­lo loca­le, ma soprat­tut­to pre­ve­nir­la faci­li­tan­do l’accesso del­le pic­co­le impre­se in rego­la al cre­di­to e ad altre for­me di sostegno.

-  Rive­de­re le nor­me che garan­ti­sco­no il soste­gno agli impren­di­to­ri che denun­cia­no il rac­ket mafio­so, per evi­ta­re che le loro azien­de fal­li­sca­no come acca­de fre­quen­te­men­te a cau­sa del con­di­zio­na­men­to mafioso.

-  Ridur­re le oppor­tu­ni­tà di arric­chi­men­to mafio­so sul mer­ca­to degli stu­pe­fa­cen­ti. Lega­liz­za­re le dro­ghe leg­ge­re toglie­rà alle orga­niz­za­zio­ni cri­mi­na­li un mer­ca­to red­di­ti­zio, ma occor­re inter­ve­ni­re anche sul­la doman­da di beni ille­ci­ti, con un mas­sic­cio inve­sti­men­to in poli­ti­che socia­li, sani­ta­rie e edu­ca­ti­ve per la ridu­zio­ne del con­su­mo di dro­ghe pesan­ti, finan­zia­te con una per­cen­tua­le sui beni sequestrati.

Sul fron­te politico:

- Ridur­re seve­ra­men­te la pos­si­bi­li­tà di appal­ti in regi­me dero­ga­to­rio di som­ma urgen­za e garan­ti­re mag­gio­re tra­spa­ren­za sui subap­pal­ti e in gene­ra­le sul­la gestio­ne del dena­ro pubblico.

- Favo­ri­re l’espansione del­la demo­cra­zia, del­la par­te­ci­pa­zio­ne e del­la tra­spa­ren­za anche a livel­lo loca­le e chia­ri­re i prin­ci­pi inde­ro­ga­bi­li che le Regio­ni non pos­so­no vali­ca­re nell’ambito del­le loro com­pe­ten­ze in mate­ria di ambien­te, ser­vi­zi pub­bli­ci, urbanistica.

- Veri­tà è giu­sti­zia: è il momen­to di toglie­re il segre­to di sta­to sul­le stragi.

Sul fron­te sociale:

- Rifor­ma­re e poten­zia­re l’Agenzia nazio­na­le dei beni seque­stra­ti e gli ana­lo­ghi orga­ni­smi loca­li per favo­ri­re la ricon­ver­sio­ne sociale.

- Inter­ve­ni­re sui con­te­sti socia­li mafio­ge­ni (che riguar­da­no sva­ria­te peri­fe­rie del Nord tan­to quan­to i tra­di­zio­na­li ter­ri­to­ri di inse­dia­men­to mafio­so) con poli­ti­che gio­va­ni­li e inter­ven­ti con­tro la pover­tà mate­ria­le e educativa.

- Pia­no di soste­gno a testi­mo­ni di giu­sti­zia e fami­lia­ri del­le vit­ti­me inno­cen­ti di mafia e ter­ro­ri­smo: mai più soli.

Ma soprat­tut­to, con­tro ogni fal­so una­ni­mi­smo, occor­re ricol­lo­ca­re la lot­ta alle mafie nel con­te­sto più gene­ra­le di una cri­ti­ca al capi­ta­li­smo glo­ba­le di cui sono l’espressione più fero­ce e distrut­ti­va, e di un pro­gram­ma più ampio di giu­sti­zia socia­le e rilan­cio del­la democrazia.

Per una politica del credito pubblico

Il cre­di­to è essen­zia­le per la socie­tà: for­ni­sce le basi per pla­sma­re il siste­ma eco­no­mi­co di doma­ni. È quin­di indi­spen­sa­bi­le che il siste­ma finan­zia­rio abbia come mis­sio­ne pri­ma­ria quel­la di ser­vi­re l’ inte­res­se pub­bli­co, e non quel­lo dei pri­va­ti. Per per­se­gui­re que­sto obiet­ti­vo, è fon­da­men­ta­le costrui­re un asset­to isti­tu­zio­na­le in gra­do di indi­riz­za­re il dena­ro ver­so pro­get­ti e inve­sti­men­ti di uti­li­tà socia­le e ambientale.

L’esperienza del “mira­co­lo eco­no­mi­co ita­lia­no” degli anni ’50 e ’60 del Nove­cen­to mostra che lo straor­di­na­rio svi­lup­po del Pae­se di quei decen­ni fu otte­nu­to attra­ver­so una serie di poli­ti­che chia­ma­ta “nazio­na­liz­za­zio­ne del cre­di­to”. Con que­sto ter­mi­ne non si inten­de che la pro­prie­tà del­le isti­tu­zio­ni finan­zia­rie fos­se pub­bli­ca, ma che diver­se isti­tu­zio­ni tra cui la ban­ca cen­tra­le, gli isti­tu­ti di cre­di­to e diver­se agen­zie gover­na­ti­ve coo­pe­ra­va­no tra loro per allo­ca­re il cre­di­to sul­la base del­le prio­ri­tà socia­li e nazio­na­li. Il cre­di­to era insom­ma con­si­de­ra­to uno stru­men­to poli­ti­co e socia­le, e il siste­ma finan­zia­rio nel suo com­ples­so coo­pe­ra­va nel favo­ri­re i pre­sti­ti alle atti­vi­tà eco­no­mi­che con­si­de­ra­te prioritarie.

L’Italia ha di nuo­vo biso­gno di ciò. La mano invi­si­bi­le del mer­ca­to, lascia­ta libe­ra, pro­du­ce inqui­na­men­to, sfrut­ta­men­to e disu­gua­glian­ze, e pre­mia i pro­fit­ti imme­dia­ti di pochi a sca­pi­to di uno svi­lup­po soste­ni­bi­le e bene­fi­co per tut­te e tut­ti. Ma per finan­zia­re una poli­ti­ca indu­stria­le degna di que­sto nome, gra­zie alla qua­le la col­let­ti­vi­tà pos­sa per­se­gui­re le prio­ri­tà eco­no­mi­che che si è pre­fis­sa­ta, è neces­sa­rio met­te­re in pie­di una nuo­va poli­ti­ca del cre­di­to pubblico.

La pri­ma pro­po­sta con­cre­ta per rag­giun­ge­re que­sto obiet­ti­vo è quel­la di for­ni­re a Cas­sa Depo­si­ti e Pre­sti­ti (CDP) o ad un’istituzione crea­ta ad hoc, ma sem­pre a con­trol­lo pub­bli­co, una licen­za bancaria.

Una licen­za ban­ca­ria per­met­te a un’istituzione finan­zia­ria due fun­zio­ni fon­da­men­ta­li: quel­la di finan­ziar­si pres­so la ban­ca cen­tra­le, e quel­la di pre­sta­re dena­ro alle imprese.

Ad oggi, sia CDP che l’Agenzia nazio­na­le per l’at­tra­zio­ne degli inve­sti­men­ti e lo svi­lup­po d’im­pre­sa (Invi­ta­lia), l’altra isti­tu­zio­ne finan­zia­ria a par­te­ci­pa­zio­ne pub­bli­ca, non han­no una licen­za ban­ca­ria. Entram­be com­pio­no le loro mis­sio­ni di soste­gno alle impre­se par­te­ci­pan­do diret­ta­men­te al loro capi­ta­le. Le for­me impie­ga­te sono varie, ma con­tem­pla­no tut­te l’ingresso nel capi­ta­le di rischio del­le società.

Il cre­di­to, i pre­sti­ti diret­ti alle atti­vi­tà eco­no­mi­che prio­ri­ta­rie, non fan­no inve­ce ad oggi par­te del­la cas­set­ta degli attrez­zi del­le isti­tu­zio­ni finan­zia­rie pub­bli­che. Al fine di indi­riz­za­re la poli­ti­ca indu­stria­le ver­so la tran­si­zio­ne ener­ge­ti­ca, l’occupazione gio­va­ni­le, lo svi­lup­po del­le aree inter­ne del Pae­se, è inve­ce essen­zia­le tor­na­re a una “nazio­na­liz­za­zio­ne del cre­di­to”, e per­met­te­re ad una o più agen­zie pub­bli­che di finan­zia­re gli inve­sti­men­ti a medio-lun­go ter­mi­ne del­le impre­se ita­lia­ne, in linea con l’obiettivo di con­tri­bui­re a pro­get­ti e inve­sti­men­ti di uti­li­tà socia­le e ambientale.

È altre­sì impor­tan­te per­met­te­re a que­ste isti­tu­zio­ni pub­bli­che di finan­ziar­si come le altre ban­che sul mer­ca­to, così come pres­so la ban­ca cen­tra­le. Quest’ultima carat­te­ri­sti­ca per­met­te­reb­be loro di bene­fi­cia­re del­la liqui­di­tà iniet­ta­ta dal­la Ban­ca Cen­tra­le Euro­pea (BCE) attra­ver­so le nor­ma­li ope­ra­zio­ni di mer­ca­to aper­to o ini­zia­ti­ve ecce­zio­na­li come il Quan­ti­ta­ti­ve Easing (QE).

Con­si­de­ria­mo ora il cre­di­to pri­va­to. Anche le ban­che devo­no esse­re al ser­vi­zio dell’interesse gene­ra­le. Non si trat­ta qui di osta­co­la­re la libe­ra impre­sa, ma anzi di attua­re pie­na­men­te l’articolo 41 del­la Costi­tu­zio­ne, che pre­ve­de che l’iniziativa eco­no­mi­ca “non può svol­ger­si in con­tra­sto con l’utilità socia­le o in modo da reca­re dan­no alla salu­te, all’ambiente, alla sicu­rez­za, alla liber­tà, alla digni­tà umana”.

Basta leg­ge­re la cro­na­ca di tut­ti i gior­ni per ren­der­ci con­to di quan­to una par­te del­le impre­se del nostro Pae­se, che sia­no gran­di, medie o pic­co­le, vio­li­no ogni gior­no que­sto arti­co­lo. Lo fan­no sfrut­tan­do e sot­to­pa­gan­do i lavo­ra­to­ri, minan­do­ne la sicu­rez­za a fini di pro­fit­to, dan­neg­gian­do la loro salu­te e quel­la dell’ambiente e del­le comunità.

Una secon­da pro­po­sta con­cre­ta riguar­da quin­di la neces­si­tà di effet­tua­re rego­lar­men­te una veri­fi­ca degli impat­ti eco­no­mi­ci, socia­li ed eco­lo­gi­ci che le ban­che han­no sul­la socie­tà italiana.

Si trat­ta dun­que di veri­fi­ca­re gli inve­sti­men­ti e i pre­sti­ti del­le ban­che ita­lia­ne per valu­tar­ne non solo i pro­fi­li di rischio dal pun­to di vista finan­zia­rio, come già avvie­ne per mano del­la Vigi­lan­za di Ban­ca d’Italia, ma anche il loro impat­to in ter­mi­ni eco­lo­gi­ci, socia­li, di salu­te e sicu­rez­za. Alle ban­che dovreb­be­ro poi esse­re appli­ca­ti dei requi­si­ti non solo patri­mo­nia­li, ma anche socia­li ed eco­lo­gi­ci, in assen­za dei qua­li que­ste ulti­me potreb­be­ro esse­re sanzionate.

Que­sta ini­zia­ti­va con­sen­ti­reb­be di ripu­li­re i flus­si finan­zia­ri, che oggi sono in buo­na par­te orien­ta­ti ver­so gli inve­sti­men­ti in armi, in impre­se poco atten­te ai dirit­ti e alla salu­te dei lavo­ra­to­ri, e soprat­tut­to nei com­bu­sti­bi­li fos­si­li. E per­met­te­reb­be così di indi­riz­za­re anche il cre­di­to pri­va­to, e non solo quel­lo pub­bli­co, a soste­gno del­la tran­si­zio­ne socia­le ed eco­lo­gi­ca di cui il nostro Pae­se ha bisogno.

La giustizia fiscale

In Ita­lia, il prin­ci­pio di pro­gres­si­vi­tà fisca­le è par­te del­la nostra Costi­tu­zio­ne. Per­ché la pro­gres­si­vi­tà è nel­la Costi­tu­zio­ne? Lo Sta­tu­to Alber­ti­no del 1848 pre­ve­de­va la pro­por­zio­na­li­tà. L’Assemblea costi­tuen­te, in pri­ma bat­tu­ta, non vide di buon occhio l’inserimento del­la pro­gres­si­vi­tà. Alla fine però pas­sò, un com­pro­mes­so idea­le tra dirit­ti indi­vi­dua­li e giu­sti­zia socia­le. Si vol­le ripor­ta­re la soli­da­rie­tà tra clas­si diver­se per­ché la pro­gres­si­vi­tà impli­ca che chi più ha non solo sop­por­ti mag­gior cari­co di chi ha meno, ma che lo sop­por­ti in misu­ra più che pro­por­zio­na­le al cre­sce­re del­la ric­chez­za. Oggi inve­ce que­sto prin­ci­pio è lar­ga­men­te disat­te­so, come evi­den­zia­to dal­la nuo­va ricer­ca di Deme­trio Guz­zar­di, Eli­sa Pala­gi, Andrea Roven­ti­ni and Ales­san­dro San­to­ro. Nono­stan­te il prin­ci­pio espres­so nel­la Costi­tu­zio­ne, in Ita­lia la fisca­li­tà è blan­da­men­te pro­gres­si­va e per il 5% piu’ ric­co dei con­tri­buen­ti è addi­rit­tu­ra regres­si­va con un’aliquota effet­ti­va com­ples­si­va infe­rio­re rispet­to al 95% del­la popo­la­zio­ne. La tas­sa­zio­ne pro­gres­si­va dei red­di­ti dovreb­be esse­re alla base del nostro siste­ma fisca­le. Così non è: i red­di­ti di capi­ta­le bene­fi­cia­no di trat­ta­men­ti pri­vi­le­gia­ti gene­ra­liz­za­ti.  I red­di­ti da lavo­ro indi­pen­den­te sono esse­re tas­sa­ti (mol­to) meno di quel­li da lavo­ro dipen­den­te o da pen­sio­ne. La pro­gres­si­vi­tà sui soli red­di­ti da lavo­ro (dipen­den­te o auto­no­mo) è pri­va di soli­de giu­sti­fi­ca­zio­ni poli­ti­che.  Non ci sono inol­tre giu­sti­fi­ca­zio­ni per gli ampi e con­si­sten­ti regi­mi age­vo­la­ti su red­di­ti da capi­ta­le, con dispa­ri­tà di trat­ta­men­to rispet­to al peso del­la tas­sa­zio­ne gra­van­te sul altri red­di­ti, ad ini­zia­re dai red­di­ti di lavoro.

In Ita­lia ci sono qua­si sei milio­ni di per­so­ne in pover­tà asso­lu­ta. Qua­si 11 milio­ni gli ita­lia­ni a rischio pover­tà. Un occu­pa­to su 10 è pove­ro e 1 su 4 ha un bas­so salario.

I costi dell’impatto del­la pan­de­mia sul mer­ca­to del lavo­ro han­no pesa­to in modo pre­va­len­te sull’occupazione fem­mi­ni­le e sui gio­va­ni. È sem­pre più dif­fu­sa la moda­li­tà di lavo­ro “auto­no­mo dipen­den­te”, da inten­der­si come occu­pa­ti for­mal­men­te auto­no­mi ma di fat­to alle dipen­den­ze di un’altra uni­tà eco­no­mi­ca. I sala­ri han­no sof­fer­to in modo dram­ma­ti­co: cir­ca 4 milio­ni di dipen­den­ti del set­to­re pri­va­to (esclu­se agri­col­tu­ra e lavo­ro dome­sti­co) han­no una retri­bu­zio­ne teo­ri­ca lor­da annua infe­rio­re a 12 mila euro.

Di con­tro la ric­chez­za del­le fami­glie ita­lia­ne duran­te la pan­de­mia è aumen­ta­ta, più 100 miliar­di nel solo 2020, ric­chez­za net­ta pari a 8,7 vol­te il red­di­to dispo­ni­bi­le, più di pae­si come Cana­da, Ger­ma­nia, Regno Uni­to e Sta­ti Uni­ti. In par­ti­co­la­re, tra il 2019 e il 2021 la ric­chez­za finan­zia­ria del­le fami­glie ita­lia­ne è cre­sciu­ta com­ples­si­va­men­te di 334 miliar­di di euro, sfio­ran­do il tet­to dei 5.000 miliar­di, rispet­to ai 4.600 miliar­di di fine 2019.

Un pae­se ric­co, ma dove la distri­bu­zio­ne del­la tor­ta, però è squi­li­bra­ta. I patri­mo­ni sono mol­to più con­cen­tra­te dei red­di­ti, cosi come le atti­vi­tà finan­zia­rie rispet­to a quel­le reali.

La ric­chez­za del­le fami­glie attua­le pro­vie­ne dal lavo­ro e dall’impresa, ma si è for­ma­ta, in ter­mi­ni mol­to rile­van­ti, anche per ere­di­tà e dona­zio­ni. Le ere­di­tà di valo­re con­si­sten­te, riguar­dan­do pochi sog­get­ti, han­no con­tri­bui­to ad accen­tua­re le dispa­ri­tà patri­mo­nia­li tra fami­glie. Dispa­ri­tà che han­no assun­to un peso ancor più rile­van­te per la rimo­du­la­zio­ne e ridu­zio­ne dell’imposta di suc­ces­sio­ne, che peral­tro ha sem­pre avu­to un get­ti­to irri­so­rio. Ruo­lo ana­lo­go alle ere­di­tà nel favo­ri­re l’accumulo di ric­chez­za e l’aumento del­le disu­gua­glian­ze l’ha avu­to l’aliquota uni­ca al 26% (una “flat tax”) sui capi­tal gains, gua­da­gni di capi­ta­le dovu­ti all’aumento dei valo­ri di mer­ca­to degli asset finan­zia­ri e alle speculazioni.

Se da un lato la recen­te rifor­ma dell’IRPEF ha razio­na­liz­za­to alquan­to il mec­ca­ni­smo ali­quo­te-detra­zio­ni, avvi­ci­nan­do ali­quo­te medie e mar­gi­na­li effet­ti­ve, dall’altro, non ha potu­to, a cau­sa dei veti incro­cia­ti, ricom­por­re la base impo­ni­bi­le del­l’im­po­sta, man­te­nen­do la sua fram­men­ta­zio­ne che si mani­fe­sta nel­la sua rin­no­va­ta cedo­la­riz­za­zio­ne, per cui diver­se tipo­lo­gie di red­di­to sono trat­ta­te diver­sa­men­te, e con­tri­buen­ti con lo stes­so red­di­to subi­sco­no pre­lie­vi differenti.

Si è cer­ca­to di dare un poco a tut­ti, ma se al 10% del­le fami­glie più ric­che sono sta­te desti­na­te più del 20% (1,6 miliar­di) del­le risor­se distri­bui­te, nul­la è anda­to inve­ce per gli ulti­mi tra gli ulti­mi, i più fra­gi­li del­l’e­co­no­mia ita­lia­na, quel­li con un red­di­to infe­rio­re alla no tax area, tra que­sti lavo­ra­to­ri che han­no paga­to in modo fero­ce la cri­si: don­ne, gio­va­ni, part-time invo­lon­ta­ri, intermittenti.

Per loro la nuo­va IRPEF man­tie­ne il siste­ma per­ver­so per cui red­di­ti supe­rio­ri alla no tax area bene­fi­cia­no inte­ra­men­te del trat­ta­men­to inte­gra­ti­vo (bonus 80 euro e suc­ces­si­ve ite­ra­zio­ni, 1200 euro all’anno) pagan­do cosi meno impo­ste rispet­to a chi ha un red­di­to vici­no ma infe­rio­re alla no tax area.

Nul­la si è fat­to per modi­fi­ca­re la dispa­ri­tà di trat­ta­men­to, a pari­tà di red­di­to, del­le diver­se cate­go­rie di per­cet­to­ri, man­te­nen­do pro­gres­si­vi­tà sui red­di­ti da lavo­ro ma flat tax sui quel­li da capitale.

La man­can­za di pro­gres­si­vi­tà sui red­di­ti da capi­ta­le ha un impat­to sul get­ti­to. Basti pen­sa­re che per il trien­nio 2021–2023, il “Rap­por­to annua­le sul­le spe­se fisca­li, 2020” sti­ma le mino­ri entra­te Irpef ricon­du­ci­bi­li alla cedo­la­re sec­ca sui red­di­ti da capi­ta­le immo­bi­lia­re in misu­ra pari a 5,1 miliar­di di euro, con un effet­to nega­ti­vo com­ples­si­vo, cal­co­la­to al net­to del get­ti­to dell’imposta sosti­tu­ti­va, pari a 2,3 miliar­di di euro su base annua. Disu­gua­glian­ze nel­la tas­sa­zio­ne di red­di­ti da capi­ta­le e da lavo­ro che a loro vol­ta con­tri­bui­sco­no ad aumen­ta­re la for­bi­ce tra i ric­chi e i poveri.

Ser­ve inve­ce cam­bia­re rot­ta, ver­so un fisco più pro­gres­si­vo redi­stri­buen­do il cari­co fisca­le dal lavo­ro al capi­ta­le. Si può fare alli­nean­do la tas­sa­zio­ne di red­di­ti da capi­ta­le con quel­la da lavo­ro, ren­den­do­la pro­gres­si­va, rive­den­do le impo­ste su suc­ces­sio­ni (meno di 1 miliar­do di euro di get­ti­to in Ita­lia, 14 miliar­di in Fran­cia). Per­ché il patri­mo­nio di par­ten­za è deter­mi­nan­te nel­la con­di­zio­ne socia­le del­le per­so­ne e in un pae­se dove l’a­scen­so­re socia­le fa fati­ca a muo­ver­si, rive­de­re l’imposta sul­le suc­ces­sio­ni e dona­zio­ni ridur­reb­be le disu­gua­glian­ze a mon­te del­la pro­du­zio­ne del­la ric­chez­za, non solo a valle.

E per­chè no, rive­den­do tut­te le altre patri­mo­nia­li già esi­sten­ti (l’I­mu, il bol­lo sui depo­si­ti, le impo­ste di regi­stro), ripen­san­do­le all’interno di un nuo­vo fisco più equo. Maga­ri crean­do un un’a­na­gra­fe patri­mo­nia­le e un regi­stro dei beni nazio­na­li, per dis­si­pa­re la neb­bia che c’è ora sul­le con­di­zio­ni patri­mo­nia­li degli ita­lia­ni. Da usa­re sia con­tro l’e­va­sio­ne fisca­le sia per gesti­re i sus­si­di, sia per indi­riz­za­re poli­ti­che fiscali.

Rive­den­do la tas­sa­zio­ne del­le impre­se, andan­do a col­pi­re in manie­ra più siste­ma­ti­ca la ren­di­ta e eli­mi­nan­do incen­ti­vi inutili.

L’abolizione recen­te del Patent Box e la pro­po­sta di tas­sa­re gli extra pro­fit­ti su gas e petro­lio sono pas­si nel­la giu­sta direzione.

Si deve fare tenen­do la bar­ra drit­ta sul­la rifor­ma del cata­sto, dove i valo­ri rea­li sono fino a 4/5 vol­te supe­rio­ri a quel­li cata­sta­li nei cen­tri sto­ri­ci, che per­met­te­rà un doma­ni di ren­de­re più’ equo il pre­lie­vo fiscale.

Tut­ti i valo­ri immo­bi­lia­ri aumen­te­reb­be­ro (in media di cir­ca il dop­pio), ma alcu­ni aumen­te­reb­be­ro (mol­to) più di altri, men­tre altri potreb­be­ro addi­rit­tu­ra ridur­si. Aumen­te­reb­be­ro i valo­ri degli immo­bi­li del­le gran­di cit­tà rispet­to a quel­le che sono rima­ste con popo­la­zio­ne sta­bi­le o in ridu­zio­ne, o ai pic­co­li pae­si; quel­li dei cen­tri urba­ni rispet­to alle peri­fe­rie; quel­li del nord rispet­to al sud.

Per fare que­sto ser­ve abban­do­na­re la “tric­kle-down eco­no­mics”, teo­ria per cui la ridu­zio­ne di tas­se su red­di­ti ele­va­ti e capi­ta­le fini­reb­be per gene­ra­re cre­sci­ta e por­ta­re bene­fi­ci anche ai più pove­ri, teo­ria smen­ti­ta nei fatti.

La pan­de­mia dovreb­be aver reso quan­to mai evi­den­te che i ser­vi­zi pub­bli­ci sono a bene­fi­cio di tut­ti: occor­re riva­lu­ta­re la dimen­sio­ne pere­qua­ti­va del­la leva fiscale.

Per il finan­zia­men­to del wel­fa­re si con­ti­nua a fare affi­da­men­to in lar­ga par­te su impo­ste sul red­di­to e con­tri­bu­ti socia­li, che col­pi­sco­no pre­va­len­te­men­te o esclu­si­va­men­te i red­di­ti di lavo­ro. Nel frat­tem­po la distri­bu­zio­ne del­la ric­chez­za è cam­bia­ta in modo signi­fi­ca­ti­vo. Il siste­ma fisca­le non è più al pas­so con que­ste evo­lu­zio­ni, non ser­vo­no neces­sa­ria­men­te più tas­se ma devo­no esse­re distri­bui­te meglio.

La cre­sci­ta deve esse­re inclu­si­va e per que­sto ser­ve una fisca­li­tà più progressiva.

Le ricet­te ci sono, sup­por­ta­te da tut­ti le gran­di isti­tu­zio­ni inter­na­zio­na­li e da gran par­te dei cit­ta­di­ni, a favo­re di un fisco più progressivo.

Ser­ve tra­dur­re nel con­te­sto ita­lia­no il ven­to del cam­bia­men­to che arri­va da altri pae­si, ser­ve non aver pau­ra del­le pro­prie idee. Un per­cor­so com­ples­so, che non può esser fat­to tut­to d’un fia­to, ma il pri­mi pas­si non pos­so­no più attendere.

Qui 5 pro­po­ste per ini­zia­re il cammino:

· Esten­sio­ne a base impo­ni­bi­le IRPEF a red­di­ti da capi­ta­le e immo­bi­lia­re, dal 2023.

· Pro­gres­si­va abo­li­zio­ne regi­me for­fet­ta­rio per lavo­ra­to­ri auto­no­mi e pic­co­le impre­se [oggi a pari­tà di red­di­to, per esem­pio 35.000 euro, un lavo­ra­to­re indi­pen­den­te con­ti­nue­rà a paga­re 2.500 euro in meno di un dipen­den­te e 3.400 in meno di un pen­sio­na­to] per tra­sfor­ma­re l’Irpef in una impo­sta spe­cia­le su tut­ti i red­di­ti di lavo­ro e da capitale.

·  Revi­sio­ne tas­sa­zio­ne patrimoniale:

o   Intro­du­zio­ne patri­mo­nia­le sul­le gran­di ric­chez­ze: visto che la ric­chez­za finan­zia­ria è ele­va­ta (5.000 miliar­di) e mol­to con­cen­tra­ta, un pre­lie­vo patri­mo­nia­le cree­reb­be un get­ti­to con­si­sten­te fina­liz­za­to a miglio­re ser­vi­zi col­let­ti­vi e occu­pa­zio­ne pub­bli­ca anche con una quo­ta esen­te mol­to alta (più di 300.000 euro di ric­chez­za, esclu­den­do i beni immo­bi­li) e con un’aliquota bas­sa e progressiva.

o   Revi­sio­ne impo­sta su suc­ces­sio­ne e dona­zio­ni, per otte­ne­re un get­ti­to in linea con pae­si come Fran­cia e Inghilterra.

o   Rifor­ma del cata­sto, a get­ti­to inva­ria­to con un aumen­to pre­vi­sto per i con­tri­buen­ti tito­la­ri di patri­mo­ni di mag­gior valore.

·           Aumen­to “win­d­fall tax” sugli extra pro­fit­ti azien­de ener­ge­ti­che a x% degli extra pro­fit­ti e esten­sio­ne a tut­ti i set­to­ri che han­no bene­fi­cia­to o stan­no bene­fi­cia­no del­la crisi.

Servizi pubblici locali a rilevanza economica e a rete

I ser­vi­zi pub­bli­ci loca­li a rile­van­za eco­no­mi­ca e a rete (SPL) sono un’infrastruttura fon­da­men­ta­le per la qua­li­tà del­la vita di cit­tà e pae­si. Una gestio­ne effi­cien­te e soste­ni­bi­le dei rifiu­ti, del ser­vi­zio idri­co inte­gra­to o del tra­spor­to pub­bli­co, è tra le prin­ci­pa­li mis­sio­ni di un gover­no loca­le. Essa chia­ma in cau­sa diver­si aspet­ti: la pro­prie­tà del­le reti e dei capi­ta­li (owner­ship); il model­lo poli­ti­co-isti­tu­zio­na­le posto a gover­no dell’infrastruttura (gover­nan­ce); l’impatto socio-eco­lo­gi­co del­le tec­no­lo­gie e dei dispo­si­ti­vi orga­niz­za­ti­vi uti­liz­za­ti per for­ni­re i ser­vi­zi (per­for­man­ce).

Nes­su­no di que­sti aspet­ti è poli­ti­ca­men­te neu­tro. Per un ente loca­le, appal­ta­re a pri­va­ti un SPL, affi­dar­lo ad una in-hou­se su cui si eser­ci­ta un con­trol­lo ana­lo­go o ad una mul­tiu­ti­li­ty quo­ta­ta in bor­sa, è una scel­ta che pro­du­ce con­se­guen­ze strut­tu­ra­li sul­la dire­zio­ne e il con­trol­lo dei ser­vi­zi. L’ampiezza e i mec­ca­ni­smi deci­sio­na­li pro­pri di un Ambi­to Ter­ri­to­ria­le Otti­ma­le (ATO) gran­de quan­to una Pro­vin­cia, non cor­ri­spon­do­no a quel­li di un sin­go­lo ente loca­le, o di un’Unione di pic­co­li Comu­ni. Pun­ta­re sul­la rac­col­ta dif­fe­ren­zia­ta anzi­ché sull’incenerimento, sul­la manu­ten­zio­ne straor­di­na­ria del­le reti anzi­ché su nuo­ve fon­ti di approv­vi­gio­na­men­to idri­co, impli­ca impat­ti diver­si­fi­ca­ti su occu­pa­zio­ne, costo del ser­vi­zio, ester­na­li­tà ambientali.

Non tut­te le scel­te sono col­lo­ca­te sul pia­no loca­le. A livel­lo nazio­na­le, la mate­ria dei SPL ha visto negli ulti­mi anni un inter­ven­to ricor­ren­te del legi­sla­to­re nazio­na­le. Tut­to nasce dai Refe­ren­dum Popo­la­ri del 12–13 giu­gno 2011, quan­do più di 25 milio­ni di cittadine/i han­no vota­to per abro­ga­re l’art.23 bis del dl 112/2008, che impo­ne­va la pri­va­tiz­za­zio­ne degli SPL e la dismis­sio­ne del­le muni­ci­pa­liz­za­te, e una par­te del com­ma 1 dell’art.154 del TUA (Testo Uni­co Ambien­ta­le) che pre­ve­de­va il rico­no­sci­men­to di una quo­ta di remu­ne­ra­zio­ne del capi­ta­le inve­sti­to nel­la tarif­fa­zio­ne del ser­vi­zio idri­co integrato.

I gover­ni che si sono sus­se­gui­ti han­no pro­va­to a igno­ra­re la volon­tà popo­la­re pri­ma impo­nen­do un limi­te eco­no­mi­co ristret­tis­si­mo agli affi­da­men­ti in-hou­se (200mila euro), abo­li­to dal­la Cor­te costi­tu­zio­na­le, quin­di limi­tan­do la pos­si­bi­li­tà degli enti loca­li con popo­la­zio­ne al di sot­to dei 30mila abi­tan­ti di costi­tui­re socie­tà pub­bli­che, e infi­ne pre­ve­den­do mag­gio­ri one­ri pro­ce­di­men­ta­li alle ammi­ni­stra­zio­ni loca­li che opta­no per la gestio­ne pub­bli­ca. In par­ti­co­la­re, l’art.192 del Codi­ce Con­trat­ti, pre­ve­de la moti­va­zio­ne raf­for­za­ta, ovve­ro l’obbligo per l’ente optan­te per l’affidamento in-hou­se, di giu­sti­fi­ca­re con una rela­zio­ne le ragio­ni del “man­ca­to ricor­so al mer­ca­to”. L’art.6 del DDL Con­cor­ren­za riba­di­sce e raf­for­za tale obbli­go, aggiun­gen­do l’onore di tra­smet­te­re gli atti dell’affidamento in hou­se all’Autorità garan­te del­la con­cor­ren­za e del mer­ca­to, uno spe­cia­le siste­ma di moni­to­rag­gio dei costi, la riva­lu­ta­zio­ne rei­te­ra­ta del­le con­di­zio­ni di mar­ket fai­lu­re, e incen­ti­vi alle aggre­ga­zio­ni ver­so le mul­tiu­ti­li­ties. In caso di affi­da­men­to a pri­va­ti inve­ce, non vie­ne chie­sto nul­la, se non una rela­zio­ne sui costi del ser­vi­zio. L’obiettivo   è chia­ro: crea­re un ambien­te osti­le per le ammi­ni­stra­zio­ni loca­li favo­re­vo­li all’in-house, e bloc­ca­re la pur inci­pien­te ten­den­za alla rimu­ni­ci­pa­liz­za­zio­ne visi­bi­le in tan­ti territori.

La gestio­ne pub­bli­ca è quin­di, secon­do que­sta impo­sta­zio­ne nor­ma­ti­va, l’eccezione, non la rego­la. Eppu­re, guar­dan­do al Pae­se, secon­do la ban­ca dati di Invi­ta­lia, il 40,8% dei cit­ta­di­ni è ser­vi­to da socie­tà in hou­se nel cam­po dei rifiu­ti, men­tre nel set­to­re idri­co, la gestio­ne pub­bli­ca copre il 75,6% degli abi­tan­ti. A livel­lo macro­re­gio­na­le, la gestio­ne pri­va­ta è deci­sa­men­te più dif­fu­sa a Sud e nel­le iso­le (con pun­te del 90% nel set­to­re rifiu­ti, ad esem­pio in Sici­lia e Sar­de­gna) dove, al net­to di alcu­ne ecce­zio­ni nel­le gran­di cit­tà come Napo­li, man­ca­no infra­strut­tu­re azien­da­li a capi­ta­le pub­bli­co. Del resto, guar­dan­do anche ai dati sul valo­re del­la pro­du­zio­ne, cir­ca die­ci miliar­di di euro per i rifiu­ti soli­di urba­ni, e cir­ca 2,3 con­si­de­ran­do solo i 5 prin­ci­pa­li gesto­ri idri­ci ita­lia­ni, non sor­pren­de l’interesse del capi­ta­le pri­va­to a entra­re nel mer­ca­to acqui­sen­do quo­te di mul­tiu­ti­li­ties o attra­ver­so pro­prie aziende.

Il pun­to è se l’interesse pri­va­to sia com­pa­ti­bi­le con quel­lo pub­bli­co. Anche qui, i pia­ni di osser­va­zio­ne sono diver­si. il nume­ro di azien­de pri­va­te inte­res­sa­te da inter­dit­ti­ve anti­ma­fia e da pro­ce­di­men­ti giu­di­zia­ri è ele­va­tis­si­mo. La gestio­ne del ser­vi­zio idri­co secon­do i cano­ni del libe­ro mer­ca­to crea disu­gua­glian­ze di acces­so inac­cet­ta­bi­li. Anche il ricor­so alle socie­tà quo­ta­te in bor­sa con capi­ta­le misto, pre­va­len­te­men­te con­cen­tra­to nel Cen­tro Nord e Nord Ita­lia, pre­sen­ta il con­to in ter­mi­ni di inva­den­za del capi­ta­le acqui­si­to sul mer­ca­to finan­zia­rio in meri­to alle scel­te sugli inve­sti­men­ti, alla deter­mi­na­zio­ne del­le tarif­fe, alla capa­ci­tà di indi­riz­zo e con­trol­lo degli enti locali.

È fon­da­men­ta­le riba­di­re, anche in vir­tù dell’art. 5 del­la Costi­tu­zio­ne, che le comu­ni­tà loca­li devo­no esse­re libe­re di auto-deter­mi­na­re owner­ship, gover­nan­ce e per­for­man­ce degli SPL.  Tut­ta­via, è pos­si­bi­le imma­gi­na­re una linea di poli­ti­ca pub­bli­ca nazio­na­le che rie­qui­li­bri gli one­ri per gli enti loca­li affi­dan­ti e dia al dispo­si­ti­vo refe­ren­da­rio la con­si­de­ra­zio­ne dovu­ta. Si trat­ta di misu­re da un lato rego­la­men­ta­ri, da un altro di poli­ti­ca indu­stria­le, che potreb­be­ro com­por­ta­re non solo più liber­tà di scel­ta per le ammi­ni­stra­zio­ni loca­li, ma anche atti­va­re cir­cui­ti vir­tuo­si dal pun­to di vista economico.

i) Va rivi­sta tut­ta la nor­ma­ti­va, oggi fram­men­ta­ta in diver­si dispo­si­ti­vi nor­ma­ti­vi, sugli SPL. In par­ti­co­la­re, va eli­mi­na­to l’obbligo di giu­sti­fi­ca­zio­ne per il ricor­so al mer­ca­to e van­no pari­fi­ca­te le misu­re di con­trol­lo sull’anticorruzione tra pub­bli­co e privato;

ii) Per le ragio­ni di cui sopra, va com­ple­ta­men­te stral­cia­to l’art.6 del DDL Con­cor­ren­za, che riba­di­sce la pri­va­tiz­za­zio­ne come for­ma prin­ci­pa­le e ordi­na­ria di gestio­ne degli SPL e disin­cen­ti­va la gestio­ne in house;

iii) Va favo­ri­ta, spe­cie nel Sud Ita­lia, la costi­tu­zio­ne di sog­get­ti impren­di­to­ria­li pub­bli­ci che si occu­pi­no di rea­liz­za­re, e quin­di di gesti­re, le infra­strut­tu­re fon­da­men­ta­li per assi­cu­ra­re una gestio­ne soste­ni­bi­le e cir­co­la­re dei rifiu­ti, dell’acqua e del tra­spor­to pubblico;

iv) Va costi­tui­to un fon­do pub­bli­co nazio­na­le per soste­ne­re i pro­ces­si di ripub­bli­ciz­za­zio­ne del ser­vi­zio idri­co inte­gra­to nel­le zone dove esso attual­men­te è in con­ces­sio­ne a sog­get­ti pri­va­ti. La tran­si­zio­ne tra i due model­li richie­de infat­ti one­ri rile­van­ti per gli enti loca­li, ma pre­sen­ta soste­ni­bi­li­tà a lun­go ter­mi­ne per capi­ta­le paziente;

v) Tali azio­ni, van­no pen­sa­te in un con­te­sto di rifor­ma più ampia del­la finan­za loca­le, con un allen­ta­men­to del­le rigi­di­tà che bloc­ca­no la spe­sa in con­to capi­ta­le dei Comu­ni (alme­no su alcu­ni set­to­ri nevral­gi­ci, come appun­to quel­li coper­ti da SPL), e del ruo­lo di Cas­sa Depo­si­ti e Pre­sti­ti, la cui pro­gres­si­va azien­da­liz­za­zio­ne ha deter­mi­na­to un acces­so al cre­di­to più one­ro­so per il finan­zia­men­to dell’economia fondamentale.

Per una società digitale giusta

 Le tec­no­lo­gie dell’informazione e del­la comu­ni­ca­zio­ne e la loro dif­fu­sio­ne sono il vet­to­re di cam­bia­men­to più impor­tan­te del nostro tempo.

Oggi 50,85 milio­ni di ita­lia­ni, pari all’84,3% del­la popo­la­zio­ne, si col­le­ga­no ad inter­net, e il 97,3% del­la popo­la­zio­ne ha uno smart pho­ne (cfr. https://wearesocial.com/it/blog/2022/02/digital-2022-i-dati-italiani/). Si pro­du­co­no dati digi­ta­li a un rit­mo cre­scen­te in modo espo­nen­zia­le: nel 2020 nel mon­do si pro­du­ce­va­no 64,2 Zet­ta­by­tes di dati e si sti­ma che la quan­ti­tà di dati digi­ta­li rad­dop­pi ogni 2 anni. I GAFAM han­no una capi­ta­liz­za­zio­ne di bor­sa supe­rio­re ai 9.000 miliar­di di dol­la­ri: un valo­re che supe­ra il PIL di Ita­lia, Fran­cia e Ger­ma­nia mes­si insieme.

Tut­to que­sto si è pro­dot­to in pochi decen­ni. Stia­mo viven­do un cam­bia­men­to di para­dig­ma che richie­de un deci­so inter­ven­to del­la poli­ti­ca e l’adeguamento di mol­te rego­le, come per esem­pio quel­le in mate­ria di con­cor­ren­za, che sono ormai obso­le­te ed inadeguate.

Negli anni ‘90 mol­ti vede­va­no nell’architettura oriz­zon­ta­le (pun­to-pun­to, o p2p) di inter­net e nell’affermarsi del model­lo del soft­ware libe­ro (che ormai è domi­nan­te nell’industria di set­to­re) le con­di­zio­ni per la costru­zio­ne di una socie­tà digi­ta­le giu­sta, cen­tra­ta sui dirit­ti fon­da­men­ta­li e sui valo­ri di liber­tà ugua­glian­za e fraternità.

Ma la poli­ti­ca, e quel­la ita­lia­na più del­le altre, non è sta­ta per­mea­bi­le a quel­le istan­ze e, com­pli­ce anche il cli­ma ideo­lo­gi­co dei decen­ni pas­sa­ti, ha pre­fe­ri­to “lasciar fare” e per­met­te­re che le tec­no­lo­gie dell’informazione e del­la comu­ni­ca­zio­ne fos­se­ro svi­lup­pa­te dal mer­ca­to. Così le tec­no­lo­gie digi­ta­li sono sta­te dise­gna­te secon­do altri fini, diver­si da quel­li di costrui­re una socie­tà più libe­ra, giu­sta e solidale.

Il capi­ta­le ha quin­di potu­to costrui­re, sen­za vin­co­li, la mac­chi­na di con­trol­lo e pro­fi­la­zio­ne che oggi è nel­le mani di un pic­co­lo grup­po di azien­de: il “capi­ta­li­smo del­la sor­ve­glian­za”, per uti­liz­za­re la con­cet­tua­liz­za­zio­ne del­la Zuboff, si è con­so­li­da­to e oggi i GAFAM con­trol­la­no ed usa­no a fini di pro­fit­to enor­mi quan­ti­tà di dati che i cit­ta­di­ni e le isti­tu­zio­ni pub­bli­che e pri­va­te (in Ita­lia, ma non solo) gli con­se­gna­no in modo a vol­te incon­sa­pe­vo­le a vol­te super­fi­cia­le. Le tec­no­lo­gie, dise­gna­te per mas­si­miz­za­re il pro­fit­to, divi­do­no i cit­ta­di­ni in bol­le di per­ce­zio­ne pola­riz­zan­ti, che dan­neg­gia­no il tes­su­to socia­le. Que­sto sta­to di cose può esse­re uti­liz­za­to (ed è sta­to uti­liz­za­to) per dan­neg­gia­re la col­let­ti­vi­tà a van­tag­gio di alcu­ni, come per esem­pio per distor­ce­re i risul­ta­ti elet­to­ra­li (come il caso Cam­brid­ge Ana­ly­ti­ca) o per per­se­gui­re inte­res­si di pae­si ter­zi (come nel caso Snowdem).

Un dato ormai chia­ro è che le tec­no­lo­gie non sono neu­tra­li; le tec­no­lo­gie si dise­gna­no e, di con­se­guen­za, rea­liz­za­no il risul­ta­to atte­so da chi le ha pro­get­ta­te. È quin­di fon­da­men­ta­le lavo­ra­re con con­sa­pe­vo­lez­za sul­le tec­no­lo­gie digi­ta­li, favo­ren­do quel­le che rea­liz­za­no i valo­ri e gli obiet­ti­vi di Unio­ne Popo­la­re. D’altronde, non gesti­re la dimen­sio­ne digi­ta­le oggi signi­fi­ca non gesti­re la socie­tà, favo­ri­re deri­ve auto­ri­ta­rie, disper­de­re valo­re, rinun­cia­re a con­se­gui­re i valo­ri che si perseguono.

Un lavo­ro poli­ti­co effi­ca­ce sul­la dimen­sio­ne digi­ta­le deve par­ti­re dal­lo sta­tus quo ed inter­ve­ni­re chi­rur­gi­ca­men­te, appor­tan­do cor­ret­ti­vi dove que­sti pos­so­no esse­re effi­ca­ci, dan­do spa­zio al dise­gno con­sa­pe­vo­le di strut­tu­re socio-tec­no­lo­gi­che che poten­zi­no le comu­ni­tà (ren­den­do­le con­sa­pe­vo­li, capa­ci e resi­lien­ti) e tenen­do al cen­tro la tute­la dei dirit­ti fon­da­men­ta­li del­la per­so­na e il rispet­to del­la digni­tà umana.

Per que­sto è uti­le guar­da­re agli indi­riz­zi che ven­go­no dall’Unione Euro­pea: l’adozione del GDPR è l’esempio più chia­ro (ma non l’unico) del­la cre­scen­te cen­tra­li­tà dei dirit­ti fon­da­men­ta­li del­la per­so­na e del­la digni­tà uma­na nel­le scel­te di nor­ma­zio­ne dell’Unione Europea.

Que­sta spe­ci­fi­ci­tà distin­gue l’Unione Euro­pea dal resto del mon­do (USA, Cina, Rus­sia ed altri) e carat­te­riz­za l’identità Euro­pea in manie­ra for­te, coin­vol­gen­te e credibile.

In Cina si asse­gna spa­zio a tec­no­lo­gie di sor­ve­glian­za e pro­fi­la­zio­ne pri­va­te e pub­bli­che. Negli USA, la scel­ta di lascia­re gli ope­ra­to­ri di mer­ca­to libe­ri di per­se­gui­re il pro­fit­to, ha incli­na­to la socie­tà in dire­zio­ni peri­co­lo­se, dif­fon­den­do disin­for­ma­zio­ne, men­zo­gne e con­flit­tua­li­tà, e dan­neg­gian­do la socie­tà nel suo com­ples­so. Le dina­mi­che svi­lup­pa­te in quei pae­si han­no pro­dot­to tec­no­lo­gie digi­ta­li che per­met­to­no il con­trol­lo e la sor­ve­glian­za, ora del­lo sta­to, ora degli ope­ra­to­ri privati.

Per tene­re al cen­tro i dirit­ti fon­da­men­ta­li del­le per­so­ne, la digni­tà uma­na e il bene comu­ne sono neces­sa­rie nor­me e poli­ti­che che impe­di­sca­no il pro­dur­si di model­li paras­si­ta­ri ed estrat­ti­vi e deri­ve oli­go­po­li­sti­che che, mone­tiz­zan­do i dati dei cit­ta­di­ni, favo­ri­sco­no la con­cen­tra­zio­ne di posi­zio­ni di van­tag­gio nel­le mani di pochi e ridu­co­no gli spa­zi di liber­tà ed auto­no­mia per tut­ti gli altri.

D’altronde, non man­ca­no le oppor­tu­ni­tà e gli spa­zi sui qua­li lavo­ra­re in modo pun­tua­le, come evi­den­zia­no le con­si­de­ra­zio­ni che seguo­no, con con­se­guen­ti pun­ti di programma.

Sul ver­san­te dell’amministrazione pub­bli­ca l’Italia è dota­ta di un qua­dro nor­ma­ti­vo favo­re­vo­le all’uso e alla distri­bu­zio­ne di soft­ware libe­ro nel­le pub­bli­che ammi­ni­stra­zio­ni; men­tre gli altri pae­si e le isti­tu­zio­ni euro­pee si muo­vo­no nel­la stes­sa dire­zio­ne, van­no poten­zia­te le capa­ci­tà d’azione, favo­ri­ta la dif­fu­sio­ne del­la cul­tu­ra sul tema e cor­ret­te alcu­ne diret­ti­ve emergenti.

Per­tan­to si pro­po­ne di:

adot­ta­re nor­me che favo­ri­sco­no la mutua­liz­za­zio­ne del­le spe­se in ser­vi­zi infor­ma­ti­ci da par­te del­le pub­bli­che ammi­ni­stra­zio­ni, anche median­te il coor­di­na­men­to del­le in-hou­se infor­ma­ti­che, per incen­ti­va­re lo svi­lup­po e il riu­so di tec­no­lo­gie in soft­ware libero;

rea­liz­za­re il Polo Stra­te­gi­co Nazio­na­le uti­liz­zan­do esclu­si­va­men­te soft­ware libe­ro, sen­za ricor­re­re all’apporto di tec­no­lo­gie pro­prie­ta­rie rea­liz­za­to da ope­ra­to­ri extra UE e coor­di­nan­do gli sfor­zi di dise­gno di tec­no­lo­gie a con­trol­lo UE con gli altri pae­si UE, tra l’altro, nell’ambito del pro­get­to Gaia‑X;

adot­ta­re nor­me che favo­ri­sco­no la decen­tra­liz­za­zio­ne, l’interoperabilità e l’organizzazione distri­bui­ta e fede­ra­ta dei ser­vi­zi digi­ta­li del­le pub­bli­che amministrazioni;

adot­ta­re nor­me e poli­ti­che che dif­fon­do­no cul­tu­ra e con­sa­pe­vo­lez­za infor­ma­ti­ca nel­le pub­bli­che ammi­ni­stra­zio­ni e nel­le scuo­le (sia ai docen­ti che agli stu­den­ti), svi­lup­pan­do com­pe­ten­ze (nell’uso e nel fun­zio­na­men­to dei siste­mi in soft­ware libe­ro e hard­ware open sour­ce) e pen­sie­ro critico.

Per ciò che riguar­da la pri­va­cy, la sovra­ni­tà e i beni comu­ni la tute­la dei dati per­so­na­li degli uten­ti con­tro gli abu­si dei GAFAM (ma non solo) è abi­li­ta­ta dal GDPR, ma è neces­sa­ria un’azione poli­ti­ca chia­ra per poten­zia­re i cit­ta­di­ni, sup­por­tar­li nell’esercizio dei pro­pri dirit­ti e nell’acquisire sia sovra­ni­tà indi­vi­dua­le sui pro­pri dati per­so­na­li sia sovra­ni­tà col­let­ti­va sui dati (inclu­si quel­li per­so­na­li). In que­sto sen­so è di aiu­to il nuo­vo rego­la­men­to sul gover­no dei dati (2022/868) recen­te­men­te appro­va­to dall’UE che, tra l’altro, favo­ri­sce il riu­so dei dati per il bene comu­ne e pra­ti­che di altrui­smo dei dati, con l’effetto di favo­ri­re la gene­ra­zio­ne di beni comu­ni digitali.

Per­tan­to si pro­po­ne di:

adot­ta­re nor­me che pro­teg­go­no più effi­ca­ce­men­te l’anonimato dei cit­ta­di­ni, vie­ta­no atti­vi­tà di sor­ve­glian­za di mas­sa in luo­ghi pub­bli­ci e fis­sa­no le con­di­zio­ni per lo svol­gi­men­to di atti­vi­tà di sor­ve­glian­za in luo­ghi pri­va­ti, in par­ti­co­la­re per il caso dei con­trol­li sui lavoratori;

adot­ta­re nor­me che, in caso di vio­la­zio­ne dei dati per­so­na­li, rico­no­sco­no dan­ni puni­ti­vi a favo­re del sog­get­to leso, disin­cen­ti­van­do lo sfrut­ta­men­to del­le posi­zio­ni di van­tag­gio oli­go­po­li­sti­co e rico­no­scen­do anche a  orga­niz­za­zio­ni suf­fi­cien­te­men­te rap­pre­sen­ta­ti­ve il pote­re di far vale­re i dirit­ti degli interessati;

adot­ta­re nor­me che favo­ri­sca­no, espe­rien­ze di riu­so e di altrui­smo dei dati adot­tan­do ido­nee misu­re tec­ni­che ed orga­niz­za­ti­ve e incen­ti­van­do la nasci­ta nei ter­ri­to­ri di coa­li­zio­ni tra sog­get­ti diversi;

adot­ta­re nor­me che isti­tui­sca­no un’autorità che attui effi­ca­ce­men­te le pre­vi­sio­ni del rego­la­men­to sul gover­no dei dati (per esem­pio, amplian­do i com­pi­ti del Garan­te per la pro­te­zio­ne dei dati per­so­na­li, che potreb­be assu­me­re la deno­mi­na­zio­ne di Garan­te per la pro­te­zio­ne dei dati per­so­na­li, l’accesso ai dati di pub­bli­co inte­res­se e l’attuazione del rego­la­men­to sul gover­no dei dati), attri­buen­do­le espres­sa­men­te il com­pi­to di pro­muo­ve­re l’accesso ai dati per fini di pub­bli­co inte­res­se, e il pote­re di ordi­na­re ai pri­va­ti di con­sen­ti­re l’accesso, per tali fini, ai dati dagli stes­si trattati.

Per gli aspet­ti che riguar­da­no la demo­cra­zia digi­ta­le, per costrui­re un tes­su­to socia­le capa­ce di par­te­ci­pa­re atti­va­men­te alla vita del­le isti­tu­zio­ni uti­liz­zan­do in modo vir­tuo­so le tec­no­lo­gie digi­ta­li, è neces­sa­rio crea­re le con­di­zio­ni adat­te e quin­di  abi­li­ta­re la par­te­ci­pa­zio­ne digi­ta­le dei cit­ta­di­ni, sia nel­le isti­tu­zio­ni pub­bli­che che nel­lo stes­so partito.

Per­tan­to si pro­po­ne di:

adot­ta­re nor­me che abi­li­ta­no la rac­col­ta del­le fir­me di soste­gno alle liste elet­to­ra­li in for­ma­to digitale;

adot­ta­re nor­me che con­sen­to­no lo svi­lup­po di poli­ti­che e bilan­ci par­te­ci­pa­ti­vi median­te tec­no­lo­gie digitali;

strut­tu­ra­re il gover­no del par­ti­to in modo da mas­si­miz­za­re la par­te­ci­pa­zio­ne dal bas­so, sia in fase di voto, sia in fase di pro­po­sta, adot­tan­do tec­no­lo­gie digi­ta­li dise­gna­te con lo sco­po di favo­ri­re il dia­lo­go, l’incontro di posi­zio­ni diver­se e la gene­ra­zio­ne del sen­so di comu­ni­tà dei partecipanti.

Infi­ne, per gli aspet­ti con­nes­si alla poli­ti­ca indu­stria­le del soft­ware libe­ro e dell’hardware open sour­ce, lo stu­dio com­mis­sio­na­to dal­la Com­mis­sio­ne Euro­pea “L’im­pat­to del soft­ware e del­l’­hard­ware open sour­ce sul­la tec­no­lo­gi­ca, la com­pe­ti­ti­vi­tà e l’in­no­va­zio­ne nel­l’e­co­no­mia del­l’UE” (Vedi https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/library/study-about-impact-open-source-software-and-hardware-technological-independence-competitiveness-and) sti­ma che nel 2018 le azien­de del­l’UE han­no inve­sti­to cir­ca 1 miliar­do di euro in soft­ware libe­ro, con un impat­to sul­l’e­co­no­mia euro­pea com­pre­so tra 65 e 95 miliar­di di euro; sti­ma inol­tre un rap­por­to costi-bene­fi­ci supe­rio­re a 1:4 e pre­ve­de che un aumen­to del 10% dei con­tri­bu­ti al soft­ware libe­ro gene­re­reb­be annual­men­te uno 0,4%-0,6% di PIL in più, oltre a 600 nuo­ve impre­se ICT nell’UE.

L’Italia deve coglie­re que­ste oppor­tu­ni­tà con ade­gua­te poli­ti­che indu­stria­li che favo­ri­sca­no il soft­ware libe­ro e l’hardware open source.

Per­tan­to si pro­po­ne di:

adot­ta­re poli­ti­che e nor­me che favo­ri­sca­no lo svi­lup­po dell’industria del soft­ware libe­ro e dell’hardware open source.

La tra­spa­ren­za algoritmica

Uno dei temi più cal­di nel dibat­ti­to in cor­so è quel­lo del­la tra­spa­ren­za dei siste­mi d’intelligenza arti­fi­cia­le. Ci sono già nor­me che impon­go­no la tra­spa­ren­za riguar­do alla logi­ca di fun­zio­na­men­to dei siste­mi d’intelligenza arti­fi­cia­le (ma non solo). In atte­sa di cono­sce­re la for­mu­la­zio­ne fina­le del­la nuo­va leg­ge sull’intelligenza arti­fi­cia­le, è impor­tan­te raf­fi­na­re il qua­dro nor­ma­ti­vo nazio­na­le pre­ve­den­do ulte­rio­ri obbli­ghi spe­ci­fi­ci che garan­ti­sca­no la tra­spa­ren­za algo­rit­mi­ca. Men­tre si dif­fon­do­no le tec­no­lo­gie d’intelligenza arti­fi­cia­le, l’Unione Euro­pea sta deli­be­ran­do l’adozione di una nuo­va leg­ge sull’intelligenza arti­fi­cia­le con lo sco­po di con­tri­bui­re al con­se­gui­men­to di risul­ta­ti van­tag­gio­si dal pun­to di vista socia­le e ambien­ta­le, for­ni­re van­tag­gi com­pe­ti­ti­vi alle impre­se e all’e­co­no­mia euro­pea e, allo stes­so tem­po, assi­cu­ra­re che i cit­ta­di­ni euro­pei pos­sa­no bene­fi­cia­re di tec­no­lo­gie svi­lup­pa­te e ope­ran­ti in con­for­mi­tà ai valo­ri, ai dirit­ti fon­da­men­ta­li e ai prin­ci­pi dell’Unione.

Per­tan­to si pro­po­ne di:

adot­ta­re nor­me che pre­ve­da­no per i dato­ri di lavo­ro l’obbligo di garan­ti­re pie­na tra­spa­ren­za degli algo­rit­mi uti­liz­za­ti sui lavoratori;

adot­ta­re nor­me e poli­ti­che che favo­ri­sca­no lo svi­lup­po e l’uso di siste­mi d’intelligenza arti­fi­cia­le pub­bli­ca­ti con licen­za libe­ra, con tut­te le infor­ma­zio­ni uti­li per con­sen­tir­ne la ripro­du­zio­ne e la veri­fi­ca (inclu­si gli even­tua­li dati uti­liz­za­ti per lo svi­lup­po dei sistemi).

Sanità: il quadro generale

Con l’istituzione nel 1978 del siste­ma sani­ta­rio nazio­na­le l’Italia ha rico­no­sciu­to la salu­te come un dirit­to di tut­ti i cit­ta­di­ni — a pre­scin­de­re dal red­di­to e dal fat­to che si lavo­ri o meno — da attua­re  attra­ver­so una strut­tu­ra decen­tra­ta di gover­no e di ero­ga­zio­ne.  Un tema chia­ve è il ter­ri­to­rio, che fa rife­ri­men­to a un cam­bia­men­to radi­ca­le dei model­li di cura: il supe­ra­men­to del­la cen­tra­li­tà ospe­da­lie­ra, lo svi­lup­po com­ple­men­ta­re di fun­zio­ni e ser­vi­zi per la pre­ven­zio­ne (l’igiene pub­bli­ca, i con­sul­to­ri, la medi­ci­na sco­la­sti­ca e del lavo­ro), il coin­vol­gi­men­to dei cit­ta­di­ni e del­le col­let­ti­vi­tà locali.

Che cosa sia suc­ces­so da allo­ra lo si è com­pre­so abba­stan­za chia­ra­men­te con la pan­de­mia. La lista dei pro­ble­mi è lunga.

Innan­zi­tut­to, è sta­ta adot­ta­ta una poli­ti­ca di sot­to-finan­zia­men­to o de-finan­zia­men­to. I tas­si di cre­sci­ta del­la spe­sa sani­ta­ria pub­bli­ca sono sta­ti pres­so­ché nul­li tra il 2010 e il 2019.  Secon­do i dati Oecd (2020), nel 2018 la spe­sa sani­ta­ria pub­bli­ca sul Pil è pari al 6,5% , cioè 2–3 pun­ti in meno rispet­to a quel­li di Fran­cia e Ger­ma­nia.  La spe­sa pro capi­te nel 2020 è sta­ta di  5.642 euro, con­tro i 7.654 del­la Ger­ma­nia e i 6.121 euro del­la Francia.

Sono sta­te sacri­fi­ca­te la medi­ci­na ter­ri­to­ria­le, le cure pri­ma­rie e le atti­vi­tà di pre­ven­zio­ne e igie­ne pub­bli­ca, che secon­do gli  ulti­mi dati dispo­ni­bi­li non supe­ra­no il 4% del tota­le del­la spe­sa a fron­te  del­lo stan­dard del 5% fis­sa­to dal­la pro­gram­ma­zio­ne nazionale.

Sono sta­ti sacri­fi­ca­ti anche gli ospe­da­li, gra­zie a una stra­te­gia mas­sic­cia di (irra­zio­na­le) razio­na­liz­za­zio­ne che ha por­ta­to nel cor­so degli anni alla loro con­cen­tra­zio­ne in strut­tu­re medio-gran­di e a una dra­sti­ca dimi­nu­zio­ne dei posti let­to: 3,1  per 1000 abi­tan­ti nel 2018, con­tro gli 8 del­la Ger­ma­nia e i 6 del­la Fran­cia.  Ciò ha cau­sa­to l’aumento del­le dise­gua­glian­ze ter­ri­to­ria­li e la ridu­zio­ne ulte­rio­re del­le oppor­tu­ni­tà di acces­so ai ser­vi­zi fon­da­men­ta­li per la salu­te nel­le cosid­det­te aree inter­ne meno den­sa­men­te popolate.

Quan­to al per­so­na­le, fra il 2008 e il 2017 è sta­to ridot­to di 42.000 uni­tà (6,2%). Nel perio­do 2018–2025, è pre­vi­sto un amman­co di cir­ca 16.700 medi­ci, con le pun­te più alte in medi­ci­na di emer­gen­za, pedia­tria, ane­ste­sia, ria­ni­ma­zio­ne e tera­pia inten­si­va. Amman­co che ormai noti­zia di ogni gior­no alle qua­li le Regio­ni cer­ca­no di sup­pli­re nei modi più fantasiosi.

I dati sul­la ridu­zio­ne del­la spe­sa e del­le risor­se van­no quin­di let­ti nel qua­dro di un ampio e pro­fon­do pro­ces­so di rior­ga­niz­za­zio­ne ispi­ra­to alla peg­gio­re azien­da­liz­za­zio­ne, che ha immes­so nel siste­ma sani­ta­rio model­li basa­ti sul­la pro­du­zio­ne di pre­sta­zio­ni e sul­la mas­si­miz­za­zio­ne del­la pro­dut­ti­vi­tà, por­ta­ti quin­di a con­cen­trar­si sul­la cura del­la malat­tia e non sul­la pre­ven­zio­ne e pro­mo­zio­ne del­la salu­te. Ovve­ro model­li che non met­to­no al cen­tro il pazien­te e il cittadino.

In alcu­ne regio­ni in par­ti­co­la­re, a ciò si assom­ma­no le dina­mi­che di pri­va­tiz­za­zio­ne o “com­mer­cia­liz­za­zio­ne”: i ser­vi­zi sani­ta­ri sono sta­ti ripen­sa­ti come aree di busi­ness alta­men­te remu­ne­ra­ti­ve, per­ciò attrat­ti­ve per i sog­get­ti pri­va­ti, e il loro fun­zio­na­men­to è sta­to impo­sta­to secon­do i mec­ca­ni­smi tipi­ci del mer­ca­to attra­ver­so una fin­ta con­cor­ren­za tra pri­va­to e pub­bli­co. Que­sti mec­ca­ni­smi han­no fini­to con l’incentivare le atti­vi­tà più red­di­ti­zie, dove per i pri­va­ti è con­ve­nien­te inve­sti­re: le atti­vi­tà ospe­da­lie­re a disca­pi­to di quel­le ter­ri­to­ria­li, le pre­sta­zio­ni  spe­cia­li­sti­che ad alta com­po­nen­te tec­no­lo­gi­ca a disca­pi­to del­le pre­sta­zio­ni ambu­la­to­ria­li. Ciò ha pesan­te­men­te con­tri­bui­to al decli­no del­la pre­ven­zio­ne e del­la pro­mo­zio­ne su base territoriale.

Rile­va­zio­ni sem­pre più pre­oc­cu­pan­ti docu­men­ta­no, inol­tre, la cre­sci­ta dei fon­di sani­ta­ri inte­gra­ti­vi, e i pro­ble­mi che ne deri­va­no riguar­do alla appro­pria­tez­za effet­ti­ve del­le cure, all’eguaglianza di acces­so ai ser­vi­zi per la salu­te, e alla soste­ni­bi­li­tà per la fisca­li­tà generale.

Infi­ne, si sono raf­for­za­te fram­men­ta­zio­ni e squi­li­bri ter­ri­to­ria­li.  Negli ulti­mi 18 anni gli inve­sti­men­ti al Sud  sono pari solo al 17,9% del tota­le.  Per quan­to riguar­da la spe­sa pro-capi­te, a fron­te di un impor­to media annuo a livel­lo nazio­na­le  di 44,4 euro, quel­la nel Nord-Est è pari a 76,7,  quel­la nel Sud a 24,7, men­tre al Cen­tro e al Nord-Ove­st i dati sono mol­to vici­ni alla media.

Quan­do una pan­de­mia come quel­la anco­ra in cor­so met­te in luce una doman­da di salu­te riguar­dan­te una popo­la­zio­ne nel suo insie­me, que­sto siste­ma si rive­la non sol­tan­to ina­de­gua­to ma anche con­trad­dit­to­rio rispet­to alle con­di­zio­ni cui dovreb­be cor­ri­spon­de­re la pro­du­zio­ne e la tute­la del­la salu­te come ser­vi­zio e bene fon­da­men­ta­le. Tan­to più per­ché abbia­mo ora­mai capi­to che la salu­te è deter­mi­na­ta non solo da fat­to­ri cli­ni­ci ma da fat­to­ri socia­li:  le con­di­zio­ni di vita e di lavo­ro, i ser­vi­zi acces­si­bi­li, il red­di­to e la posi­zio­ne socio-eco­no­mi­ca, il qua­dro di poli­cy. E che la salu­te uma­na e la salu­te  ambien­ta­le sono interconnesse.

Occor­re sicu­ra­men­te – e si può — ripar­ti­re dal ter­ri­to­rio,  soste­nen­do­ne e svi­lup­pan­do­ne capa­ci­tà, risor­se, com­pe­ten­ze. Le Case del­la Comu­ni­tà, pre­vi­ste dal PNRR, pos­so­no anda­re in que­sta dire­zio­ne a con­di­zio­ne che esse sia­no inscrit­te in una stra­te­gia com­ples­si­va orien­ta­ta a inve­sti­re su (i) la dota­zio­ne ade­gua­ta di per­so­na­le e infra­strut­tu­re, (ii) l’accesso alle cure dei sog­get­ti vul­ne­ra­bi­li (si pen­si ai migran­ti) (iii) la rispo­sta tem­pe­sti­va a pan­de­mie ed emer­gen­ze, (iv) l’assistenza domi­ci­lia­re sup­por­ta­ta dal­la tele­me­di­ci­na, (v) l’integrazione fra  inter­ven­ti sani­ta­ri e inter­ven­ti socia­li, (vi) l’adozione di meto­do­lo­gie di lavo­ro basa­te sui deter­mi­nan­ti socia­li per la salu­te e su approc­ci siste­mi­ci come one health che pren­do­no in con­to l’interdipendenza fra la salu­te del­le per­so­ne e l’ambiente in cui vivono.

Da un pun­to di vista pret­ta­men­te poli­ti­co, è neces­sa­rio rimet­te­re real­men­te la Salu­te al cen­tro del dibat­ti­to pub­bli­co e di tut­te le poli­ti­che di gover­no (HIAP, Health In All Poli­cies), e atti­va­re un’operazione veri­tà sull’importanza di ave­re un siste­ma sani­ta­rio pub­bli­co e uni­ver­sa­li­sti­co, che sap­pia­mo esse­re in natu­ra più effi­cien­te (in ter­mi­ni di costo) ed equo di un siste­ma mutua­li­sti­co o basa­to su assi­cu­ra­zio­ni private.

Infi­ne, non si può men­zio­na­re il tema del­la cor­ru­zio­ne. Come evi­den­zia­to da EHFCN (Euro­pean Heal­th­ca­re Fraud & Cor­rup­tion Net­work, https://www.ehfcn.org), quel­lo del­la cor­ru­zio­ne è pur­trop­po un tema trans­na­zio­na­le e, di con­se­guen­za, (qua­si) indi­pen­den­te dai model­li orga­niz­za­ti­vi dei siste­mi sani­ta­ri. È tut­ta­via neces­sa­rio pre­di­spor­re stru­men­ti che ne per­met­ta­no il contrasto.

Sanità: falsi problemi e nuove soluzioni

Spes­so si indi­vi­dua nel­la rifor­ma del tito­lo V la cau­sa prin­ci­pa­le del­la dif­fe­ren­za dei ser­vi­zi socio-sani­ta­ri garan­ti­ti dal­le Regio­ni. La pan­de­mia ha for­te­men­te ali­men­ta­to que­sta ver­sio­ne dei fat­ti. Ma è sostan­zial­men­te un fal­so pro­ble­ma. Come ben argo­men­ta­to da Neri­na Dirindin[1], le mag­gio­ri respon­sa­bi­li­tà sono in capo al livel­lo cen­tra­le, ovve­ro il Mini­ste­ro del­la Salu­te e i suoi occu­pan­ti dal­la rifor­ma in poi, sono i pri­mi respon­sa­bi­li (chi più, chi meno) del degra­do del nostro SSN. È quin­di man­ca­ta la poli­ti­ca. Per­ché con la Sani­tà non si vin­co­no le ele­zio­ni (cit).

Qua­li sono i van­tag­gi del siste­ma regio­na­le attua­le? Sono sostan­zial­men­te due. Il pri­mo è quel­lo di per­met­te­re alle Regio­ni di supe­ra­re i limi­ti e le man­can­ze del livel­lo cen­tra­le (per que­sto la Sani­tà è meglio in alcu­ne Regio­ni) men­tre il secon­do è l’organizzazione ad hoc dei ser­vi­zi sani­ta­ri. Se pen­sia­mo all’organizzazione del­la cam­pa­gna vac­ci­na­le, quan­te vit­ti­me in più avrem­mo avu­to se tut­te le Regio­ni fos­se­ro sta­te “len­te”, nel­la fase ini­zia­le, come alcu­ne Regioni?

Il secon­do è spes­so non con­si­de­ra­to nel dibat­ti­to pub­bli­co, e con­cer­ne la logi­sti­ca dei ser­vi­zi sani­ta­ri. I ser­vi­zi socio-sani­ta­ri dovreb­be­ro esse­re orga­niz­za­ti tenen­do in con­si­de­ra­zio­ne non solo il con­te­sto socio-eco­no­mi­co ma anche quel­lo geo­gra­fi­co e di infra­strut­tu­re, viste le enor­mi dif­fe­ren­ze che cor­ro­no tra Regio­ni e all’interno di una stes­sa Regio­ne. In altre paro­le quel­lo che può anda­re bene in Emi­lia Roma­gna, può non fun­zio­na­re in Sar­de­gna o Basi­li­ca­ta, e viceversa.

Tut­ta­via, tut­ti noi cit­ta­di­ni osser­via­mo le inef­fi­cien­ze  del nostro SSN. Per risol­ve­re que­sto pro­ble­ma anno­so (che è tipi­co di tut­ti i siste­mi sani­ta­ri pub­bli­ci), in mol­ti pro­pon­go­no un aumen­to del per­so­na­le sani­ta­rio, oltre che di risor­se stru­men­ta­li. Pur essen­do for­te­men­te auspi­ca­bi­le (vedi qua­dro gene­ra­le), è oppor­tu­no osser­va­re che tale aumen­to non si por­ta die­tro auto­ma­ti­ca­men­te l’aumento dell’efficienza in ter­mi­ni di ridu­zio­ne dei tem­pi di acces­so al servizio[2] [3]. Al con­tra­rio, l’aumento del per­so­na­le avrà inve­ce un impat­to bene­fi­co sul­la qua­li­tà del­la cura con con­se­guen­te bene­fi­cio anche economico[4].

Se con più per­so­na­le aumen­tia­mo la qua­li­tà del ser­vi­zio, come fac­cia­mo a ridur­re i tem­pi di atte­sa (non le liste di atte­sa) di acces­so ai ser­vi­zi sani­ta­ri? Come fac­cia­mo a ridur­re i tem­pi di atte­sa in un pron­to soc­cor­so? In altre paro­le come ren­dia­mo il nostro SSN pron­to a rispon­de­re velo­ce­men­te ai cit­ta­di­ni sen­za dete­rio­ra­re la qua­li­tà dei ser­vi­zi offerti?

Orga­niz­za­re un ser­vi­zio signi­fi­ca con­si­de­ra­re il per­cor­so del pazien­te, dal suo pri­mo con­tat­to con il Siste­ma Sani­ta­rio al trat­ta­men­to tera­peu­ti­co dopo la dia­gno­si, in tut­te le fasi e le pro­ce­du­re svol­te all’interno del SSN. Tali per­cor­si sono orga­niz­za­ti in PDTA (Per­cor­si Dia­gno­sti­co Tera­peu­ti­ci Assi­sten­zia­li), ovve­ro inter­ven­ti com­ples­si basa­ti sul­le miglio­ri evi­den­ze scien­ti­fi­che dispo­ni­bi­li, e carat­te­riz­za­ti dal­l’or­ga­niz­za­zio­ne del pro­ces­so di assi­sten­za per grup­pi spe­ci­fi­ci di pazien­ti, attra­ver­so il coor­di­na­men­to e l’at­tua­zio­ne di atti­vi­tà stan­dar­diz­za­te da par­te di un team multidisciplinare.

Occor­re quin­di ope­ra­re sui pro­ces­si che per­met­to­no la cor­ret­ta ese­cu­zio­ne del PDTA. Da que­sto pun­to di vista, il nostro SSN è all‘anno zero, e le espe­rien­ze esi­sten­ti sono loca­li e spo­ra­di­che se ci con­fron­tia­mo con le miglio­ri real­tà euro­pee. Ope­ra­re sui pro­ces­si signi­fi­ca appli­ca­re le meto­do­lo­gie di descrip­ti­ve, pre­dic­ti­ve e pre­scrip­ti­ve ana­ly­tics, ovve­ro — rispet­ti­va­men­te — capi­re cosa è suc­ces­so, pre­ve­de­re qua­li sce­na­ri potreb­be­ro veri­fi­car­si, e iden­ti­fi­ca­re la miglio­re o le miglio­ri rispo­ste a tali pos­si­bi­li scenari.

Sono alme­no 50 anni che le scien­ze di ana­li­si quan­ti­ta­ti­va si occu­pa­no dell’organizzazione dei siste­mi sani­ta­ri in diret­ta col­la­bo­ra­zio­ne con il for­ni­to­re del ser­vi­zio sani­ta­rio. Que­ste meto­do­lo­gie (anche le più inno­va­ti­ve) pos­so­no esse­re appli­ca­te sul cam­po sen­za par­ti­co­la­ri pau­re anche in Ita­lia. Tor­nan­do al pron­to soc­cor­so, un esempio[5] ci mostra come sia pos­si­bi­le ridur­re dra­sti­ca­men­te il tem­po che inter­cor­re tra tria­ge e pri­ma visi­ta  usan­do un siste­ma di sup­por­to alle deci­sio­ni basa­to su un model­lo pre­dit­ti­vo e algo­rit­mi di prioritizzazione.

Occor­re quin­di che il SSN, ad ogni livel­lo, si doti di nuo­ve com­pe­ten­ze e pro­fes­sio­na­li­tà mul­ti­di­sci­pli­na­ri che ope­ra­no nel­la gestio­ne dei ser­vi­zi sani­ta­ri (Health Care Mana­ge­ment Scien­ce) allo sco­po di gesti­re al meglio i PDTA met­ten­do al cen­tro il pazien­te ma al con­tem­po otti­miz­zan­do le risor­se disponibili.

Ma non è suf­fi­cien­te. E’ neces­sa­rio anche che il livel­lo cen­tra­le si doti di un siste­ma di moni­to­rag­gio e con­trol­lo del rispet­to dei dirit­ti dei cit­ta­di­ni, uti­le a segna­la­re con tem­pe­sti­vi­tà le caren­ze più gra­vi sui ter­ri­to­ri. Attual­men­te par­te di que­sta fun­zio­ne è deman­da­ta al Pro­get­to Nazio­na­le Esi­ti (PNE) ma la limi­ta­tez­za del­la capa­ci­tà di ana­li­si non ha for­ni­to aiu­to al deci­so­re politico.

Non ha infat­ti sen­so sape­re che i tem­pi di acces­so al PS in Pie­mon­te sia­no più o meno di quel­li del­la Lom­bar­dia o del­la Sici­lia. Non ser­vo­no per­ché non per­met­to­no di atti­va­re il ciclo del­la qua­li­tà, ovve­ro non dico­no dove si può miglio­ra­re. Quel­lo che si dovreb­be poter dire è: date le risor­se a dispo­si­zio­ne e il con­te­sto ope­ra­ti­vo, quel pron­to soc­cor­so di più non può fare oppu­re miglio­ra­re del 10% ponen­do in esse­re una lista di azio­ni con­cor­da­te con poli­ti­ci, diri­gen­ti, ope­ra­to­ri e cittadini.

Sem­bra fan­ta­scien­za ma non la è gra­zie ai Big Data del­la Sanità[6], che pos­so­no esse­re usa­ti per valu­ta­re inte­ri siste­mi sani­ta­ri regio­na­li sfrut­tan­do le poten­zia­li­tà del cal­co­lo ad alte pre­sta­zio­ni. Anche per que­sto i Big Data del­la Sani­tà devo­no resta­re pub­bli­ci: essi sono un bene comu­ne come l’acqua.

In sin­te­si, il SSN si deve dota­re di nuo­ve com­pe­ten­ze e pro­fes­sio­na­li­tà dal mon­do del­l’A­na­ly­tics per crea­re del­le Deci­sion Scien­ce Uni­ts inter­ne all’organizzazione il cui sco­po deve esse­re quel­lo di valu­ta­re l’erogazione dei ser­vi­zi sani­ta­ri ero­ga­ti indi­vi­duan­do col­li di bot­ti­glia e for­nen­do sug­ge­ri­men­ti per il miglio­ra­men­to, sta­bi­len­do inol­tre col­la­bo­ra­zio­ni strut­tu­ra­li con le Uni­ver­si­tà per favo­ri­re l’aggiornamento for­ma­ti­vo e la ricer­ca. Al con­tem­po, il Mini­ste­ro (maga­ri in Age­nas) deve dotar­si di un siste­ma di moni­to­rag­gio e con­trol­lo con­ti­nuo del rispet­to dei dirit­ti dei cit­ta­di­ni, uti­le a segna­la­re con tem­pe­sti­vi­tà le caren­ze più gra­vi sui ter­ri­to­ri, misu­ran­do anche le per­for­man­ce dei siste­mi sani­ta­ri, e aiu­tan­do la pro­gram­ma­zio­ne del per­so­na­le socio-sanitario[7].

Quest’ultimo pun­to è sicu­ra­men­te quel­lo più sfi­dan­te. Ma il nostro SSN è sem­pre sta­to cen­tro di spe­ri­men­ta­zio­ne e inno­va­zio­ne. L’esperienza ci dice che i medi­ci sono gene­ral­men­te d’accordo, il vero fre­no — spes­so ma non sem­pre — sono i diri­gen­ti di nomi­na poli­ti­ca. A quan­do diri­gen­ti nomi­na­ti sol­tan­to per sele­zio­ne pub­bli­ca e aperta?

Rias­su­men­do le pro­po­ste / punti:

Aumen­ta­re il per­so­na­le socio-sani­ta­rio che ope­ra nel nostro SSN gui­da­to da una seria pro­gram­ma­zio­ne tenen­do con­to del­le rea­li esi­gen­ze del siste­ma, e non solo del­le risor­se eco­no­mi­che disponibili.

Dota­re gli atto­ri del SSN (gran­di ospe­da­li, ASL, Regio­ni) di Deci­sion Scien­ce Unit per l’analisi e il miglio­ra­men­to dei ser­vi­zi ero­ga­ti acqui­sen­do ini­zial­men­te per­so­na­le spe­cia­liz­za­to ma al con­tem­po avvian­do nuo­vi per­cor­si for­ma­ti­vi di livel­lo uni­ver­si­ta­rio. Ana­lo­ga­men­te, dota­re il Mini­ste­ro di un siste­ma di moni­to­rag­gio e con­trol­lo con­ti­nuo del rispet­to dei dirit­ti dei cit­ta­di­ni, uti­le a segna­la­re con tem­pe­sti­vi­tà le caren­ze più gra­vi sui ter­ri­to­ri, misu­ran­do anche le per­for­man­ce dei siste­mi sanitari.

Scuola

L’istruzione pub­bli­ca è una risor­sa fon­da­men­ta­le per impo­sta­re una comu­ne idea di cit­ta­di­nan­za, limi­ta­re le dif­fe­ren­ze di acces­so alla cul­tu­ra e redi­stri­bui­re le oppor­tu­ni­tà a pre­scin­de­re dal­la pro­ve­nien­za socia­le. Per la “ter­za via” che negli anni Novan­ta cer­ca­va di aggior­na­re i pro­pri rife­ri­men­ti a una socie­tà che si vole­va pie­na­men­te svi­lup­pa­ta e lan­cia­ta ver­so il benes­se­re dif­fu­so, que­sto ruo­lo era inter­pre­ta­to secon­do la reto­ri­ca del­la “meri­to­cra­zia”: l’uguaglianza di acces­so alle oppor­tu­ni­tà di istru­zio­ne dove­va coin­ci­de­re con una sele­zio­ne dei “miglio­ri”, desti­na­ti a costi­tui­re una clas­se diri­gen­te legit­ti­ma­ta attra­ver­so il fil­tro del­la qualità.

Attra­ver­so que­sta len­te pos­so­no esse­re let­te le pro­po­ste di rifor­ma pro­mos­se da Lui­gi Ber­lin­guer. Que­ste era­no ani­ma­te da inten­ti di fon­do pro­gres­si­vi, come la lot­ta alla disper­sio­ne sco­la­sti­ca, il pro­lun­ga­men­to degli anni di stu­dio e l’ampliamento dell’accesso alla for­ma­zio­ne uni­ver­si­ta­ria. Dai pri­mi anni Due­mi­la, inve­ce, l’impostazione pre­mi­nen­te è quel­la neo­li­be­ra­le, ovvero:

 — Ridu­zio­ne del peri­me­tro del ser­vi­zio edu­ca­ti­vo pub­bli­co, sia sul pia­no del­le risor­se inve­sti­te, sia su quel­lo del­la capa­ci­tà pro­get­tua­le d’insieme, sosti­tui­ta da pro­ce­du­re di valu­ta­zio­ne del­le per­for­man­ce desti­na­te a pre­mia­re chi incon­tra i risul­ta­ti atte­si dal pote­re poli­ti­co e a pena­liz­za­re chi ope­ra in con­te­sti più difficili;

- Ridu­zio­ne del­la por­ta­ta cul­tu­ra­le dell’esperienza sco­la­sti­ca, let­ta essen­zial­men­te come fun­zio­na­le alle esi­gen­ze di un “mer­ca­to” che, nel­la for­ma imma­gi­na­ta dal deci­so­re pub­bli­co, costi­tui­sce una varia­bi­le indipendente;

- Disci­pli­na­men­to del per­so­na­le, con­ce­pi­to come mero ese­cu­to­re dei risul­ta­ti che poi tro­ve­ran­no la loro rile­va­zio­ne nel­le pro­ce­du­re di con­trol­lo del­la qualità;

- Gene­ra­le “indi­vi­dua­liz­za­zio­ne” dell’operato dei docen­ti e dei risul­ta­ti con­se­gui­ti dagli stu­den­ti, non più per­ce­pi­ti in una dimen­sio­ne d’insieme ma anzi visti qua­si esclu­si­va­men­te in un’ottica di competizione.

Una nuo­va poli­ti­ca per la scuo­la deve scar­di­na­re que­sta visio­ne, che si è impo­sta come sen­so comu­ne, par­ten­do pro­prio dal­la per­va­si­va idea di “meri­to­cra­zia”. È infat­ti chia­ro che:

 — Lun­gi dal ridur­re le dif­fe­ren­ze socia­li, essa le acui­sce, poi­ché valo­riz­za qua­li­tà più facil­men­te acces­si­bi­li da chi ha una robu­sta rete di soste­gno alle spal­le, soprat­tut­to in un con­te­sto di rela­ti­va ridu­zio­ne dell’impegno finan­zia­rio pub­bli­co nel­la scuola.

- Non esi­sten­do una defi­ni­zio­ne uni­vo­ca e uni­ver­sa­le del “meri­to”, ogni for­ma di sele­zio­ne meri­to­cra­ti­ca impo­ne un’unica visio­ne cul­tu­ra­le, spes­so con­fa­cen­te a esi­gen­ze di con­ser­va­zio­ne, e in ogni caso inac­cet­ta­bi­le in una socie­tà com­ples­sa e arti­co­la­ta come quel­la con­tem­po­ra­nea, nel­la qua­le non ci si può per­met­te­re di disper­de­re nes­sun tipo di talento.

- Rispet­to ad altri pae­si svi­lup­pa­ti la socie­tà ita­lia­na pre­sen­ta anco­ra un tas­so di disper­sio­ne sco­la­sti­ca dopo le medie infe­rio­ri più ampio (cir­ca il 14%, peral­tro con­cen­tra­to in alcu­ne aree) e una quo­ta di indi­vi­dui in pos­ses­so di un tito­lo di istru­zio­ne supe­rio­re nel­la fascia di età 25–34 anni deci­sa­men­te infe­rio­re (cir­ca il 29%): l’urgenza non è quel­la di limi­ta­re e sele­zio­na­re l’accesso ai gra­di più alti degli stu­di, ma quel­la di pro­muo­ver­lo con un’istruzione in gra­do di offri­re al mag­gior nume­ro pos­si­bi­le di ragaz­zi e ragaz­ze gli stru­men­ti per proseguirli.

 Una nuo­va poli­ti­ca sco­la­sti­ca deve dun­que fon­dar­si su altri valori:

 — Uni­ver­sa­li­tà: l’obbligo sco­la­sti­co ai 18 anni deve esse­re sostan­zia­to da un soste­gno con­cre­to al dirit­to allo stu­dio, dall’accesso per chi ne ha biso­gno ai ser­vi­zi abi­ta­ti­vi, di tra­spor­to e di aiu­to didat­ti­co neces­sa­ri ad affron­ta­re nel modo miglio­re gli stu­di uni­ver­si­ta­ri, e da un impe­gno vero nel­la for­ma­zio­ne con­ti­nua desti­na­ta a tut­te le fasce di età. In una paro­la, il dirit­to all’accesso agli stu­di deve diven­ta­re vero dirit­to a col­ti­va­re la pro­pria pos­si­bi­li­tà di successo.

- Pro­get­tua­li­tà: il siste­ma sco­la­sti­co deve impian­tar­si su un comu­ne pro­get­to di cit­ta­di­nan­za e di socie­tà, ma per far­lo deve ade­guar­si alle diver­se real­tà socia­li e ter­ri­to­ria­li in cui le scuo­le ope­ra­no. Per que­sto l’autonomia deve diven­ta­re uno stru­men­to di dia­lo­go degli isti­tu­ti con le esi­gen­ze del­la pro­pria area di rife­ri­men­to, nell’ambito di una gestio­ne com­ples­si­va che si pon­ga l’obiettivo di offri­re a tut­to il pae­se ser­vi­zi com­pa­ra­bi­li. In quest’ottica le rile­va­zio­ni sta­ti­sti­che nazio­na­li (INVALSI) e com­pa­ra­ti­ve (PISA, o PIAAC per gli adul­ti) devo­no esse­re stru­men­ti cono­sci­ti­vi per indi­vi­dua­re le cri­ti­ci­tà e le buo­ne pra­ti­che da diffondere.

- Valo­riz­za­zio­ne: nel­la scuo­la lo stu­den­te deve tro­va­re la stra­da per svi­lup­pa­re le sue atti­tu­di­ni e col­ti­va­re i suoi inte­res­si, arri­van­do attra­ver­so di essi a matu­ra­re le cono­scen­ze con­di­vi­se neces­sa­rie alla vita asso­cia­ta con­tem­po­ra­nea e finan­che le qua­li­tà cul­tu­ra­li e mora­li per met­ter­la in discus­sio­ne. L’offerta edu­ca­ti­va deve esse­re abba­stan­za varia da con­sen­ti­re al mag­gior nume­ro di pro­fi­li intel­let­tua­li di miglio­rar­si, e occor­re spaz­za­re via i resi­dui di gerar­chiz­za­zio­ne tra gli indi­riz­zi di stu­dio, per ren­de­re la scuo­la l’istituzione pre­pa­ra­to­ria a una socie­tà in cui il con­tri­bu­to di tut­te e di tut­ti è valorizzato.

 Le pro­po­ste ope­ra­ti­ve non pos­so­no che par­ti­re da un incre­men­to del­le risor­se inve­sti­te nell’istruzione, con prio­ri­tà negli ambi­ti e nei con­te­sti socia­li che han­no mag­gior biso­gno di rin­no­va­men­to strut­tu­ra­le del­le scuo­le, sen­za una logi­ca di com­pe­ti­zio­ne tra isti­tu­ti e indi­vi­dui che pri­vi­le­ge­reb­be chi già ha meno pro­ble­mi, ma indi­vi­duan­do la liber­tà di gestio­ne come valo­re a val­le rispet­to a un pia­no com­ples­si­vo di dif­fu­sio­ne capil­la­re dei ser­vi­zi sco­la­sti­ci di qualità.

Intrec­cia­ta a ciò è la neces­si­tà di met­te­re al cen­tro i pro­ta­go­ni­sti del­la vita edu­ca­ti­va, ovve­ro gli stu­den­ti e soprat­tut­to gli inse­gnan­ti. L’impostazione neo­li­be­ra­le ten­de ad ali­men­ta­re un fit­ti­zio con­flit­to di inte­res­si tra cor­po docen­te e resto del­la socie­tà, igno­ran­do che una scuo­la che fun­zio­na com­po­ne gli inte­res­si ver­so comu­ni obiet­ti­vi miglio­ra­ti­vi. Il cor­po docen­te ita­lia­no, la cui for­ma­zio­ne sul pia­no pro­fes­sio­na­le e didat­ti­co va senz’altro poten­zia­ta, rap­pre­sen­ta una risor­sa fon­da­men­ta­le di com­pe­ten­ze cul­tu­ra­li e di espe­rien­za che va coin­vol­ta nell’elaborazione di una nuo­va idea di scuo­la, e soprat­tut­to in un ade­gua­men­to con­cre­to alle esi­gen­ze socia­li, che avver­rà per for­za nel­la vita quo­ti­dia­na del­le clas­si. Una par­te del­le risor­se mate­ria­li da inve­sti­re sul­la scuo­la dovrà desti­nar­si al con­so­li­da­men­to del­le posi­zio­ni docen­ti, soste­nen­do la loro for­ma­zio­ne all’ingresso e duran­te il per­cor­so pro­fes­sio­na­le fino a far­ne un trat­to costi­tu­ti­vo, ade­guan­do gli sti­pen­di alle respon­sa­bi­li­tà, miglio­ran­do il rap­por­to nume­ri­co con gli stu­den­ti lad­do­ve cri­ti­co, e garan­ten­do le posi­zio­ni di ruo­lo neces­sa­rie a ren­de­re le sup­plen­ze il dispo­si­ti­vo di asso­lu­ta emer­gen­za per cui sono sta­te pen­sa­te, così da con­so­li­da­re con­ti­nui­tà didat­ti­ca e in gene­ra­le con­si­de­ra­zio­ne pro­fes­sio­na­le per il ruo­lo-chia­ve nel­lo svi­lup­po del­la scuola.

Università e ricerca

L’azione dei gover­ni negli ulti­mi vent’anni sul­la scuo­la, l’università e la ricer­ca è sta­ta in con­ti­nui­tà. L’idea sot­to­stan­te è che l’indirizzo del siste­ma del­la for­ma­zio­ne e del­la ricer­ca è ina­de­gua­to rispet­to alle neces­si­tà del siste­ma eco­no­mi­co e che solo con una rifor­ma del pri­mo sareb­be sta­to pos­si­bi­le un rilan­cio del secon­do. Gli inter­ven­ti sono sta­ti mira­ti a col­ma­re il “gap for­ma­ti­vo”, cioè la dif­fe­ren­za tra la for­ma­zio­ne e le esi­gen­ze del mer­ca­to del lavo­ro e a vin­co­la­re la ricer­ca di base dirot­tan­do i finan­zia­men­ti in manie­ra con­trol­la­ta dall’alto. L’esito è sta­to cata­stro­fi­co per­ché era­no sba­glia­te le premesse. 

Secon­do il report dell’Istat sul­la mobi­li­tà inter­na e le migra­zio­ni inter­na­zio­na­li del­la popo­la­zio­ne resi­den­te, tra il 2013 e il 2017 oltre 244mila con­na­zio­na­li con più di 25 anni sono migra­ti all’estero, di cui il 64%, 156 mila, lau­rea­ti e diplo­ma­ti. La ten­den­za negli anni è in ver­ti­gi­no­so aumen­to: i lau­rea­ti ita­lia­ni che si sono tra­sfe­ri­ti all’estero nel 2017 sono sta­ti il +4% rispet­to al 2016 ma +41,8% rispet­to a 2013. La migra­zio­ne, tut­ta­via, non è solo ver­so l’estero (Regno Uni­to, Ger­ma­nia e Fran­cia in pri­mis) ma anche inter­na: negli ulti­mi 20 anni, dice l’Istat, la per­di­ta net­ta di popo­la­zio­ne nel Sud, dovu­ta ai movi­men­ti inter­ni è sta­ta pari a 1 milio­ne 174mila uni­tà. Que­sto è un sin­to­mo di un pro­ble­ma strut­tu­ra­le del pae­se che espel­le i gio­va­ni, soprat­tut­to i più for­ma­ti – ovve­ro la pri­ma ric­chez­za su cui inve­sti­re – e che è volu­ta­men­te igno­ra­to o mar­gi­na­liz­za­to nel­la discus­sio­ne pubblica. 

Il taglio alle poli­ti­che di for­ma­zio­ne avve­nu­to dal 2008 in poi ha pro­dot­to un calo del 10% degli imma­tri­co­la­ti (ma fino al 20% se ci limi­tia­mo fino al 2013), tan­to che il nostro pae­se ha rag­giun­to l’ultimo posto in Euro­pa per per­cen­tua­le di nume­ro di lau­rea­ti nel­la fascia d’età 25–34 anni (supe­ra­ti anche dal­la Tur­chia), con un valo­re del 29% men­tre la media UE è poco sot­to il 40%; dal 2007 i posti di dot­to­ra­to ban­di­ti si sono ridot­ti addi­rit­tu­ra del 43,4%. Il para­dos­so ita­lia­no con­si­ste nel fat­to che, mal­gra­do que­sta situa­zio­ne disa­stro­sa e pre­oc­cu­pan­te, pochis­si­mi rie­sco­no a tro­va­re un lavo­ro che sia adat­to al gra­do d’istruzione acqui­si­to e di qui feno­me­ni come l’emigrazione di mas­sa e la com­pe­ti­zio­ne per lavo­ri pre­ca­ri di bas­so livello. 

Que­sto è il nodo che una for­za poli­ti­ca di sini­stra dovreb­be met­te­re in testa alla sua prio­ri­tà, impo­nen­do­lo con for­za nel dibat­ti­to pub­bli­co e segnan­do così una for­te discon­ti­nui­tà con le poli­ti­che fin qui attua­te che si sono foca­liz­za­te sull’abbassamento del costo del lavo­ro e dei dirit­ti dei lavo­ra­to­ri, inve­ce che sul­la com­pe­ti­zio­ne basa­ta sul­la spe­cia­liz­za­zio­ne tec­no­lo­gi­ca, sul mito del­le pic­co­le e medie impre­se, o addi­rit­tu­ra del­le effi­me­re start-up, come moto­re dell’innovazione, inve­ce che sul ruo­lo di uno Sta­to impren­di­to­re che sia crea­to­re di dura­tu­ri nuo­vi set­to­ri tec­no­lo­gi­ci e mer­ca­ti. Que­sto cam­bia­men­to di rot­ta poli­ti­ca deve esse­re neces­sa­ria­men­te accom­pa­gna­to dall’apertura di una discus­sio­ne per cam­bia­re le rego­le euro­pee: se non si può par­la­re di rap­por­to di cau­sa­li­tà diret­ta, cer­ta­men­te c’è sta­ta una cor­re­la­zio­ne tra l’ingresso dell’Italia nell’euro e, ad esem­pio, il crol­lo del­la pro­du­zio­ne indu­stria­le del 25% che ha coin­ci­so con lo sman­tel­la­men­to del­le gran­di indu­strie a par­te­ci­pa­zio­ne sta­ta­le e con il cam­bia­men­to di obiet­ti­vo dall’aumento del­la pro­dut­ti­vi­tà e del­la spe­cia­liz­za­zio­ne tec­no­lo­gi­ca a quel­lo dell’abbassamento del­la qua­li­tà e del costo del lavoro. 

Il pro­ble­ma del mer­ca­to del lavo­ro per il per­so­na­le con alta for­ma­zio­ne sta infat­ti dal­la par­te del­le impre­se: il para­dos­so ita­lia­no è quel­lo di esse­re al penul­ti­mo posto dei Pae­si Ocse per quo­ta di lau­rea­ti nel­la fascia d’età 25–34 anni, il 29% con­tro il 45% del­la media Ocse, e al con­tem­po di espor­ta­re i pochi “cer­vel­li” che ven­go­no for­ma­ti (dal 2007 i posti di dot­to­ra­to ban­di­ti sono cala­ti del 43,4%). Que­sto poi­ché pochi tro­va­no una occu­pa­zio­ne ade­gua­ta al livel­lo d’istruzione acqui­si­to. L’emigrazione di mas­sa e la com­pe­ti­zio­ne per lavo­ri pre­ca­ri di bas­so livel­lo nasco­no da qui.

 La nar­ra­ti­va domi­nan­te ha però rac­con­ta­to tutt’altro: sor­vo­lan­do sul­la man­can­za di una richie­sta rea­le di per­so­na­le ad alta for­ma­zio­ne da par­te del­le impre­se e del cro­ni­co sot­to-finan­zia­men­to del siste­ma uni­ver­si­ta­rio e del­la ricer­ca, si è iden­ti­fi­ca­to il capro espia­to­rio del pro­ble­ma negli inse­gnan­ti e nei pro­fes­so­ri. Si è attua­ta, in manie­ra bipar­ti­san, la rifor­ma Gel­mi­ni che avreb­be dovu­to sal­va­re l’Università dai “baro­ni” e inve­ce l’ha con­se­gna­ta ad una éli­te di pro­fes­so­ri spes­so con­ti­gui alla poli­ti­ca. Il rac­con­to è sta­to incen­tra­to sul­la favo­la del sec­chio buca­to: pri­ma di riem­pir­lo (dare risor­se al siste­ma), biso­gna tap­par­ne i buchi (rifor­mar­lo).  E così nel 2010 si deci­se un taglio del­le risor­se di cir­ca il 20%. 

Que­sta situa­zio­ne ha pro­dot­to una for­te gerar­chiz­za­zio­ne dei ruo­li, anche per effet­to dell’abolizione del­la figu­ra del ricer­ca­to­re a tem­po inde­ter­mi­na­to, sosti­tui­ta da un eser­ci­to di pre­ca­ri la cui car­rie­ra è incer­ta per le scar­se risor­se dispo­ni­bi­li e che sono incen­ti­va­ti al con­for­mi­smo, cioè a lavo­ra­re su pro­get­ti di ricer­ca che pun­ta­no a otte­ne­re, innan­zi­tut­to, il con­sen­so del­la comu­ni­tà di rife­ri­men­to piut­to­sto che a pro­por­re l’esplorazione di nuo­ve idee. Se que­sto è un feno­me­no inter­na­zio­na­le, in Ita­lia è incen­ti­va­to dal­la par­ti­co­la­re com­bi­na­zio­ne di fon­di limi­ta­ti e valu­ta­zio­ne pervasiva. 

Uno dei feno­me­ni più lam­pan­ti che han­no gene­ra­to le misu­re dei gover­ni negli ulti­mi 15 anni è sta­to un tra­va­so di docen­ti da un ate­neo all’altro. C’è una ripar­ti­zio­ne del­le risor­se che segue la diret­tri­ce Sud-Nord: è come se l’equivalente di 280 ricer­ca­to­ri doves­se abban­do­na­re gli ate­nei meri­dio­na­li per esse­re tra­sfe­ri­ti nel­le più ric­che uni­ver­si­tà set­ten­trio­na­li. Voglia­mo pre­mia­re i vir­tuo­si, si dirà: ma cosa signi­fi­ca “vir­tuo­so”? Il gover­no Mon­ti sta­bi­lì che i pen­sio­na­men­ti in un ate­neo A pos­sa­no esse­re rim­piaz­za­ti da assun­zio­ni in un ate­neo B, se B ha un bilan­cio più soli­do (più vir­tuo­so) di A. Così ora le uni­ver­si­tà mila­ne­si inca­me­ra­no l’equivalente di 168 ricer­ca­to­ri in aggiun­ta al rim­piaz­zo dei pro­pri pen­sio­na­men­ti: orga­ni­co sot­trat­to agli ate­nei del Cen­tro-Sud. Un ate­neo per diven­ta­re più vir­tuo­so deve sem­pli­ce­men­te aumen­ta­re le tas­se uni­ver­si­ta­rie, sen­za curar­si del tet­to mas­si­mo pre­vi­sto dal­la leg­ge e sul­la cui vio­la­zio­ne nes­su­no vigi­la. L’aggettivo “vir­tuo­so” ser­ve dun­que per giu­sti­fi­ca­re una poli­ti­ca ispi­ra­ta dall’effetto san Mat­teo, il pro­ces­so per cui le risor­se sono ripar­ti­te fra i diver­si atto­ri in pro­por­zio­ne a quan­to già han­no: “I ric­chi si arric­chi­sco­no sem­pre più, i pove­ri s’impoveriscono sem­pre più”. Secon­do gli idea­to­ri, que­sta manie­ra di distri­bui­re le risor­se avvan­tag­ge­reb­be, per un effet­to di sgoc­cio­la­men­to dall’alto ver­so il bas­so, l’intera socie­tà. Nel caso dell’istruzione supe­rio­re, mol­ti gover­ni con­si­de­ra­no obiet­ti­vo prin­ci­pa­le del­la loro poli­ti­ca, che giu­sti­fi­ca l’accentramento del­le risor­se, quel­lo di ave­re uni­ver­si­tà nel top del­le clas­si­fi­che mon­dia­li degli ate­nei. Biso­gne­reb­be inve­ce con­si­de­ra­re che tra le die­ci regio­ni euro­pee con i valo­ri più bas­si di lau­rea­ti (fascia di età tra 30/34 anni, dati 2014) ci sono la Sar­de­gna, la Sici­lia, la Cam­pa­nia e la Basi­li­ca­ta e che gli stu­den­ti iscrit­ti nel mez­zo­gior­no sono crol­la­ti rispet­to a quel­lo del nord Ita­lia (-18,7% con­tro un ‑3,9% nel cen­tro Nord tra il 2006 e il 2015). 

Il pro­ble­ma è che se in una situa­zio­ne di sot­to­svi­lup­po si usa­no degli indi­ca­to­ri come l’ammontare del­le tas­se uni­ver­si­ta­rie per distri­bui­re le risor­se si fa una scel­ta poli­ti­ca in linea con l’effetto San Mat­teo. Per que­sta ragio­ne nell’ultimo decen­nio l’università ita­lia­na è sta­ta ridi­men­sio­na­ta in modo selet­ti­vo: più al Sud che al Nord e poi­ché si par­ti­va già da una situa­zio­ne sot­to­di­men­sio­na­ta, l’impatto al Sud com­pro­met­te le pro­spet­ti­ve di inte­ri territori.

Pen­san­do a del­le linee di inter­ven­to, è neces­sa­rio innan­zi­tut­to aumen­ta­re le risor­se e distri­buir­le in manie­ra dif­fu­sa sia per le linee di ricer­ca che per la col­lo­ca­zio­ne geo­gra­fi­ca, inver­ten­do così la ten­den­za a pre­mia­re solo chi già ha, per meri­to o per sto­ria, risor­se e cer­can­do di inver­ti­re il depe­ri­men­to di inte­re regio­ni e set­to­ri scien­ti­fi­ci. La dina­mi­ca del­la distri­bu­zio­ne del­le risor­se in base a un meri­to più o meno rea­le ha il rischio di accen­tra­re sem­pre di più le risor­se su pochi poli, sof­fo­can­do la ricer­ca dif­fu­sa e gene­ran­do un cir­co­lo vizio­so che ini­bi­sce a sua vol­ta la pos­si­bi­li­tà di svi­lup­pa­re ricer­che inno­va­ti­ve. È neces­sa­rio non solo libe­ra­re i pre­ca­ri del­la ricer­ca dal ricat­to, ma anche con­tra­sta­re la con­cen­tra­zio­ne del pote­re acca­de­mi­co in poche mani, ripri­sti­nan­do for­me di gover­no demo­cra­ti­co degli ate­nei ten­den­do sem­pre pre­sen­te che la vera esplo­ra­zio­ne, oltre a esse­re dif­fi­ci­le, può con­dur­re a risul­ta­ti incer­ti e non è una scel­ta popo­la­re nel cam­po in cui si lavo­ra.  Tut­ta­via, favo­ri­re l’innovazione, che nasce pro­prio dall’esplorazione di nuo­ve stra­de, dovreb­be esse­re un obiet­ti­vo prio­ri­ta­rio del­le poli­ti­che del­la ricer­ca: stra­te­gie per pre­mia­re la creatività.

Il patrimonio culturale

 Non c’è mai sta­ta, in que­sto pae­se, una poli­ti­ca cul­tu­ra­le costi­tu­zio­nal­men­te orien­ta­ta. Nel­le due ulti­me legi­sla­tu­re, poi, sono arri­va­te le ‘rifor­me’ di Dario Fran­ce­schi­ni. Esse si basa­no su un prin­ci­pio sem­pli­ce, anzi bru­ta­le: sepa­ra­re la good com­pa­ny dei musei (quel­li che ren­do­no qual­che sol­do), dal­la bad com­pa­ny del­le odio­se soprin­ten­den­ze, avvia­te a gran­di pas­si ver­so l’a­bo­li­zio­ne. Il resto (archi­vi, biblio­te­che, siti mino­ri, patri­mo­nio dif­fu­so) è sem­pli­ce­men­te abban­do­na­to a se stes­so: avven­ga quel che può.

In gio­co non c’è la digni­tà del­l’ar­te, ma la nostra capa­ci­tà di cam­bia­re il mon­do. Il patri­mo­nio cul­tu­ra­le è una fine­stra attra­ver­so la qua­le pos­sia­mo capi­re che è esi­sti­to un pas­sa­to diver­so, e che dun­que sarà pos­si­bi­le anche un futu­ro diver­so. Ma se lo tra­sfor­mia­mo nel­l’en­ne­si­mo spec­chio in cui far riflet­te­re il nostro pre­sen­te ridot­to ad un’u­ni­ca dimen­sio­ne, quel­la eco­no­mi­ca, abbia­mo fat­to amma­la­re la medi­ci­na, abbia­mo avve­le­na­to l’an­ti­do­to. Se il patri­mo­nio non pro­du­ce cono­scen­za dif­fu­sa, ma lus­so per pochi basa­to sul­lo schia­vi­smo, dav­ve­ro non abbia­mo più moti­vi per man­te­ner­lo con le tas­se di tut­ti: non ser­ve più al pro­get­to del­la Costi­tu­zio­ne, che è “il pie­no svi­lup­po del­la per­so­na uma­na” (art. 3).

Tut­to que­sto non è una novi­tà, è l’e­stre­miz­za­zio­ne del­la linea anti­co­sti­tu­zio­na­le inau­gu­ra­ta da Alber­to Ron­chey (mini­stro per i beni cul­tu­ra­li dal 1992 al 94), gui­da­ta da un mici­dia­le cock­tail ideo­lo­gi­co nel qua­le era­no mesco­la­ti la dot­tri­na del patri­mo­nio come ‘petro­lio d’Italia’, la reli­gio­ne del pri­va­to con l’annesso rito del­la pri­va­tiz­za­zio­ne, e (spe­cie dopo il mini­ste­ro di Wal­ter Vel­tro­ni) lo slit­ta­men­to ‘tele­vi­si­vo’ per cui il patri­mo­nio non ha più una fun­zio­ne cono­sci­ti­va, edu­ca­ti­va, civi­le, ma si tra­sfor­ma in un gran­de luna park per il diver­ti­men­to e il tem­po libe­ro (si veda lo sfre­gio del­la rico­stru­zio­ne dell’arena del Colosseo).

La sto­ria dell’arte è in gran­de par­te la sto­ria del­l’au­to­rap­pre­sen­ta­zio­ne del­le clas­se domi­nan­ti, e per un lun­go trat­to i suoi monu­men­ti sono sta­ti costrui­ti con dena­ro sot­trat­to all’interesse comu­ne. Ma la Costi­tu­zio­ne ha reden­to que­sta sto­ria: le ha dato un sen­so di let­tu­ra radi­cal­men­te nuo­vo. Il patri­mo­nio arti­sti­co è dive­nu­to un luo­go dei dirit­ti del­la per­so­na, una leva di costru­zio­ne dell’eguaglianza, un mez­zo per inclu­de­re colo­ro che era­no sem­pre sta­ti sot­to­mes­si ed espropriati.

 Per­ché que­sto si rea­liz­zi, i pri­mi pas­si sono pochi e chiari:

 — abro­ga­re le rifor­me Fran­ce­schi­ni, e tor­na­re a riu­ni­re ter­ri­to­rio e musei in fun­zio­ne del­la tute­la e del­la pro­du­zio­ne e redi­stri­bu­zio­ne del­la cono­scen­za attra­ver­so la ricerca;

- intro­dur­re l’accesso gra­tui­to a tut­ti i musei e i siti del­la cul­tu­ra statali;

- tor­na­re imme­dia­ta­men­te al livel­lo di finan­zia­men­to del patri­mo­nio pre­ce­den­te al taglio Bon­di-Tre­mon­ti del 2008;

- ripor­ta­re la pian­ta orga­ni­ca dei Beni cul­tu­ra­li a 25.000 uni­tà, e coprir­le tut­te con posti a tem­po indeterminato;

- abo­li­re il Fon­do Edi­fi­ci di Cul­to del Mini­ste­ro dell’Interno e ricon­dur­re il patri­mo­nio cul­tu­ra­le chie­sa­sti­co sot­to il con­trol­lo diret­to del­le soprin­ten­den­ze territoriali;

- riu­ni­re Ambien­te e Cul­tu­ra in un solo Mini­ste­ro del Ter­ri­to­rio e del Patri­mo­nio (un mini­ste­ro dell’articolo 9 del­la Costi­tu­zio­ne), da inten­de­re come un mini­ste­ro dei dirit­ti del­la per­so­na, come lo sono quel­li del­la Salu­te e dell’Istruzione.

- ‘deco­lo­niz­za­re’ i monu­men­ti attra­ver­so un gran­de pro­get­to di edu­ca­zio­ne costi­tu­zio­na­le al patrimonio.

- inse­ri­re l’insegnamento del­la sto­ria dell’arte (inte­sa come sto­ria del patri­mo­nio cul­tu­ra­le) in tut­te le scuo­le, di ogni ordi­ne e grado.

Giustizia penale, sicurezza e comunità

Affron­ta­re il tema del­la giu­sti­zia pena­le nel nostro Pae­se signi­fi­ca, in pri­mo luo­go, rea­liz­za­re com­piu­ta­men­te il det­ta­to costi­tu­zio­na­le, che pre­ve­de una rispo­sta cali­bra­ta e diver­si­fi­ca­ta da par­te del­lo Sta­to in occa­sio­ne del­la com­mis­sio­ne di fat­ti di rea­to. L’articolo 27 del­la Costi­tu­zio­ne par­la infat­ti non solo del­la pena del­la reclu­sio­ne, ma più ampia­men­te del­le diver­se “pene” pos­si­bi­li: la con­cre­ta decli­na­zio­ne di qua­li e quan­te deb­ba­no esse­re que­ste pene non può che legar­si in modo inscin­di­bi­le alla loro fina­li­tà rie­du­ca­ti­va. Imma­gi­na­re una pena­li­tà che con­cre­ta­men­te spin­ga gli auto­ri di rea­to a por­re rime­dio (quan­do e per quan­to que­sto sia pos­si­bi­le) al male e alla sof­fe­ren­za che i rea­ti arre­ca­no alla con­vi­ven­za civi­le: que­sta la vera sfi­da per una Socie­tà moder­na, che voglia tute­la­re la pro­pria sicu­rez­za in ter­mi­ni reali.

Il sostan­zia­le fal­li­men­to del siste­ma san­zio­na­to­rio tra­di­zio­na­le è, pur­trop­po, un dato incon­te­sta­bi­le: nel nostro Pae­se la giu­sti­zia pena­le è spes­so eser­ci­ta­ta male e tar­di e le car­ce­ri sono dive­nu­te, nono­stan­te l’impegno di tan­ti ope­ra­to­ri, luo­ghi di inu­ma­ni­tà e spes­so di ripro­du­zio­ne del­la cri­mi­na­li­tà. Un siste­ma san­zio­na­to­rio effi­ca­ce deve, in pri­mo luo­go, deli­mi­ta­re in modo rigo­ro­so e sicu­ro il peri­me­tro del­le pene che devo­no esse­re espia­te neces­sa­ria­men­te in car­ce­re, evi­tan­do di sovraf­fol­la­te gli Isti­tu­ti Peni­ten­zia­ri di per­so­ne che non sia­no con­cre­ta­men­te peri­co­lo­se per la con­vi­ven­za comune.

A tutt’oggi, più di un ter­zo dei dete­nu­ti non risul­ta con­dan­na­to in via defi­ni­ti­va; un altro ter­zo risul­ta coin­vol­to in rea­ti mino­ri, spes­so ricon­du­ci­bi­li al pic­co­lo spac­cio di sostan­ze stu­pe­fa­cen­ti; qua­si la metà è por­ta­tri­ce di pro­ble­ma­ti­che psi­chi­che. È asso­lu­ta­men­te neces­sa­rio evi­ta­re che, all’interno degli Isti­tu­ti Peni­ten­zia­ri si per­pe­tui la peri­co­lo­sa con­vi­ven­za e com­mi­stio­ne tra per­so­ne che han­no alle spal­le car­rie­re delin­quen­zia­li e devian­ti di con­si­de­re­vo­le spes­so­re e dete­nu­ti con pene esi­gue e sti­li di vita che fan­no degli espe­dien­ti quo­ti­dia­ni la pro­pria cifra carat­te­ri­sti­ca, per evi­ta­re che la cri­mi­na­li­tà orga­niz­za­ta pos­sa attin­ge­re ad un ser­ba­to­io così cospi­cuo di mano­va­lan­za criminale.

E, d’altra par­te, occor­re rispri­sti­na­re – paral­le­la­men­te agli inter­ven­ti di ridu­zio­ne del sovraf­fol­la­men­to car­ce­ra­rio – la pie­na digni­tà del­le con­di­zio­ni di deten­zio­ne, in modo ade­ren­te al det­ta­to del­la Costi­tu­zio­ne e nell’interesse dei lavo­ra­to­ri del­la Giu­sti­zia e del­la socie­tà civi­le, oltre che degli stes­si dete­nu­ti: un car­ce­re inde­gno è anche un car­ce­re insi­cu­ro e peri­co­lo­so, anche e soprat­tut­to per i ter­ri­to­ri che lo circondano.

Costrui­re un siste­ma pena­le sicu­ro ed effi­cien­te signi­fi­ca, innan­zi­tut­to, allar­ga­re lo sguar­do, sino­ra con­cen­tra­to qua­si esclu­si­va­men­te sugli auto­ri di rea­to, anche alla socie­tà che è lo sce­na­rio in cui i rea­ti si con­su­ma­no, a par­ti­re dal­le figu­re del­le vit­ti­me. Rea­liz­za­re un ser­vi­zio pub­bli­co e gene­ra­le di assi­sten­za (psi­co­lo­gi­ca, eco­no­mi­ca, giu­ri­di­ca) alle vit­ti­me costi­tui­sce un biso­gno non più rin­via­bi­le da par­te del siste­ma del­la giu­sti­zia. E, d’altra par­te, poten­zia­re le san­zio­ni sosti­tu­ti­ve e le misu­re alter­na­ti­ve, incre­men­tan­do il rea­le con­trol­lo del­le azio­ni con­cre­te che gli auto­ri di rea­to sono dispo­sti a com­pie­re a favo­re del­le comu­ni­tà che han­no feri­to con i pro­pri atti, è un impe­ra­ti­vo cate­go­ri­co, ove si voglia real­men­te poten­zia­re la sicu­rez­za socia­le, facen­do leva su un costan­te e capil­la­re moni­to­rag­gio del­la quo­ti­dia­ni­tà del rein­se­ri­men­to socia­le, oltre che sui con­trol­li tra­di­zio­na­li del­le for­ze di Polizia.

 Si trat­ta, insom­ma, di inte­gra­re il siste­ma san­zio­na­to­rio al di là del­la delu­den­te situa­zio­ne car­ce­ra­ria, chie­den­do e moti­van­do le per­so­ne a dare il meglio di se’ a quel­le cer­chie socia­li che han­no cono­sciu­to solo il peg­gio e aven­do la pron­tez­za di inter­ve­ni­re effi­ca­ce­men­te e tem­pe­sti­va­men­te quan­do ciò non suc­ce­de nel­la misu­ra prevista.

Que­sta dimen­sio­ne san­zio­na­to­ria, è, evi­den­te­men­te per mol­ti, ma non per tut­ti colo­ro che si sono mac­chia­ti del­la com­mis­sio­ne di rea­ti, alcu­ni dei qua­li – a cau­sa del­la par­ti­co­la­re gra­vi­tà dei fat­ti o del­la indi­spo­ni­bi­li­tà a met­ter­si in gio­co in una vera espe­rien­za di resti­tu­zio­ne alla comu­ni­tà e di rein­se­ri­men­to socia­le – non pos­so­no (o non pos­so­no anco­ra) par­te­ci­pa­re ad una dimen­sio­ne più ambi­zio­sa ed effi­ca­ce. Rispet­to a que­ste situa­zio­ni, la dimen­sio­ne car­ce­ra­ria rima­ne, pur con le dovu­te rifor­me e sen­za che la pena acqui­sti carat­te­ri incom­pa­ti­bi­li con la digni­tà del­la per­so­na, la pro­spet­ti­va più immediata.

Da que­sta pro­spet­ti­va, discen­do­no tre proposte:

1) crea­re una agen­zia che pos­sa dispor­re, come suc­ce­de in mol­to sta­ti euro­pei, di risor­se e mez­zo per un con­trol­lo è una pro­get­tua­li­tà dei per­cor­si di rein­se­ri­men­to sul territorio;

2) intro­dur­re e raf­for­za­re la pre­vi­sio­ne di altre san­zio­ni pena­li (lavo­ri di pub­bli­ca uti­li­tà, san­zio­ni sosti­tu­ti­ve, san­zio­ni eco­no­mi­che) nel siste­ma pena­le qua­li alter­na­ti­ve alla detenzione;

3) tra­sfor­ma­re la Poli­zia peni­ten­zia­ria, ren­den­do­la la Poli­zia del Mini­ste­ro del­la Giu­sti­zia, con giu­ri­sdi­zio­ne, pre­si­di, mez­zi e risor­se anche sui ter­ri­to­ri, oltre che nel­le car­ce­ri e uffi­ci ministeriali.

CITTADINANZA E POLITICHE SOCIALI

Diritti di cittadinanza

Esi­sto­no mol­ti modi di decli­na­re il con­cet­to di cit­ta­di­nan­za. Nel­la sua dimen­sio­ne giu­ri­di­ca, la cit­ta­di­nan­za riman­da al dirit­to di resi­den­za sul ter­ri­to­rio nazio­na­le e ai dirit­ti poli­ti­ci, in pri­mis di elet­to­ra­to atti­vo e pas­si­vo. Ma dal pun­to di vista del­la per­so­na, altret­tan­to se non più impor­tan­ti sono i dirit­ti con­nes­si alla cit­ta­di­nan­za socia­le, che le per­met­to­no di eman­ci­par­si dai biso­gni e di par­te­ci­pa­re a pie­no tito­lo alla comu­ni­tà poli­ti­ca di cui fa par­te. Pren­de­re sul serio la cit­ta­di­nan­za socia­le vuol dire dare pie­na attua­zio­ne alla nostra Costi­tu­zio­ne e in par­ti­co­la­re al secon­do com­ma dell’articolo 3, secon­do cui: “È com­pi­to del­la Repub­bli­ca rimuo­ve­re gli osta­co­li di ordi­ne eco­no­mi­co e socia­le, che, limi­tan­do di fat­to la liber­tà e l’eguaglianza dei cit­ta­di­ni, impe­di­sco­no il pie­no svi­lup­po del­la per­so­na uma­na e l’effettiva par­te­ci­pa­zio­ne di tut­ti i lavo­ra­to­ri all’organizzazione poli­ti­ca, eco­no­mi­ca e socia­le del Paese”.

Qua­li sono gli osta­co­li alla frui­zio­ne dei dirit­ti di cit­ta­di­nan­za a cui è urgen­te por­re rimedio?

Par­tia­mo dal­la cit­ta­di­nan­za giu­ri­di­ca. In Ita­lia, cit­ta­di­ni si nasce e non si diven­ta, alme­no non facil­men­te. La leg­ge 91/1992, attual­men­te in vigo­re, sta­bi­li­sce che il dirit­to di cit­ta­di­nan­za spet­ta auto­ma­ti­ca­men­te solo a chi nasce da un geni­to­re ita­lia­no (e per esten­sio­ne, a chi ne vie­ne adot­ta­to), secon­do il prin­ci­pio nazio­na­li­sta del­lo ius san­gui­nis. Le per­so­ne immi­gra­te pos­so­no chie­de­re la cit­ta­di­nan­za per natu­ra­liz­za­zio­ne solo dopo die­ci anni di per­ma­nen­za inin­ter­rot­ta sul ter­ri­to­rio ita­lia­no. I loro figli, anche se nati in Ita­lia, devo­no aspet­ta­re il com­pi­men­to del­la mag­gio­re età per fare richie­sta e cre­sco­no quin­di in un lim­bo iden­ti­ta­rio in cui il pae­se in cui sono nati e cre­sciu­ti ‒ e spes­so l’unico che cono­sco­no ‒ con­ti­nua a con­si­de­rar­li stra­nie­ri. Qua­li sono le alter­na­ti­ve? Sen­za para­go­nar­ci ai gran­di pae­si di immi­gra­zio­ne come Sta­ti Uni­ti e Cana­da, dove vige il prin­ci­pio del­lo ius soli (per cui chi nasce sul ter­ri­to­rio nazio­na­le ha auto­ma­ti­ca­men­te dirit­to alla cit­ta­di­nan­za), in mol­ti pae­si euro­pei vige una ver­sio­ne tem­pe­ra­ta del­lo ius soli, che con­di­zio­na l’accesso alla cit­ta­di­nan­za per i mino­ri a una rela­ti­va sta­bi­li­tà ter­ri­to­ria­le dei geni­to­ri. È il caso di Fran­cia, Spa­gna, Por­to­gal­lo, Bel­gio, Olan­da e Irlan­da e, dal 2000, per­si­no del­la Ger­ma­nia, dove pure i con­cet­ti di cit­ta­di­nan­za, nazio­na­li­tà e appar­te­nen­za etni­ca han­no da sem­pre con­fi­ni labi­li. In Ita­lia, la discus­sio­ne sul­la rifor­ma del­la leg­ge sul­la cit­ta­di­nan­za si pro­trae ormai da trop­po tem­po. L’alibi usa­to da mol­ti par­ti­ti, secon­do cui si trat­te­reb­be di una bat­ta­glia di ban­die­ra e non di una neces­si­tà impro­ro­ga­bi­le, si scon­tra con la vita quo­ti­dia­na di più di un milio­ne di mino­ri stra­nie­ri resi­den­ti in Ita­lia, di cui cir­ca la metà sot­to i set­te anni. Il testo in discus­sio­ne alla Came­ra a luglio 2022, su cui l’esecutivo Dra­ghi non ha pre­so posi­zio­ne e che dif­fi­cil­men­te vedrà la luce pri­ma del­la fine del­la legi­sla­tu­ra, pre­ve­de il cosid­det­to ius scho­lae (ex ius cul­tu­rae), ossia il rico­no­sci­men­to del­la cit­ta­di­nan­za ita­lia­na per i gio­va­ni nati in Ita­lia o arri­va­ti pri­ma del com­pi­men­to dei 12 anni che abbia­no fre­quen­ta­to alme­no cin­que anni di scuo­la nel nostro pae­se. Pur con i suoi limi­ti, è fon­da­men­ta­le difen­de­re que­sta pro­po­sta ed evi­ta­re l’ennesimo nau­fra­gio di una rifor­ma sostan­zia­le del­la leg­ge sul­la cittadinanza.

E per quan­to riguar­da la cit­ta­di­nan­za socia­le? Par­lia­mo qui in pri­mo luo­go dei dirit­ti socia­li di par­te­ci­pa­zio­ne, qua­li la liber­tà sin­da­ca­le e di scio­pe­ro, che è bene non dare per acqui­si­ti, alla luce del­le cre­scen­ti pres­sio­ni, sia sul fron­te legi­sla­ti­vo sia su quel­lo giu­di­zia­rio, per limi­tar­ne il peri­me­tro e l’efficacia. In secon­do luo­go, la cit­ta­di­nan­za socia­le impli­ca il dirit­to al lavo­ro, all’istruzione, alla salu­te, alla pre­vi­den­za socia­le e a tut­ti quei ser­vi­zi essen­zia­li che carat­te­riz­za­no il nostro quo­ti­dia­no (cfr. sche­da “Eco­no­mia fondamentale”).

Fra le mol­te dimen­sio­ni coin­vol­te, for­se la più pres­san­te è quel­la che riguar­da la pover­tà infan­ti­le. Nel 2020, un milio­ne e 336 mila mino­ri (13,5% di tut­ti i mino­ri resi­den­ti) si tro­va­va­no in con­di­zio­ni di pover­tà asso­lu­ta, ovve­ro nell’incapacità di acqui­si­re i beni e i ser­vi­zi neces­sa­ri per sod­di­sfa­re i biso­gni fon­da­men­ta­li (dati Istat). La situa­zio­ne è par­ti­co­lar­men­te gra­ve nel Mez­zo­gior­no (anche se con la cri­si pan­de­mi­ca si è regi­stra­to un net­to aumen­to dei pove­ri anche al Nord) e fra le fami­glie di ori­gi­ne immi­gra­ta, per le qua­li il rischio pover­tà è oltre quat­tro vol­te quel­lo del­le fami­glie di soli ita­lia­ni. Le con­di­zio­ni di depri­va­zio­ne mate­ria­le in cui così tan­ti bam­bi­ni sono costret­ti a cre­sce­re segna­no ine­vi­ta­bil­men­te il loro cor­so di vita e le oppor­tu­ni­tà di svi­lup­po futu­ro. Que­sti, pro­prio come le secon­de gene­ra­zio­ni dimen­ti­ca­te, sono i cit­ta­di­ni di doma­ni. È dove­ro­so (“È com­pi­to del­la Repub­bli­ca…”) ope­rar­si al fine di ridur­re rapi­da­men­te e dra­sti­ca­men­te la pover­tà infantile.

La lot­ta alla pover­tà è neces­sa­ria­men­te mul­ti­di­men­sio­na­le e chia­ma in cam­po mol­te poli­ti­che fra cui in par­ti­co­la­re quel­le per il lavo­ro, la casa, le fami­glie e il Mez­zo­gior­no (cfr. sche­de dedi­ca­te). Non basta quin­di il Red­di­to di Cit­ta­di­nan­za per decre­ta­re la “fine del­la pover­tà”, come trion­fa­li­sti­ca­men­te annun­cia­to dai suoi pro­po­nen­ti. Atten­zio­ne, non basta, ma è neces­sa­rio. L’Italia è sta­ta uno degli ulti­mi pae­si euro­pei a intro­dur­re una for­ma di soste­gno al red­di­to, pri­ma con la bre­ve paren­te­si del Red­di­to di Inclu­sio­ne (ReI) e poi, a par­ti­re dal 2019, con il Red­di­to di Cit­ta­di­nan­za (RdC): un sus­si­dio a inte­gra­zio­ne del red­di­to la cui coper­tu­ra (nume­ro di bene­fi­cia­ri) e gene­ro­si­tà (livel­lo del sus­si­dio) sono infe­rio­ri rispet­to agli stru­men­ti di soste­gno al red­di­to di altri pae­si euro­pei, ma comun­que supe­rio­ri rispet­to al poco o nul­la che c’era in pre­ce­den­za in Ita­lia (ReI com­pre­so). Il RdC è rivol­to a nuclei fami­lia­ri mol­to pove­ri, anche se, para­dos­sal­men­te, per come sono costrui­ti i cri­te­ri di acces­so, ten­de a pena­liz­za­re pro­prio i nuclei più in dif­fi­col­tà, ovve­ro le fami­glie nume­ro­se e quel­le immi­gra­te. Il RdC può e deve sicu­ra­men­te esse­re miglio­ra­to, sul­la scor­ta del­le die­ci pro­po­ste emer­se dal­la com­mis­sio­ne Sara­ce­no nel 2021, com­ple­ta­men­te igno­ra­te dal gover­no Dra­ghi per­ché non dife­se dal mini­stro Orlan­do, che pure quel­la com­mis­sio­ne ave­va nomi­na­to. Ma non va abo­li­to e non va taglia­to. Il malin­te­so sul­la sua effi­ca­cia deri­va dal fat­to che Il RdC è for­mal­men­te una poli­ti­ca atti­va del lavo­ro, ma i suoi bene­fi­cia­ri sono dif­fi­cil­men­te atti­va­bi­li: non per­ché ina­mo­vi­bi­li dal “diva­no”, come vuo­le la vul­ga­ta, ma per­ché poco desi­de­ra­bi­li dal mer­ca­to, in quan­to disoc­cu­pa­ti di lun­go perio­do, a bas­sa qua­li­fi­ca, o in mol­ti casi addi­rit­tu­ra ina­bi­li al lavo­ro. Pre­so per quel­lo che è, ovve­ro una misu­ra tam­po­ne rispet­to a situa­zio­ni di gra­ve disa­gio socio-eco­no­mi­co, il RdC è inve­ce un pri­mo (o pri­mis­si­mo) pas­so nel­la dire­zio­ne giusta.

Costo della vita

L’ondata infla­zio­ni­sti­ca che sta inve­sten­do il nostro pae­se evo­ca fan­ta­smi del pas­sa­to: un’inflazione all’8%, come quel­la regi­stra­ta a giu­gno, non si vede­va in Ita­lia dal 1996. D’altronde, è tut­to il mon­do occi­den­ta­le a esse­re attra­ver­sa­to da un inten­so aumen­to dei prez­zi e, que­sta vol­ta, le poli­ti­che mone­ta­rie del­le ban­che cen­tra­li sem­bra­no c’entrare rela­ti­va­men­te poco. Secon­do un recen­te rap­por­to del­la Fed di San Fran­ci­sco, infat­ti, a con­ta­re è soprat­tut­to l’assetto del­le cate­ne pro­dut­ti­ve glo­ba­li, che lo scop­pio del­la pan­de­mia ha bru­tal­men­te spez­za­to e che ora, in fase di ripre­sa, scon­ta­no le con­se­guen­ze dell’invasione rus­sa dell’Ucraina, in par­ti­co­la­re per quan­to riguar­da l’impennata del­le mate­rie pri­me ener­ge­ti­che. Una cri­si di approv­vi­gio­na­men­to del­le risor­se, insom­ma, che dure­rà nel tem­po, anche per­ché si lega inscin­di­bil­men­te alla cri­si cli­ma­ti­ca, con la sic­ci­tà che met­te in ginoc­chio la pro­du­zio­ne agri­co­la mon­dia­le e fa schiz­za­re alle stel­le i prez­zi dei beni ali­men­ta­ri. Il tut­to con­di­to da una buo­na dose di spe­cu­la­zio­ne da par­te di chi se la può per­met­te­re, ça va sans dire: è suf­fi­cien­te dare un’occhiata all’andamento dei deri­va­ti del com­par­to ener­ge­ti­co per ren­der­se­ne conto.

Se man­te­nia­mo un’ottica ampia e di lun­go perio­do, l’unica via pos­si­bi­le per usci­re da que­sta spi­ra­le è intra­pren­de­re un per­cor­so di deglo­ba­liz­za­zio­ne del­le filie­re indu­stria­li, che rimet­ta al cen­tro i con­te­sti loca­li pro­dut­ti­vi e i loro sape­ri diffusi.

Nel bre­ve e medio perio­do, però, è neces­sa­rio pro­teg­ge­re il pote­re d’acquisto dei cit­ta­di­ni. Con l’attuale tas­so di infla­zio­ne, una fami­glia ita­lia­na con due figli spen­de­rà in un anno qua­si 3.200 euro in più, a pari­tà di con­su­mi. Ma è dif­fi­ci­le cre­de­re che con l’aumento dei prez­zi il livel­lo dei con­su­mi rimar­rà inva­ria­to: mol­ti taglie­ran­no, dove pos­si­bi­le, e que­sto avrà con­se­guen­ze nega­ti­ve sul benes­se­re del­le fami­glie, soprat­tut­to dei nuclei a red­di­to bas­so o medio-bas­so, e sull’economia rea­le. Davan­ti a que­sto sce­na­rio, è evi­den­te che il bonus 200 euro – da cui i sog­get­ti con posi­zio­ni più fram­men­ta­te sono sta­ti comun­que esclu­si – è dav­ve­ro poca cosa. Sarà per que­sto che il decre­to Aiu­ti bis che il gover­no uscen­te sta deli­nean­do sem­bra abban­do­na­re la stra­da del con­tri­bu­to una tan­tum e, seguen­do le sol­le­ci­ta­zio­ni del­le for­ze sin­da­ca­li, pun­ta­re piut­to­sto su una decon­tri­bu­zio­ne tem­po­ra­nea del lavo­ro dipen­den­te e una riva­lu­ta­zio­ne anti­ci­pa­ta del­le pensioni.

Par­tia­mo da qui per met­te­re meglio a fuo­co il nes­so tra lavo­ro, sala­rio e costo del­la vita. Sal­va­guar­da­re il pote­re d’acquisto del­le fami­glie è fon­da­men­ta­le e auspi­ca­bi­le, ma far­lo solo attra­ver­so misu­re tem­po­ra­nee di pro­te­zio­ne di sala­ri e pen­sio­ni – o, più in gene­ra­le, agen­do solo sul­la leva del lavo­ro e del sala­rio – igno­ra un’area impor­tan­te di inter­ven­ti pos­si­bi­li. Si dà per scon­ta­to il rap­por­to di neces­si­tà tra sala­rio e soste­ni­bi­li­tà del­la pro­pria vita, secon­do cui per vive­re meglio, o anche solo per con­te­ne­re entro livel­li accet­ta­bi­li il peso del­le nostre spe­se, dob­bia­mo neces­sa­ria­men­te gua­da­gna­re di più, in modo da ave­re più sol­di da spen­de­re. In sin­te­si: una solu­zio­ne cen­tra­ta su capa­ci­tà e pos­si­bi­li­tà del sin­go­lo a un pro­ble­ma che inve­ce ha una dimen­sio­ne col­let­ti­va. E, oltre a que­sto, una solu­zio­ne che rischia di taglia­re fuo­ri tan­te e tan­ti: chi non lavo­ra o è costret­to a far­lo in modo irre­go­la­re; chi è pre­ca­rio, auto­no­mo o para­su­bor­di­na­to; chi è intrap­po­la­to in lavo­ri con un sala­rio tal­men­te bas­so da ren­de­re irri­le­van­te un pic­co­lo aumen­to percentuale.

Pos­sia­mo allo­ra imma­gi­na­re misu­re ulte­rio­ri, dura­tu­re, inclu­si­ve, che pre­ser­vi­no dav­ve­ro nel tem­po la soste­ni­bi­li­tà del­la vita di indi­vi­dui e fami­glie a pre­scin­de­re dal­le dina­mi­che inter­na­zio­na­li e, alme­no in par­te, del mer­ca­to del lavo­ro? Per far­lo, dob­bia­mo fare lo sfor­zo di scen­de­re di sca­la e pen­sa­re a inter­ven­ti com­ple­men­ta­ri a quel­li del gover­no cen­tra­le, che si defi­ni­sca­no a livel­lo loca­le a par­ti­re dal­le effet­ti­ve esi­gen­ze del­la popo­la­zio­ne. Ser­vo­no, in altre paro­le, inve­sti­men­ti dif­fu­si nel­le c.d. infra­strut­tu­re del­la vita quo­ti­dia­na, dota­zio­ni mate­ria­li e imma­te­ria­li a cui acce­dia­mo ogni gior­no e che defi­ni­sco­no in buo­na par­te il nostro benes­se­re come cit­ta­di­ni. Se que­ste sono pre­sen­ti e acces­si­bi­li a tut­te e tut­ti, allo­ra sì che sia­mo pro­tet­ti dal­le per­tur­ba­zio­ni inter­na­zio­na­li e, allo stes­so tem­po, abbia­mo mag­gio­ri chan­ce di coglie­re le oppor­tu­ni­tà che pos­so­no defi­nir­si nel mer­ca­to del lavo­ro. Un siste­ma effi­cien­te di tra­spor­to pub­bli­co, dif­fu­so sul ter­ri­to­rio, garan­ti­sce il dirit­to alla mobi­li­tà con­te­nen­do le spe­se pri­va­te desti­na­te all’auto e al car­bu­ran­te; ser­vi­zi edu­ca­ti­vi e di assi­sten­za all’infanzia di qua­li­tà, dispo­ni­bi­li vici­no a casa, con moda­li­tà di frui­zio­ne com­pa­ti­bi­li con i tem­pi di vita e lavo­ro, limi­ta­no la neces­si­tà di ricor­re­re al mercato.

Que­sti due esem­pi – tra­spor­to pub­bli­co e assi­sten­za all’infanzia – sono par­ti­co­lar­men­te signi­fi­ca­ti­vi per­ché alcu­ne ricer­che con­dot­te nel Regno Uni­to mostra­no che, per le fami­glie a bas­so red­di­to, il pas­sag­gio da un soste­gno eco­no­mi­co pub­bli­co (come il nostro red­di­to di cit­ta­di­nan­za) a un lavo­ro retri­bui­to spes­so si accom­pa­gna a una ridu­zio­ne del dena­ro che il nucleo ha a dispo­si­zio­ne dopo aver soste­nu­to tut­te le spe­se. Que­sto per­ché lavo­ra­re costa, e i costi prin­ci­pa­li rile­va­ti sono pro­prio quel­li di tra­spor­to per recar­si sul posto di lavo­ro e di cura dei figli – o di altri sog­get­ti non auto­suf­fi­cien­ti – men­tre si è impe­gna­ti fuo­ri casa. Se pro­get­tia­mo per­cor­si di rein­se­ri­men­to lavo­ra­ti­vo che non ten­go­no con­to di que­sti ele­men­ti, sen­za svi­lup­pa­re un’adeguata rete di ser­vi­zi alla popo­la­zio­ne, facil­men­te andre­mo incon­tro al fal­li­men­to: dare­mo lavo­ro, aumen­tan­do però il costo del­la vita.

Non è solo una que­stio­ne di sala­rio: la soste­ni­bi­li­tà del­la nostra vita è una que­stio­ne che va ben al di là di ciò che pos­sia­mo acqui­sta­re come individui.

Casa

L’Italia si carat­te­riz­za per un alto tas­so di pro­prie­ta­ri di casa e una bas­sa dispo­ni­bi­li­tà di allog­gi in affit­to, spe­cial­men­te di affit­to socia­le. Già a par­ti­re dagli anni Set­tan­ta il nume­ro degli allog­gi dispo­ni­bi­li ha infat­ti supe­ra­to il nume­ro del­le fami­glie. Alcu­ni nuclei han­no anche con­su­mi abi­ta­ti­vi che pos­so­no esse­re defi­ni­ti opu­len­ti, dispo­nen­do di una o più abi­ta­zio­ni. Il dato sul sur­plus di abi­ta­zio­ni rispet­to alle fami­glie nel­la quo­ta di allog­gi pone due pro­ble­mi. Il pri­mo è quel­lo degli allog­gi non dispo­ni­bi­li sul mer­ca­to in quan­to uti­liz­za­ti per il mer­ca­to degli affit­ti bre­vi. Que­sto tema è di par­ti­co­la­re rile­van­za nei con­te­sti urba­ni. Una par­te degli allog­gi che potreb­be­ro esse­re desti­na­ti al biso­gno abi­ta­ti­vo del­le fami­glie, in par­ti­co­la­re nel­le aree cen­tra­li del­le gran­di cit­tà d’arte, vie­ne desti­na­to all’accoglienza tem­po­ra­nea di turi­sti. Il secon­do riguar­da il patri­mo­nio abban­do­na­to sia in aree cit­ta­di­ne, gli allog­gi vuo­ti in cit­tà, sia in aree non urba­ne, loca­liz­za­to soprat­tut­to nei Comu­ni mon­ta­ni, in par­te non uti­liz­za­bi­le o poco appe­ti­bi­le per pro­ble­mi di agi­bi­li­tà o caren­za di manu­ten­zio­ne. Infat­ti, la mag­gio­ran­za del patri­mo­nio del­le case ha più di 40 anni e ha, quin­di, ampia­men­te supe­ra­to la soglia tem­po­ra­le oltre la qua­le soli­ta­men­te sono neces­sa­ri inter­ven­ti manu­ten­ti­vi impor­tan­ti (e costo­si) alle par­ti non strut­tu­ra­li dell’edificio (impian­ti tec­no­lo­gi­ci, sani­ta­ri, ecc.).

Alla mag­gio­re dif­fu­sio­ne del patri­mo­nio (e del­la pro­prie­tà), si è affian­ca­to un com­ples­si­vo miglio­ra­men­to del­le con­di­zio­ni abi­ta­ti­ve: si sono innal­za­ti gli stan­dard, la dota­zio­ne e la qua­li­tà degli impian­ti nel­le abi­ta­zio­ni. Per­man­go­no, tut­ta­via, situa­zio­ni di disa­gio, più fre­quen­te­men­te per le fami­glie in affit­to e che pro­ven­go­no dagli stra­ti più svan­tag­gia­ti del­la popolazione.

Le poli­ti­che per la casa si tro­va­no quin­di oggi ad affron­ta­re non più tan­to la caren­za quan­ti­ta­ti­va di allog­gi ma la neces­si­tà di garan­ti­re a tut­ti l’accesso a una abi­ta­zio­ne ade­gua­ta.  L’adeguatezza del­le abi­ta­zio­ni richia­ma due dimen­sio­ni fon­da­men­ta­li: la soste­ni­bi­li­tà eco­no­mi­ca dei costi per l’abitare e il sovraf­fol­la­men­to. Entram­be que­ste dimen­sio­ni sono rela­ti­ve alla fami­glia che risie­de nel­la casa e non all’alloggio in sé. Nel pri­mo caso gli affit­ti e le uten­ze sono trop­po one­ro­si per la dispo­ni­bi­li­tà eco­no­mi­ca dei nuclei, spes­so aggra­van­do situa­zio­ni di dif­fi­col­tà eco­no­mi­ca. Nel secon­do caso lo spa­zio abi­ta­ti­vo è insuf­fi­cien­te per la con­vi­ven­za di tut­ti i com­po­nen­ti del nucleo. Que­sto fa sì che non vi sia­no spa­zi ade­gua­ti per stu­dia­re, lavo­ra­re, ripo­sa­re e aumen­ti mol­to la pro­ba­bi­li­tà di inci­den­ti domestici.

Un dato sul­la gra­vi­tà del­la situa­zio­ne abi­ta­ti­va è rap­pre­sen­ta­to dal­le richie­ste di acces­so alle case di edi­li­zia pub­bli­ca, ormai sta­bil­men­te asse­sta­te in cen­ti­na­ia di miglia­ia di doman­de. Sono nuclei che avreb­be­ro i requi­si­ti per acce­de­re a un allog­gio ma non ci sono case disponibili.

Cosa fare, allo­ra? In pri­mo luo­go, non con­ti­nua­re a pro­muo­ve­re la pro­prie­tà come solu­zio­ne ai pro­ble­mi abi­ta­ti­vi. Anco­ra oggi, infat­ti, le poli­ti­che pub­bli­che pro­muo­vo­no l’acquisto degli allog­gi attra­ver­so l’assenza di tas­sa­zio­ne e vari incen­ti­vi come le age­vo­la­zio­ni pri­ma casa, in par­ti­co­la­re per i gio­va­ni. Que­ste misu­re non offro­no una rispo­sta ai nuclei più fra­gi­li, ma al con­tra­rio ripro­du­co­no le disu­gua­glian­ze, con la con­se­guen­za di irri­gi­di­re ulte­rior­men­te il mer­ca­to immo­bi­lia­re. Una revi­sio­ne del siste­ma di tas­sa­zio­ne del­le case è neces­sa­rio. Tas­sa­re mag­gior­men­te le pro­prie­tà immo­bi­lia­ri – in par­ti­co­la­re quel­le desti­na­te agli affit­ti bre­vi — ha un ele­va­to poten­zia­le redi­stri­bu­ti­vo, è meno reces­si­va rispet­to alla tas­sa­zio­ne sul lavo­ro o sui capi­ta­li e può limi­ta­re for­te­men­te le spe­cu­la­zio­ni e le dina­mi­che dei prez­zi. Cer­to, per poter esse­re adot­ta­te in manie­ra redi­stri­bu­ti­va, que­ste impo­ste neces­si­te­reb­be­ro di un aggior­na­men­to dei valo­ri cata­sta­li, costan­te e pre­ci­so, e non è un caso dun­que che, in man­can­za di una rea­le volon­tà poli­ti­ca, la cosid­det­ta ‘rifor­ma del Cata­sto’ sia ferma.

In secon­do luo­go, la casa va ripor­ta­ta al cen­tro del­la sua fun­zio­ne essen­zia­le, sod­di­sfa­re il biso­gno abi­ta­ti­vo. Le poli­ti­che per la casa non pos­so­no esse­re inse­ri­te nell’ambito del­le poli­ti­che di edi­li­zia. Le poli­ti­che abi­ta­ti­ve devo­no infat­ti esse­re una par­te inte­gran­te del­le poli­ti­che socia­li, come par­te cen­tra­le e inte­gran­te. In que­sto qua­dro una pro­mo­zio­ne e uno svi­lup­po del­le Agen­zie socia­li per la loca­zio­ne potreb­be for­ni­re una rispo­sta a ren­de­re dispo­ni­bi­li gli allog­gi vuo­ti a prez­zi acces­si­bi­li, con la garan­zia pub­bli­ca per le fami­glie a bas­so red­di­to. Si trat­ta in sostan­za di agen­zie immo­bi­lia­ri pub­bli­che dove pro­prie­ta­ri pri­va­ti met­to­no in affit­to a prez­zi deci­sa­men­te più bas­si di quel­li di mer­ca­to allog­gi a cit­ta­di­ni in con­di­zio­ne di dif­fi­col­tà. L’ente pub­bli­co si occu­pa non solo di far incon­tra­re la doman­da e l’offerta ma anche di garan­ti­re ai pro­prie­ta­ri un anti­ci­po sul cano­ne e una garan­zia di paga­men­to di diver­si mesi di affitto.

In que­sto modo le Agen­zie socia­li uti­liz­za­no il patri­mo­nio immo­bi­lia­re già esi­sten­te, incen­ti­van­do l’affitto e ridu­cen­do il rischio di allog­gi vuo­ti. In altre paro­le, le risor­se pub­bli­che modi­fi­ca­no una fet­ta di immo­bi­li per l’affitto a prez­zi di mer­ca­to, in allog­gi a prez­zo cal­mie­ra­to. I tem­pi per la dispo­ni­bi­li­tà degli allog­gi è imme­dia­ta, non si deve cioè aspet­ta­re il lun­go inter­val­lo che inter­cor­re tra la defi­ni­zio­ne del­la poli­ti­ca e la rea­liz­za­zio­ne di nuo­ve case (stan­zia­men­to risor­se, ban­do, asse­gna­zio­ne, rea­liz­za­zio­ne). Non si incre­men­ta il con­su­mo di suo­lo e si incen­ti­va indi­ret­ta­men­te la manu­ten­zio­ne degli allog­gi. La “garan­zia pub­bli­ca” del paga­men­to del cano­ne fa si che i pro­prie­ta­ri sia­no pro­pen­si a ren­de­re dispo­ni­bi­li i loro allog­gi a una fascia del­la popo­la­zio­ne diver­sa­men­te non mol­to con­si­de­ra­ta in quan­to più fra­gi­le, ridu­cen­do anche la pro­pen­sio­ne agli affit­ti sen­za con­trat­to. Tut­ta­via, que­sta misu­ra non è in gra­do di rispon­de­re ai biso­gni abi­ta­ti­vi del­le fami­glie più pove­re, che pos­so­no però esse­re sod­di­sfat­ti attra­ver­so l’accesso – a que­sto pun­to resi­dua­le – agli allog­gi di edi­li­zia pubblica.

Famiglie

L’Italia è uno dei Pae­si appar­te­nen­ti all’Unione euro­pea con più ampi squi­li­bri se guar­dia­mo alle fami­glie. Si trat­ta di squi­li­bri innan­zi­tut­to demo­gra­fi­ci, per i bas­sis­si­mi livel­li di fecon­di­tà (1,24 in media i figli per don­na, con­tro valo­ri medi euro­pei supe­rio­ri, per esem­pio, 1,8 di Fran­cia), di squi­li­bri sul ver­san­te del fun­zio­na­men­to del siste­ma fami­glia-lavo­ro, per la bas­sa occu­pa­zio­ne fem­mi­ni­le e alti livel­li di pover­tà.  Nel 2019 (pri­ma del­la pan­de­mia), per la popo­la­zio­ne in età lavo­ra­ti­va il tas­so di occu­pa­zio­ne fem­mi­ni­le in Ita­lia è pari al 50,1%, 13 pun­ti infe­rio­re al dato medio Ue-27, in fon­do alla gra­dua­to­ria (dopo la Gre­cia). La par­te­ci­pa­zio­ne è par­ti­co­lar­men­te debo­le per le don­ne a bas­sa istru­zio­ne, che vivo­no nel Sud Ita­lia o nel­le cosid­det­te ‘aree inter­ne’, oltre che per le fami­glie con ridot­te pos­si­bi­li­tà di atti­va­re la rete socia­le (come le fami­glie stra­nie­re), in un Pae­se, come l’Italia, in cui i ‘non­ni’ sono la prin­ci­pa­le risor­sa di wel­fa­re per le madri che lavo­ra­no. Gli svan­tag­gi per risor­se cul­tu­ra­li ed edu­ca­ti­ve si som­ma­no con gli svan­tag­gi di gene­re e ter­ri­to­ria­li che si ampli­fi­ca­no in cor­ri­spon­den­za di alcu­ne fasi del cor­so del­la vita, come segna­la­no i dati rela­ti­vi all’alto tas­so di abban­do­no del­le madri in cor­ri­spon­den­za del­la mater­ni­tà. Nel cor­so del 2020–21, per effet­to del­la pan­de­mia, la con­di­zio­ne occu­pa­zio­na­le e lavo­ra­ti­va del­le don­ne ita­lia­ne è ulte­rior­men­te peg­gio­ra­ta. Il nostro risul­ta un Pae­se dun­que in cui rima­ne ampio il diva­rio di gene­re non solo per la dif­fe­ren­te par­te­ci­pa­zio­ne al mer­ca­to del lavo­ro di uomi­ni e don­ne, ma anche a cau­sa di una scar­sa par­te­ci­pa­zio­ne maschi­le al lavo­ro fami­lia­re. Infat­ti, media­men­te il nume­ro di ore dedi­ca­te dal­le don­ne al lavo­ro fami­lia­re è qua­si 3 vol­te supe­rio­re a quel­lo degli uomi­ni (5 ore e 30 min. per le don­ne dedi­ca­te al lavo­ro fami­lia­re con­tro 2,27 degli uomi­ni). Più in gene­ra­le, ele­va­ti appa­io­no i diva­ri di gene­re nel nostro Pae­se, anche in altri ambi­ti di vita (come la poli­ti­ca o il tem­po libe­ro), come segna­la il gen­der equa­li­ty  index pari al 63,8% in Ita­lia ver­sus una media euro­pea del 68%.

Anche in con­se­guen­za del bas­so tas­so di occu­pa­zio­ne del­le madri, del­la lun­ga assen­za di asse­gni uni­ver­sa­li­sti­ci per i figli (fino alla recen­tis­si­ma entra­ta in vigo­re dell’Assegno Uni­co Uni­ver­sa­le) e del­la con­cen­tra­zio­ne di pover­tà nel Sud, l’Italia è tra i Pae­si dell’Unione euro­pea con uno dei tas­si di pover­tà tra mino­ri più ele­va­ta. Secon­do l’Istat sono 1.260.000 mino­ri in pover­tà asso­lu­ta e uno su 4 si tro­va in pover­tà relativa.

Cer­ta­men­te tali squi­li­bri sono da ricon­dur­re alle carat­te­ri­sti­che del­lo svi­lup­po eco­no­mi­co e ai model­li cul­tu­ra­li fami­lia­ri di gene­re pre­va­len­ti, ma anche alle carat­te­ri­sti­che del wel­fa­re sta­te ita­lia­no e in par­ti­co­la­re al model­lo di poli­ti­che fami­lia­ri e  di ser­vi­zi per l’infanzia. L’Italia è entra­ta nell’emergenza sani­ta­ria come uno dei Pae­si appar­te­nen­ti all’Unione euro­pea con un qua­dro di tra­sfe­ri­men­ti mone­ta­ri per le fami­glie con figli e di soste­gno del­la nata­li­tà assai limi­ta­to, fram­men­ta­to e poco gene­ro­so, di poli­ti­che e ser­vi­zi per la con­ci­lia­zio­ne fami­glia-lavo­ro e di inve­sti­men­to per l’infanzia mol­to debo­le e ina­de­gua­to. Il lavo­ro gra­tui­to del­le don­ne, la soli­da­rie­tà e gli scam­bi inter­ge­ne­ra­zio­na­li (eco­no­mi­ci e di cura) sono sta­te le prin­ci­pa­li stra­te­gie di wel­fa­re e di cura, per con­ci­lia­re fami­glia e lavo­ro in Ita­lia.  Nono­stan­te l’investimento nel­la pri­mis­si­ma infan­zia sia, secon­do l’ONU e tut­ta la comu­ni­tà scien­ti­fi­ca inter­na­zio­na­le, quel­lo più capa­ce di pre­ve­ni­re le disu­gua­glian­ze nel cor­so del­la vita, in Ita­lia, i ser­vi­zi edu­ca­ti­vi per la pri­ma infan­zia (0–3 anni) e ancor più gli inter­ven­ti di sup­por­to per le fami­glie con bam­bi­ni sono acces­si­bi­li solo da una ristret­ta mino­ran­za e con anco­ra mag­gio­ri dif­fe­ren­ze ter­ri­to­ria­li: 3 bim­bi su 4 non han­no acces­so al nido, con un dram­ma­ti­co diva­rio tra Cen­tro-Nord e Sud, e una mini­ma par­te del­le fami­glie, qua­si tut­te resi­den­ti in Regio­ni del Cen­tro-Nord e in aree urba­ne, ha acces­so a ser­vi­zi e per­cor­si di accom­pa­gna­men­to in una fase cru­cia­le dell’esperienza geni­to­ria­le, qua­le quel­la che com­pren­de il perio­do pre­na­ta­le e i pri­mi due-tre anni di vita. Nono­stan­te il PNRR abbia stan­zia­to 2,4 miliar­di desti­na­ti agli asi­li nido, le richie­ste di finan­zia­men­to da par­te del­le ammi­ni­stra­zio­ni loca­li sono risul­ta­te mol­to limi­ta­te e han­no coper­to solo la metà dei fon­di pre­vi­sti. Si trat­ta di una situa­zio­ne in cui alle disu­gua­glian­ze pro­dot­te dall’origine fami­lia­re si som­ma­no quel­le dovu­te all’assenza di ser­vi­zi e di una vera e pro­pria poli­ti­ca di inve­sti­men­to socia­le: una poli­ti­ca che foca­liz­zi l’attenzione sul­la pro­mo­zio­ne del benes­se­re e sul­la tute­la e lo svi­lup­po dell’infanzia,  dell’adolescenza e più in gene­ra­le del­le ‘nuo­ve generazioni’.

Pro­po­sta ver­san­te poli­ti­che socia­li e servizi:

Poten­zia­re i nidi d’infanzia, rag­giun­ge­re l’obiettivo del 33% in modo omo­ge­neo, in tut­te le Regio­ni e in tut­to il ter­ri­to­rio nazio­na­le, per­ché i nidi sono una risor­sa edu­ca­ti­va per i più pic­co­li, uno stru­men­to essen­zia­le per con­tra­sta­re le disu­gua­glian­ze di ori­gi­ne fami­lia­re e la pover­tà edu­ca­ti­va, oltre che una misu­ra fon­da­men­ta­le di soste­gno dell’occupazione fem­mi­ni­le e di sup­por­to per la con­ci­lia­zio­ne fami­glia-lavo­ro. Ren­de­re su tut­to il ter­ri­to­rio nazio­na­le i nidi, più dif­fu­si e acces­si­bi­li, è dun­que una del­le sfi­de deci­si­ve nel­la lot­ta alla pover­tà eco­no­mi­ca ed edu­ca­ti­va. Poten­zia­re inol­tre la rete (qua­si ine­si­sten­te) di ser­vi­zi a soste­gno del­la geni­to­ria­li­tà. Infi­ne, agi­re sul ver­san­te del­la redi­stri­bu­zio­ne del lavo­ro fami­lia­re tra uomi­ni e don­ne pre­ve­den­do incen­ti­vi o ‘azio­ni posi­ti­ve ‘ per la par­te­ci­pa­zio­ne dei padri alla cura (poten­zia­re ulte­rior­men­te e soprat­tut­to da un pun­to di vista eco­no­mi­co quan­to pre­vi­sto dal Fami­ly Act in ter­mi­ni di con­ge­di per i padri).

 È anche sul ver­san­te dei dirit­ti del­le ‘diver­se’ for­me fami­lia­ri  e dei rico­no­sci­men­ti del­le diver­se iden­ti­tà  ses­sua­li e di gene­re che il nostro Pae­se scon­ta un’arretratezza qua­si uni­ca in Euro­pa. Nono­stan­te,  la Con­ven­zio­ne euro­pea (rivi­sta) sull’adozione dei bam­bi­ni del 2008 abbia aper­ta­men­te dichia­ra­to che le per­so­ne del­lo stes­so ses­so van­no con­si­de­ra­te a tut­ti gli effet­ti come poten­zia­li geni­to­ri adot­ti­vi al pari di quel­le ete­ro­ses­sua­li e, nono­stan­te, la Cor­te euro­pea dei dirit­ti uma­ni abbia dichia­ra­to che gli sta­ti che con­sen­to­no ai sin­gle di adot­ta­re devo­no, in base al prin­ci­pio di non discri­mi­na­zio­ne, assi­cu­ra­re anche alle per­so­ne con un diver­so orien­ta­men­to ses­sua­le di esse­re rico­no­sciu­te come geni­to­ri, nel nostro Pae­se, le cop­pie del­lo stes­so ses­so non pos­so­no acce­de­re né alla Pro­crea­zio­ne Medi­cal­men­te Assi­sti­ta (PMA) né all’adozione né, con la leg­ge 76/2016 (leg­ge Cirin­nà), alla ste­p­child adop­tion, crean­do così odio­se discri­mi­na­zio­ni tra figli a secon­da dell’orientamento ses­sua­le dei pro­pri geni­to­ri, tra figli che han­no dirit­to a 2 geni­to­ri e figli a cui la leg­ge rico­no­sce il dirit­to ad un solo geni­to­re. È in que­sto con­te­sto che si inse­ri­sce ed è cre­sciu­to in Ita­lia, il feno­me­no del turi­smo pro­crea­ti­vo,  quel­lo rea­liz­za­to allo sco­po di rea­liz­za­re quel pro­get­to pro­crea­ti­vo reso impos­si­bi­le  nel nostro Pae­se dal­la leg­ge 40 (la leg­ge sul­la Pro­crea­zio­ne Medi­cal­men­te Assi­sti­ta). Sul ver­san­te dei dirit­ti e del­le non discri­mi­na­zio­ni resta inol­tre anco­ra da lavo­ra­re per intro­dur­re una leg­ge con­tro l’omo-bi-transfobia, la miso­gi­nia e l’abilismo, dopo la non appro­va­zio­ne del DDL Zan.

Pro­po­sta sul ver­san­te dei diritti:

Intro­dur­re una leg­ge che rico­no­sca ai figli del­le cop­pie del­lo stes­so ses­so il dirit­to alla bi-geni­to­ria­li­tà, a par­ti­re da una modi­fi­ca del­la leg­ge sul­la Pro­crea­zio­ne Medi­cal­men­te Assi­sti­ta (PMA) che con­sen­ta anche ai sin­gle e alle cop­pie del­lo stes­so ses­so di acce­der­vi; met­te­re nell’agenda una nuo­va pro­po­sta di leg­ge con­tro l’omo-bi-transfobia.

Le politiche sociali

 Per affron­ta­re la emer­gen­za eco­no­mi­ca e socia­le pre­vi­sta nel pros­si­mo autun­no saran­no neces­sa­rie ingen­ti risor­se pub­bli­che e pri­va­te, ma il loro uti­liz­zo andrà accom­pa­gna­to anche da un cam­bia­men­to di approc­cio poli­ti­co e cul­tu­ra­le in gra­do di scon­giu­ra­re orien­ta­men­ti mera­men­te con­te­ni­ti­vi e col­pe­vo­liz­zan­ti, di sca­ri­ca­re sul­le fami­glie, e quin­di sul­le don­ne,  l’ac­cu­di­men­to del­le fra­gi­li­tà e di met­te­re a pro­fit­to la sof­fe­ren­za del­le per­so­ne più fra­gi­li. Mai come oggi è neces­sa­rio non solo argi­na­re e con­tra­sta­re tali pro­ces­si ma anche atti­va­re una vera e pro­fon­da inver­sio­ne di ten­den­za mira­ta a:

a)     ripri­sti­na­re un siste­ma wel­fa­re pub­bli­co e uni­ver­sa­le che garan­ti­sca in modo uni­for­me sul ter­ri­to­rio nazio­na­le il benes­se­re e il pie­no svi­lup­po di cia­scu­no, attra­ver­so una rete ter­ri­to­ria­le di poli­ti­che e ser­vi­zi inte­gra­ti che ren­da esi­gi­bi­li i dirit­ti socia­li fondamentali;

b)     dar vita ad una nuo­va nar­ra­ti­va col­let­ti­va con la qua­le iden­ti­fi­car­si, vol­ta a riba­di­re che i tra­sfe­ri­men­ti di red­di­to e ser­vi­zi ver­so i più pove­ri non sono spe­sa impro­dut­ti­va ma con­sen­to­no di ope­ra­re rispar­mi futu­ri, in un’ottica di inve­sti­men­to sociale.

Come si è visto in occa­sio­ne del­la intro­du­zio­ne del Red­di­to di Cit­ta­di­nan­za i discor­si isti­tu­zio­na­li costrui­ti attra­ver­so e attor­no gli inter­ven­ti sono ele­men­ti cru­cia­li, che con­tri­bui­sco­no a dare for­ma alle rap­pre­sen­ta­zio­ni socia­li degli ogget­ti del­le poli­ti­che socia­li, a defi­ni­re i con­fi­ni degli argo­men­ti ammes­si e a influen­zar­ne il tono. È dun­que quan­to mai impor­tan­te una nuo­va costru­zio­ne ege­mo­ni­ca del discor­so pub­bli­co e una riva­lu­ta­zio­ne del ruo­lo del gover­no e del­la poli­ti­ca (tenen­do pre­sen­te che pub­bli­co non signi­fi­ca solo sta­ta­le). Ciò signi­fi­ca lavo­ra­re per una socie­tà mobi­li­ta­ta, vin­ce­re l’astensionismo di chi (cate­go­rie socia­li o ter­ri­to­ri) non si sen­te più rap­pre­sen­ta­to, crea­re nuo­vi pro­ces­si aggre­ga­ti­vi per ridur­re la disu­gua­glian­za e pro­muo­ve­re la coe­sio­ne sociale.

Negli scor­si decen­ni la distan­za tra i più ric­chi e i più pove­ri in Ita­lia (così come in altri pae­si) si è appro­fon­di­ta al pun­to da non poter esse­re misu­ra­ta, e que­sta “incom­men­su­ra­bi­li­tà” ha inter­rot­to ogni for­ma di pat­to socia­le: i due grup­pi han­no smes­so sem­pli­ce­men­te di con­fron­tar­si e il con­flit­to socia­le ha fini­to per spo­star­si dal­la dimen­sio­ne ver­ti­ca­le a quel­la oriz­zon­ta­le del­la “guer­ra tra i pove­ri”, o quan­to­me­no tra pove­ri e qua­si-pove­ri. La pan­de­mia ha reso più sco­per­ta que­sta distan­za e mes­so a nudo l’esistenza di pover­tà e vul­ne­ra­bi­li intol­le­ra­bi­li in una socie­tà democratica.

Data l’ampiezza dei biso­gni insod­di­sfat­ti nono­stan­te le risor­se aggiun­ti­ve del PNRR qual­sia­si prov­ve­di­men­to sarà sem­pre una coper­ta trop­po cor­ta, che lasce­rà ine­vi­ta­bil­men­te qual­cu­no o qual­che ter­ri­to­rio sen­za pro­te­zio­ne. Soprat­tut­to in alcu­ni con­te­sti occor­re­rà evi­ta­re di dar vita a guer­re tra pove­ri, innan­zi­tut­to per ragio­ni di equi­tà e di giu­sti­zia socia­le, e in secon­do luo­go per il rischio, anzi più di un rischio, del radi­ca­men­to ulte­rio­re del­la cri­mi­na­li­tà orga­niz­za­ta e di for­ma­zio­ni di estre­ma destra pron­te a sof­fia­re sul fuo­co. A que­sto riguar­do è bene ave­re in men­te che i quar­tie­ri cen­tra­li di mol­te cit­tà non cor­ri­spon­do­no sem­pre alla rap­pre­sen­ta­zio­ne cor­ren­te del­la ZTL dei ric­chi e che nel­le peri­fe­rie pro­ble­ma­ti­che tra il “male che avan­za” e il “bene che resi­ste” vi è un’ampia area gri­gia di sog­get­ti con i qua­li è neces­sa­rio par­la­re, per capir­ne aspi­ra­zio­ni, biso­gni e oppor­tu­ni­tà di riscat­to sociale.

La logi­ca incre­men­ta­le di esten­de­re i prov­ve­di­men­ti alle cate­go­rie di vol­ta in vol­ta esclu­se e con mag­gio­re pote­re di advo­ca­cy segui­ta anche duran­te la pan­de­mia ripro­du­ce i limi­ti del­la fram­men­ta­zio­ne pro­pria del siste­ma ita­lia­no di wel­fa­re e va supe­ra­ta attra­ver­so la costi­tu­zio­ne di com­mis­sio­ni inte­ras­ses­so­ri­li e inter­mi­ni­ste­ria­li che coor­di­no i diver­si inter­ven­ti. Occor­re crea­re zone edu­ca­ti­ve spe­cia­li (ZES) in ambi­ti ter­ri­to­ria­li social­men­te svan­tag­gia­ti nel­le qua­li le scuo­le, in copro­get­ta­zio­ne con altri enti, agi­sco­no come rige­ne­ra­to­ri di lega­mi socia­li  in un’ottica di wel­fa­re di comu­ni­tà. Va poi rilan­cia­ta la pro­po­sta del Glo­bal Women Stri­ke e del­la Piat­ta­for­ma Green New Deal for Euro­pe di un rico­no­sci­men­to mone­ta­rio del lavo­ro svol­to per sop­pe­ri­re a caren­ze isti­tu­zio­na­li nel­la cura del­le per­so­ne e dell’ambiente (Care Inco­me o Asse­gno di Cura). Per evi­ta­re i rischi di dere­spon­sa­bi­liz­za­zio­ne sta­ta­le e di pura mone­tiz­za­zio­ne del­la cura è impor­tan­te che que­sta pro­po­sta si inqua­dri in un pro­get­to più ampio di svi­lup­po di un model­lo col­la­bo­ra­ti­vo e par­te­ci­pa­to con i cit­ta­di­ni, gli enti loca­li, le impre­se e le orga­niz­za­zio­ni del Ter­zo set­to­re in gra­do di recu­pe­ra­re il sen­so comu­ni­ta­rio del­la pro­te­zio­ne socia­le e pro­muo­ve­re lo svi­lup­po sostenibile.

Qui di segui­to si pro­pon­go­no alcu­ni inter­ven­ti più specifici

Aree tema­ti­chePro­po­ste di intervento
Atti­vi­tà di pro­gram­ma­zio­ne e coor­di­na­men­to territorialeNuo­vo coor­di­na­men­to fra pub­bli­co e pri­va­to socia­le già in fase di pro­gram­ma­zio­ne degli inter­ven­ti, non solo nell’ambito del­la coo­pe­ra­zio­ne: in tal modo si pas­sa dall’elemosina alla media­zio­ne, con una scrit­tu­ra col­let­ti­va del ser­vi­zio pubblico
Sti­pu­la di pat­ti ter­ri­to­ria­li socia­li rela­ti­vi a ter­ri­to­ri ristret­ti (un rio­ne, un iso­la­to) e pro­get­ti di Ado­zio­ne socia­le familiare
Favo­ri­re pro­gram­ma­zio­ne stra­te­gi­ca e non microprogetti
Inter­ven­ti a soste­gno di impre­se e asso­cia­zio­ni del Ter­zo SettoreCon­ces­sio­ne di spa­zi pub­bli­ci per ini­zia­ti­ve del Ter­zo set­to­re sul model­lo dei commons
Con­tri­bu­ti a fon­do per­du­to a vale­re sui fon­di strut­tu­ra­li euro­pei (Fon­di Aiu­ti agli Indi­gen­ti; Fon­di per il micro­cre­di­to) alle orga­niz­za­zio­ni con con­so­li­da­ta e com­pro­va­ta espe­rien­za e radi­ca­men­to sul territorio.
Misu­re a favo­re di indi­vi­dui e fami­glie svan­tag­gia­te e sen­za dimo­ra effet­ti­vi e potenzialiCon­tri­bu­to paga­men­to uten­ze dome­sti­che soprat­tut­to per fami­glie con figli che richie­do­no assi­sten­za medi­ca median­te appa­rec­chia­tu­re elettriche
Bloc­co degli affit­ti per le fami­glie in con­di­zio­ne di disa­gio abitativo
Mes­sa in rete del­le atti­vi­tà di for­ni­tu­ra di beni ali­men­ta­ri con inclu­sio­ne anche di pri­va­ti dispo­sti a dare con­ti­nui­tà a ini­zia­ti­ve di for­ni­tu­ra di pasti
Atti­vi­tà di con­tra­sto del­le dise­gua­glian­ze educativePro­get­ti con­tro la pover­tà edu­ca­ti­va che pren­da­no in cari­co l’intero nucleo familiare
Ridu­zio­ne diva­ri ter­ri­to­ria­li nell’offerta di scuo­le a tem­po pie­no e con men­sa scolastica
For­ni­tu­ra agli stu­den­ti uni­ver­si­ta­ri a bas­so red­di­to di pen dri­ve con giga gra­tui­ti per la didat­ti­ca a distan­za e con­tri­bu­ti per l’affitto per con­sen­ti­re la fre­quen­za in presenza
Misu­re a soste­gno dell’inserimento socia­le e lavorativoPia­no straor­di­na­rio per l’occupazione gio­va­ni­le rivol­ta soprat­tut­to a sog­get­ti con scar­se cre­den­zia­li educative
For­ma­zio­ne pro­fes­sio­na­le inno­va­ti­va rivol­ta a drop-out scolastici
Pro­gram­mi di accom­pa­gna­men­to nel­la ricer­ca del lavo­ro (del tipo restart) per gio­va­ni madri e soste­gno nel­la crea­zio­ne di atti­vi­tà di microimpresa
Raf­for­za­men­to di misu­re alter­na­ti­ve alla detenzione
Inter­ven­ti a favo­re dei sog­get­ti vulnerabiliAna­gra­fe del­le situa­zio­ni più pro­ble­ma­ti­che (fami­glie in cam­pi rom, fami­glie con bam­bi­ni con gra­vi pato­lo­gie che richie­do­no con­trol­li medi­ci fre­quen­ti o ausi­li medi­ci ad alto con­su­mo di ener­gia elet­tri­ca, gran­di anzia­ni che vivo­no soli, don­ne vit­ti­me del­la vio­len­za, gio­va­ni vedove)
Raf­for­za­men­to di pre­si­di ter­ri­to­ria­li di pre­ven­zio­ne e cura per anzia­ni e disa­gio psichico
Siste­mi di sup­por­to psi­co­lo­gi­co on line e in pre­sen­za e raf­for­za­men­to del­le misu­re per don­ne vit­ti­me di violenza