
La scrittura del programma ha richiesto un lavoro collettivo con il contributo di chi conosce i diversi temi coperti nelle nostre 120 proposte per l’Italia di cui abbiamo bisogno. In questa pagina trovate alcuni dei materiali di lavoro che abbiamo usato nello sviluppo del programma di Unione Popolare con il contributo di ricercatori e ricercatrici e attiviste/i e esperti/e attivi nella società civile e in campagne sociali e ambientali.
Indice
Premessa
TEMI DI SFONDO
Società di mercato
Cooperazione, competizione, concorrenza
Diseguaglianze e mobilità sociale
Economia fondamentale
Meritocrazia
Ambiente
Uno Stato dalla parte del cittadino
ECONOMIA E LAVORO
Occupazione pubblica
Lavoro povero e flessibilità
Il salario minimo come strategia
Le nuove forme di lavoro autonomo
Economia per la cultura e la creatività
Settori strategici e lavori essenziali
TERRITORIO E GOVERNO LOCALE
Mezzogiorno e divari regionali
Aree interne
Accoglienza diffusa e inclusione dei nuovi abitanti stranieri nelle aree interne
Agricoltura
Politica agricola, economia contadina e svolta ecologica
Turismi e turismo per il futuro
Regioni ed enti locali
AZIONE PUBBLICA
Lotta alle mafie
Per una politica del credito pubblico
La giustizia fiscale
Servizi pubblici locali a rilevanza economica e a rete
Per una società digitale giusta
Sanità: il quadro generale
Sanità: falsi problemi e nuove soluzioni
Scuola
Università e ricerca
Il patrimonio culturale
Giustizia penale, sicurezza, comunità
CITTADINANZA E POLITICHE SOCIALI
Diritti di cittadinanza
Costo della vita
Casa
Famiglie
Politiche sociali
PREMESSA
Queste schede sono state scritte da ricercatrici, ricercatori, professionisti/e e attiviste/i che hanno messo a disposizione il loro tempo e competenze, su base volontaria, con l’obiettivo di contribuire alla redazione di “materiali di lavoro” utili alla costruzione di un’agenda radicale e innovativa. Lo scopo è quello di condividere parole chiave, prospettive e sensibilità su alcuni temi di interesse collettivo e pubblico. Le schede qui raccolte sono, anzitutto, materiale di studio e di analisi: elementi essenziali per la formazione politica ad ampio raggio e troppo a lungo trascurati. La lista dei temi trattati non è esaustiva, ma copre un ragionevole numero di ambiti e può essere via via ampliata. Insieme ad altro materiale, queste schede hanno fornito alcuni degli elementi confluiti poi nel programma, la cui responsabilità ultima è ovviamente politica e non coinvolge le persone che hanno contribuito alla stesura delle schede e men che meno le loro istituzioni e organizzazioni di appartenenza.
I contributi sono stati scritti con un taglio non specialistico e sono articolati lungo alcune tesi di fondo, coerenti con i principi che animano il progetto dell’Unione Popolare. Il quadro tracciato armonizza alcuni fatti/numeri di base con argomentazioni analitiche e priorità politiche, massimizzando la capacità performativa del messaggio. Sono, in altre parole, pezzi del “discorso pubblico” e del “nuovo senso comune” che Unione Popolare vuole costruire su questi temi.
Dal punto di vista sostanziale, i punti focali sono stati scelti in rapporto alla loro capacità di “parlare” alla vita quotidiana delle persone, ai loro vissuti, paure e speranze. I materiali sono organizzati in quattro sezioni: (i) temi di sfondo, (ii) territorio e governo locale, (iii) economia e lavoro, (iv) azione pubblica.
Si ringraziano per la consulenza fornita alla stesura delle schede: Pier Giorgio Ardeni (Università di Bologna), Roberto Aringhieri (Università di Torino), Filippo Barbera (Università di Torino), Lavinia Bifulco (Università di Milano), Piero Bevilacqua (Università di Roma La Sapienza), Sergio Bologna (Associazione Acta), Camilla Borgna (Università di Torino), Domenico Cersosimo (Università della Calabria), Marco Ciurcina (Centro Nexa, Politecnico di Torino), Marianna Filandri (Università di Torino), Fabrizio Garbarino (Movimento contadino italiano), Paolo Gerbaudo (Scuola Normale Superiore e King’s College), Nicola Lacetera (Università di Toronto), Andrea Mariuzzo (Università di Modena Reggio Emilia), Andrea Membretti (Università di Pavia), Guido Ortona (Università del Piemonte orientale), Nicola Melloni (Università di Toronto), Tomaso Montanari (Università per stranieri di Siena), Enrica Morlicchio (Università di Napoli), Manuela Naldini (Università di Torino), Massimiliano Nuccio (Università Cà Foscari di Venezia), Paolo Ortelli (Collettivo “Paese Reale”), Francesco Pallante (Università di Torino), Tonino Perna (Università di Messina), Paolo Pileri (Politecnico di Milano), Angelo Salento (Università del Salento), Francesco Sylos Labini (CNR e Associazione ROARS), Stefano Ungaro (Banca di Francia), Marica Virgillito (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa).
TEMI DI SFONDO
Società di mercato
Il lungo trentennio iniziato con la fine della Prima Repubblica e l’affermarsi dell’egemonia neoliberale in Italia e in tutto il mondo occidentale è stato caratterizzato prima di tutto dall’inversione del rapporto tra mercato/economia e società. Nel capitalismo democratico il mercato era uno strumento, da regolare e calibrare, i cui limiti erano posti dai bisogni sociali – in fondo lo dice anche la nostra Costituzione all’Articolo 42:
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
Memore dei disastri e delle crisi create dal capitalismo tra le due Guerre, il senso comune, allora trasposto anche nella rappresentanza politica, non solo a sinistra, chiedeva non solo una divisione più equa dei frutti del lavoro, ma una briglia a quegli spiriti animali che avevano distrutto comunità, impoverito i lavoratori, alimentato spinte reazionarie e razziste. Quella memoria, quel senso comune, si sono però persi col tempo: con la fine della Guerra Fredda aveva vinto il capitalismo, era finita la Storia; ed era dunque la società, nuovamente, a dover adattarsi alle logiche di mercato, che da mezzo diveniva fine: l’efficienza, non l’equità; il profitto, non il welfare; il successo personale, non un Paese che cresce; la comunità politica basata sui consumatori, non sui cittadini – questa è la società di mercato.
La società di mercato che abbiamo conosciuto in questi anni, e che ha cambiato anche il nostro modo di pensare e di porci nei confronti degli altri, è una esperienza totalizzante, che coinvolge qualsiasi aspetto della nostra vita. Innanzitutto, naturalmente, il lavoro, trattato come una merce qualsiasi – il mercato non deve avere ostacoli, e quindi vanno eliminate tutte le barriere al precariato, cui si è dato il nome più gentile di flessibilità: dalle riforme Treu fino all’abolizione dell’Art.18 in una gara al ribasso cui tutti i governi, di qualsiasi colore hanno contribuito. E’ quella stessa logica che oggi porta all’attacco, quotidiano, contro il reddito di cittadinanza, reo di prevenire le assunzioni con salari da fame.
D’altronde nella società di mercato la povertà non è un problema ma una colpa individuale, e non un fenomeno sociale. Ancora una volta la campagna mediatica sul reddito di cittadinanza, che ricalca quella sulle welfare queen in America e poi dei Conservatori britannici sulla Broken Britain, è istruttiva: i giovano sono “choosy”, “bamboccioni”, i poveri preferiscono il “divano” al duro e sano lavoro.
Le imprese, invece, sono una entità quasi sacrale. Il loro unico scopo, come diceva Friedman, è fare profitti, la loro unica responsabilità è verso gli shareholder: i lavoratori sono visti come costi che vanno abbattuti – come non ricordare le impennate in borsa dopo ogni licenziamento di massa nelle imprese americane?
Finanche la cura dell’ambiente è stata demandata al mercato: gli accordi di Kyoto introducevano meccanismi di mercato per arrestare il cambiamento climatico, con i risultati che sono ora sotto gli occhi di tutti. E che dire della sanità pubblica? Si sono ridotti il numero degli ospedali (da 1200 a 1000 in soli 10 anni), i posti letto (da 225 mila a 191 mila) perché l’allocazione delle risorse non era efficiente, salvo poi pagare molto caro queste scelte durante il Covid. Tutte le azioni umane diventano azioni economiche e devono dunque sottostare alla logica del profitto e della supposta efficienza.
La società di mercato è un termine popolarizzato dal grande intellettuale austro-ungarico Karl Polanyi. Durante la rivoluzione industriale e il primo grande ciclo di globalizzazione, nazioni, popoli, civiltà furono travolte dall’avvento del capitalismo. Se, come diceva Marx, tutto quello che è solido svanisce nell’aria, allora il capitalismo fu davvero capace di radere al suolo sistemi di pensiero ed organizzazioni sociali. Il progresso, però, aveva un lato oscuro – l’immiserimento, la disperazione, l’esclusione. Polanyi capì che in un sistema economico che commercializzava tutto il possibile immaginabile ci sarebbero state reazioni e “contromovimenti” per riequilibrare gli tsunami creati dal mercato. In particolare Polanyi notò che con il capitalismo si erano creati mercati per beni cosiddetti fittizi: denaro; terra; lavoro. Gli squilibri nei mercati, ed in particolare proprio in quei mercati, creavano crisi frequenti che venivano inevitabilmente scaricati sul lavoro: la disoccupazione e l’impoverimento, con il conseguente abbassamento dei salari, erano lo strumento preferito per riaggiustare queste crisi. Se alcune di queste cose suonano familiari, è perché lo sono: un secolo dopo siamo ricaduti nella stessa trappola da cui ci aveva messo in guardia Polanyi e che aveva trovato un antidoto, in Occidente, nella socialdemocrazia e negli accordi di Bretton-Woods, quel sistema internazionale che John Ruggie ha definito “embedded liberalism” – il liberalismo rinchiuso dai bisogni sociali.
I mercati liberalizzati fino all’estremo continuano ad essere fonte di dramma, povertà, emarginazione. Pensiamo agli Stati Uniti, dove la sanità privata letteralmente uccide le persone, negando l’accesso a medicinali di base, come l’insulina. Pensiamo alla privatizzazione dell’acqua in Bolivia, che negava ai contadini anche l’usufrutto dell’acqua piovana.
Proprio l’acqua ha rappresentato un punto di forte resistenza al dominio del mercato: nel 2011 il referendum per impedirne la privatizzazione fu un successo – non tutto è commerciabile, ci sono beni collettivi, ci sono diritti. Questo dovrebbe essere il punto di ripartenza per una vera alternativa economica, sociale e politica.
Non solo, dunque, un cambiamento di politica economica, che pure serve: l’austerity, in fondo, non fu altro che un ritorno al Gold Standard e allo scaricare sul lavoro i costi di una crisi generata da altri. Ma soprattutto una maniera diversa di concepire il rapporto società-mercato. Come ai tempi di Polanyi ci sono aree critiche di invadenza del mercato che devono essere regolate, e come ai tempi di Polanyi il lavoro e “terra”/casa sono punti di conflitto centrali. Proprio la crisi economica del 2008, approfittando di povertà, disoccupazione, disperazione, ha portato a nuovi livelli di mercificazione dell’essere sociale grazie a quella che conosciamo come gig economy. Nella gig economy il lavoro ha perso qualsiasi tipo di tutela: se il trend era iniziato ben prima, con la comparsa dei vari Uber e simili si è trasformato il lavoratore dipendente in “imprenditore di sé stesso”, togliendo qualsiasi tipo di garanzia: ferie, pensione, malattia, restrizioni di orario. Addirittura il lavoratore diventava il soggetto che doveva mettere il “capitale” – la macchina, la bici – e quindi il rischio, per arricchire una impresa che lo comanda come un robot. Airbnb, invece, distrugge il concetto di pianificazione urbana, di casa come luogo di riposo e riparo: nuovamente, un trend che già conoscevamo, i piani per la casa in Italia son sempre stati deficitari, mentre in paesi che avevano fatto dell’abitazione un bene necessario in cui l’intervento pubblico era costante – come il Regno Unito con le council houses – avevano da tempo invertito la rotta, puntando anzi sull’immobiliare come valvola di sfogo di un eccesso di capitale liquido, aumentando quindi i prezzi e costringendo la popolazione ad un indebitamente sempre più alto per poter acquistare un tetto dove dormire. Airbnb trasforma proprio il concetto di casa, che da luogo di vita diventa bene turistico, un hotel; e che dà quindi incentivi ai proprietari di casa a non accettare affitti lunghi – dei cittadini-lavoratori – per trasformarli in più remunerativi ostelli di breve durata per turisti. Con la conseguente espulsione della cittadinanza dalle città stesse, rendendo l’emergenza abitativa ancora più grave proprio mentre i fondi a disposizione calano vertiginosamente (il Fondo nazionale di sostegno per l’accesso alle abitazioni in locazione è passato da 398 milioni di euro nel 1999 a 9,9 nel 2011).
I mercati possono essere un fattore positivo per lo scambio di beni e per la crescita economica, ma solo una loro regolamentazione evita che distruggano i tessuti sociali. La reazione politica di questi anni – che a volte assume preoccupanti forme xenofobiche e para-fasciste – altro non è che una reazione non tanto contro la società moderna, quanto piuttosto contro la dittatura del mercato – una società rotta, che non si sa organizzare, che non tiene conto dei bisogni sociali dei cittadini, che, come nel famoso detto di Margaret Thatcher, “non esiste”. E’ da questo punto che è indispensabile ripartire, delimitando e regolando gli spazi del mercato e riaffermando ed allargando quelli della società. Lavoro, casa, sanità, ambiente, la stessa acqua – che il mercato, grazie ad una politica complice, prova a prendersi a dispetto della volontà popolare – devono tornare ad essere considerati diritti, bisogni, fatti sociali e non solo economici. Nuovi strumenti di welfare e legislativi devono essere introdotti per garantire più tutele al lavoro; finanziamenti più corposi devono garantire il diritto alla casa, alla sanità – bisogni che devono essere tutelati dalle logiche di mercato; anche il ruolo dell’impresa deve cambiare: se la Corporate Social Responsability è ormai già mainstream nel mondo anglosassone, è giunta l’ora di andare oltre, di trasformare i lavoratori in stakeholder, in possessori di capitale che possano avere potere decisionale dentro le imprese, con l’introduzione di fondi dei lavoratori, come hanno proposto tanto Corbyn quando era leader del Labour che l’economista Branko Milanovic. E nuovo deve essere, soprattutto, il ruolo della politica e dello Stato: non più, solo, di supporto al mercato ma di conciliazione tra le esigenze economiche e quelle sociali. Un programma ambizioso, indispensabile per ridare un senso alla parola democrazia.
Cooperazione, competizione, concorrenza
Chiariamo subito una questione etimologica. Spesso usiamo indifferentemente la parola “competizione” e quella “concorrenza” come se avessero lo stesso significato. Competere, dal latino cum e petere, significa “chiedere insieme” o anche “andare insieme” , ovvero dirigersi verso un obiettivo comune. Diversamente “concorrenza” deriva sempre dal latino e significa correre insieme ad un altro, ed è un termine che veniva usato nelle gare e sottintende che c’è un avversario da battere. Nell’accezione contemporanea più comune si usa indifferentemente “competizione” e “concorrenza”, categorie che vengono contrapposte a “cooperazione”. Nel linguaggio politico corrente si usa identificare la Destra neoliberista con la categoria della “competizione/concorrenza”, mentre alla Sinistra è associata la categoria della “cooperazione”. Questo approccio in bianco-nero (che non sono i colori della Juventus, ma di una visione del mondo) è un modo schematico e superficiale di analizzare i comportamenti degli uomini e delle donne, di guardare alle dinamiche sociali. La realtà è ben più complessa: nel comportamento di ogni essere umano c’è una spinta alla cooperazione quanto un’altra, contrapposta, alla competizione/concorrenza, come c’è una quota di altruismo e generosità insieme ad una componente egoistica. Alcuni sistemi sociali, o modi di produzione e riproduzione, esaltano una componente piuttosto che un’altra.
Come ha ben spiegato Tomasello, nasciamo con un istinto verso la cooperazione che dimostriamo già nei primi anni di vita. Allo stesso tempo, nessuno può negare che esiste una propensione alla competizione, una lotta per la sopravvivenza che nella società umana ha a che fare con la lotta per il potere, come puro desiderio di dominio che non conosce confini, limiti.
Inoltre, dobbiamo distinguere tra competizione qualitativa e concorrenza distruttiva. Gli artisti e gli sportivi competono con tutta la loro forza fisica e intellettuale, ma questo sforzo porta un beneficio per tutta la collettività. Ogni scrittore vorrebbe scrivere un’opera immortale e superare nella gloria i suoi colleghi, così come ogni pittore o musicista, ed ugualmente ogni atleta vuole superare il record raggiunto in quella disciplina o vincere un campionato nazionale o mondiale. Insomma, artisti e atleti competono tra di loro, anche duramente, ma il risultato è in generale positivo per tutta la collettività. Di contro, la concorrenza nel mercato capitalistico comporta l’esclusione, la messa fuori gioco dei concorrenti, per raggiungere l’ideale forma di mercato per il capitale: il monopolio. La “mano invisibile” di cui si innamorò Adam Smith è oggi ben visibile ed è una grande mano pubblica e privata, di oligopoli, imprese multinazionali e lobby pubblico-privato, in cui spesso si introduce clandestinamente la “mano criminale” che controlla diverse filiere del mercato capitalistico. Il rischio per la società è che la prevalenza di queste “mani” può portare all’autodistruzione, ad una concorrenza spietata che si gioca con la guerra dei prezzi, della speculazione finanziaria, o con le armi tout court.
Pertanto, se vogliamo salvarci dobbiamo fare riemergere l’istinto alla cooperazione e renderlo attraente, efficace, desiderabile. Trasformare la concorrenza distruttiva in emulazione e competizione positiva. Facciamo alcuni esempi.
Nel 1998 i mass media di tutta Europa si occuparono del caso Badolato, un paese abbandonato che rinasceva grazie all’accoglienza dei migranti curdi. L’esperienza, promossa dal Comune di Badolato e dal Cric (una ONG con sede centrale a Reggio C.) ebbe successo grazie alla collaborazione fattiva di Longo Mai (comunità anarchica presente in Francia, Svizzera e Germania), delle botteghe del commercio equo, dell’associazione nazionale per la pace, ecc. Tutti soggetti che promossero il turismo solidale che dette la linfa essenziale per rendere sostenibile il progetto senza denaro pubblico. Un anno dopo, l’Associazione Città futura e il suo presidente si presentarono a Badolato e dissero: “vogliamo farlo pure a Riace”. Così, per emulazione nacque l’esperienza di accoglienza di Riace, oggi famosa in tutto il mondo. A sua volta diversi altri Comuni (Acquaformosa, Sant’Alessio d’Aspromonte, Camini, ecc.) emularono Riace, sia pure adattando il progetto al loro territorio, raggiungendo risultati importanti e visibili, ma ignorato dai mass media per pigrizia.
Nel periodo 2000-2007 nel Parco nazionale dell’Aspromonte, ma anche nel Parco nazionale del Pollino, e in diversi parchi regionali, fu sperimentato con successo una collaborazione pubblico/privato (terzo settore), che è riuscita ad ottenere grandi risultati nella lotta agli incendi. Anche in questo caso la cooperazione tra le diverse associazioni/cooperative che hanno partecipato e sottoscritto i “contratti di responsabilità territoriale” è stata importante, quanto il desiderio di arrivare “primi” nella graduatoria premiale per chi aveva avuto la minore incidenza di superficie bruciata rispetto al territorio adottato.
Il fair trade è un esempio classico di come il free trade può essere superato, migliorato, a vantaggio degli anelli più deboli della filiera mercantile. Nato più di mezzo secolo fa, ormai diffuso dovunque, ha preso nel tempo anche altre forme ed altri nomi. In Italia, ad esempio, i G.A.S. (Gruppi d’Acquisto Solidale) che creano un rapporto diretto tra consumatori e produttori agricoli, o la rete No Cap di lotta al caporalato, hanno assunto e metabolizzato i principi fondamentali del “fair trade”, ovvero di una forma di mercato equo e solidale, che cerca di spostare il “valore aggiunto” dalla distribuzione alla produzione, di sostenere con contratti a medio termine i produttori locali, garantendoli sui prezzi e sulla continuità degli acquisti, facendo crescere una coscienza solidale nei consumatori, insomma creando una forma di cooperazione che mette in discussione le cosiddette “leggi di mercato” che non sono altro che le leggi della giungla, del più forte che divora il più piccolo, dell’onnipotenza del capitale finanziario che punta unicamente alla ricerca degli extra-profitti.
Così nel progetto Spartacus a Rosarno, centinaia di giovani braccianti africani sono stati liberati dalla tendopoli-baraccopoli, grazie ad una collaborazione tra la Fondazione Vismara di Milano, alcune imprese agricole che hanno assunto i braccianti e trovato una civile abitazione, e la promozione del progetto da parte dell’Associazione Interculturale Internationale House, con l’adesione della Federazione Giovanile delle Chiese Evangeliche, il Consorzio Chico Mendes di Milano, ecc. Creare rete, lo abbiamo capito da tempo, è fondamentale. L’autorganizzazione non è solo il sogno degli anarchici ma anche un dato di natura.
In conclusione: battersi per una società più solidale e coesa significa avere il coraggio di modificare l’attuale meccanismo di produzione e distribuzione, non di operare qualche aggiustamento compensativo (magari con un “bonus2), ma di avviare una trasformazione radicale a partire da come si produce e si consuma.
Diseguaglianze e mobilità sociale
Sono diversi anni ormai che il tema delle «disuguaglianze» viene portato in primo piano nel dibattito politico – e non vi è partito che non affermi di volerle ridurre – anche se poi finisce sempre per non venire mai davvero intaccato. Parliamo qui di disuguaglianze economiche, ovvero di reddito, e quindi di salario, e di ricchezza, che si riflettono, com’è ovvio, in disuguaglianze di condizioni di vita e di opportunità. Se le disuguaglianze di reddito e ricchezza in Italia sono considerevoli è perché esse dipendono da disuguaglianze sociali – un tempo si sarebbe detto di classe e ciò è ancora vero, in buona sostanza, anche se tale dicitura va qualificata – e da disuguaglianze territoriali e della famiglia di origine. Ciò perché, anche in Italia, la cosiddetta mobilità sociale è bassa, tanto che le disuguaglianze tendono a perpetuarsi tra le generazioni e nei territori.
L’Italia presenta un grado di disuguaglianza alto in confronto ad altri paesi europei. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito o della ricchezza – comunque la si misuri – è relativamente alta. E, ciò che altresì grave, tale alto grado di disuguaglianza è persistente ed è tale da ormai molti anni. Le fasce di reddito più basso, in Italia, rappresentano la quota maggiore tra i percettori di reddito, disponendo solo di una frazione del reddito complessivo, a fronte di una quota ben maggiore che va ai percettori di reddito più alto.
Sulle disuguaglianze nella distribuzione del reddito vengono spesso fatte affermazioni apparentemente contraddittorie – come quelle che affermano che esse sono aumentate o quelle che, al contrario, sostengono che sono più o meno costanti – e distinguo che sottolineano che «dipende da come si misurano». Senza entrare nella discussione più tecnica, va sottolineato che si deve distinguere, nel parlare di reddito, tra reddito disponibile, ovvero di quanto dispone una famiglia in un certo periodo, reddito di mercato, ovvero quanto gli individui ricevono, e reddito da lavoro, ovvero il compenso per l’attività lavorativa che va distinto dai redditi da capitale (inclusi quelli immobiliari) e gli altri redditi. Tale differenziazione, peraltro, spiega in parte alcune differenze nelle tendenze ed evidenza l’importanza delle politiche.
Il reddito da lavoro è fortemente sperequato, anche se meno di quanto si pensi, per larghe fasce di lavoratori. In generale, in Italia, il reddito da lavoro – a parità di qualifica e settore – è inferiore a quello di altri paesi europei. Sono i salari dei lavoratori meno qualificati, in tutti i settori, che negli ultimi decenni sono rimasti fermi e in taluni casi a livelli «da fame» (dando origine al fenomeno dei lavoratori il cui livello di spesa è sotto la soglia di povertà). Ma anche tra i lavoratori qualificati salari e stipendi sono rimasti inferiori a quelli omologhi di altri paesi. Molto alti sono i compensi – in busta paga o fuori busta, in benefit o in natura – di manager e dirigenti, che però rappresentano una quota molta bassa tra i lavoratori. La disuguaglianza nel reddito da lavoro è dunque molto alta e lo è da diversi anni. Legato al tema del reddito da lavoro c’è quello dei contributi, del prelievo e dei trasferimenti, che vanno a comporre il cosiddetto cuneo fiscale, il quale è notevolmente alto, in Italia.
Il reddito di mercato comprende il reddito da lavoro e tutte le altre forme di retribuzione e reddito. Ed è ciò che si calcola «prima» di aver considerato tasse e trasferimenti, al netto dei contributi. Il reddito di mercato è cresciuto in Italia, soprattutto per quanto riguarda i redditi da capitale – finanziari, ma anche da proprietà immobiliare – e gli altri redditi. Ed è cresciuto soprattutto per alcune categorie di percettori e per i lavoratori più qualificati. L’indice di disuguaglianza del reddito di mercato è molto maggiore del corrispettivo indice del reddito disponibile: ciò grazie al fatto che prelievi, trasferimenti e sussidi agiscono in modo da ridurre le disuguaglianze.
Fino a prima della pandemia, l’Italia aveva un indice di disuguaglianza del reddito disponibile tra più alti in Europa ma comunque attorno a un valore di 32,5%, che si può definire moderatamente alto. L’indice di disuguaglianza del reddito di mercato, viceversa, aveva raggiunto, già nel 2005, un valore vicino a 52%, superato di poco e di recente solo da Gran Bretagna e Stati Uniti, molto maggiore del valore del 1985, vicino al 38%. In nessun altro paese comparabile l’indice ha avuto un andamento tale, che mostra come la disuguaglianza sia notevolmente peggiorata. Le politiche redistributive e fiscali hanno quindi avuto l’effetto di ridurre le disuguaglianze anche se non a sufficienza. In Italia, come in GB e USA, alle fasce di percettori di redditi alti vanno ancora le maggiori quote di reddito, più che in Francia, Germania o nei paesi scandinavi (ma anche più che in Spagna e Portogallo).
Tra le cause alle origini delle disparità di reddito da lavoro e di mercato ci sono le varie «segmentazioni» del mercato del lavoro. In molti settori le remunerazioni sono regolate da barriere all’entrata e politiche «corporative», la concorrenza è scarsa, la scala remunerativa è ripida e rigida. La scala delle remunerazioni, tra settori, non premia poi a sufficienza le qualifiche medie e medio-alte, mentre si fa più discriminante nelle qualifiche alte. Tra le qualifiche basse, la concorrenza è molto maggiore, e la domanda di lavoro beneficia dell’eccesso di offerta sul mercato del lavoro, nonché della «mano libera» lasciata alle imprese che in questi anni sono state in grado di mantenere i livelli di salario vicini a quello che un tempo si sarebbe definito «di sussistenza». Che le disuguaglianze vengano tenute sotto controllo dai trasferimenti sociali (pensioni e sussidi) più che dalle imposte mostra, però, la debolezza delle politiche fiscali nell’affrontare il tema delle disuguaglianze.
Sul reddito totale, i redditi da lavoro sono costantemente diminuiti (l’incidenza del reddito da lavoro dipendente è scesa in 30 anni, a grandi linee, dal 50 al 40%, quella del reddito da lavoro autonomo dal 16 al 12%) mentre sono aumentati i redditi da capitale (dal 15% a più del 20%) e gli altri redditi come le pensioni (dal 20 al 28%). Essendo le pensioni primariamente ricevute dai percettori di reddito basso, ciò ha favorito una minore disuguaglianza del reddito disponibile rispetto al reddito di mercato.
Le disuguaglianze illustrate portano ad evidenziare due distinti aspetti e problemi: da un lato, la grave incidenza della povertà, ovvero di un livello di reddito inferiore ad una soglia corrispondente a un tenore di vita «dignitoso»; dall’altro la persistenza di una bassa mobilità sociale, che si riflette nella persistenza delle disuguaglianze tra le generazioni e fasce sociali e nei «percorsi di vita» degli individui.
I bassi livelli di salario e, più in generale, di reddito, hanno portato a un aumento della quota di famiglie e individui in condizioni di indigenza o vulnerabilità (anche prima della pandemia).
A livello propositivo occorrerebbe considerare che:
1. L’iniquità fiscale è una delle grandi questioni di policy che affligge l’Italia, come molti paesi. La tassazione sul reddito andrebbe resa più progressiva, non meno. Perché ridurre il numero di aliquote? Perché ridurre le aliquote sui redditi alti? Sono i redditi altissimi a godere di grandi vantaggi e questi andrebbero tassati (l’aliquota marginale più alta negli Stati Uniti di Roosevelt fu anche dell’83%, e non era uno stato socialista…). Le aliquote sui redditi bassi e molto bassi, invece, andrebbero ridotte.
2. Si grida sempre allo scandalo quando si parla di “tassa patrimoniale”. Cosa si intende? Se si parla di patrimonio immobiliare, ad esempio, non dovrebbe essere molto difficile introdurre una tassazione per numero di immobili posseduti: zero sul primo immobile, 0,1% sul secondo, 0,2% al terzo, e via dicendo. In Italia, se è vero che molte famiglie possiedono l’immobile dove abitano, ve n’è una certa quota che ha la “casa di villeggiatura” (magari ereditata dai genitori che se la fecero negli anni del “boom”). Ma quelli che hanno tre o più immobili sono invece una esigua minoranza. Tassare quegli immobili non dovrebbe far gridare allo scandalo (soprattutto, non dovrebbe gridare allo scandalo la maggioranza degli italiani…). Se gridano allo scandalo i grandi possidenti, lasciamoli gridare.
3. Scandaloso, invece, è che la tassazione sui redditi da capitale sia così più bassa di quella sui redditi da lavoro. Vero è che, in questo caso, non si può non concertare le aliquote con gli altri paesi europei (il capitale, più del lavoro, non conosce frontiere). Ma già l’Italia ha aliquote inferiori, forse per attrarre investimenti. Ma il fatto è che il nostro mercato finanziario è comunque asfittico e deve essere l’economia reale a tirare, non quella finanziaria. La tassazione sui redditi da capitale e sulle plusvalenze (vero regalo alla speculazione) va aumentata e uno sforzo va fatto in Europa perché sia concertata verso l’alto.
Economia fondamentale
Benché non siamo attenti a riconoscerne giorno per giorno l’importanza, ci sono beni e servizi di cui nessun cittadino può fare a meno, decisivi per il benessere e per la coesione sociale. Essi fanno capo ad attività economiche tanto importanti quanto trascurate dall’attenzione pubblica: un complesso di settori economici che si possono designare come economia fondamentale.
L’economia fondamentale non include soltanto il welfare – sanità, servizi di cura, istruzione, previdenza – ma anche altre attività meno osservate e meno celebrate: la produzione e la distribuzione alimentare, la distribuzione dell’acqua, del gas e delle energie, i servizi di fognatura, il trattamento dei rifiuti, i trasporti pubblici, le infrastrutture stradali, le telecomunicazioni, l’edilizia residenziale, i servizi bancari di prossimità.
Di economia fondamentale si vive, in un duplice senso. Da un lato, essa soddisfa le necessità quotidiane di tutti: la domanda di beni e servizi fondamentali è relativamente anelastica e indipendente dal reddito. Dall’altro, è uno spazio economico che offre impiego e reddito a un gran numero di persone – circa il 40% della forza-lavoro, su scala europea – con un ventaglio di competenze straordinario per varietà e qualità.
L’economia fondamentale garantisce giustizia sociale e stabilità economica. Se aumenta il livello dei redditi e dei patrimoni, ma le scuole e i trasporti pubblici peggiorano, cresce l’opulenza di pochi e dilaga la povertà pubblica. Al contrario, produrre e rendere fruibili beni e servizi di pubblico accesso – come scuole, ospedali, biblioteche – alimenta il benessere collettivo e mette la vita economica al riparo dalla volubilità dei consumi. Inoltre, l’economia fondamentale è l’indispensabile presupposto della coesione sociale e territoriale. Le grandi infrastrutture al servizio della vita quotidiana non sono semplicemente insiemi di beni: sono meccanismi che consentono di muovere cose e persone, ottenere servizi e beni, far circolare informazioni. Sono la base per la costruzione di un territorio e di una società connessi e coesi.
Negli ultimi tre decenni l’economia fondamentale è stata profondamente trasformata: la sua capacità di garantire benessere per tutti e di rafforzare la coesione territoriale è stata mortificata. Da un lato, essa è rimasta vittima dei tagli lineari del regime di austerity, che l’hanno indebolita sotto il profilo della quantità, della qualità e dell’articolazione territoriale. Dall’altro – soprattutto a seguito della privatizzazione di molti settori e della diffusione dell’outsourcing – è diventata un ambito nel quale attori economici privati perseguono l’estrazione di rendita e la realizzazione di alti profitti nel breve periodo. Intrinsecamente inadatte a produrre alti rendimenti, molte attività fondamentali sono state reinterpretate come aree di business altamente remunerative per azionisti e investitori.
Privatizzazioni, outsourcing e tagli lineari hanno portato disorganizzazione e fragilità all’economia della vita quotidiana. Alcune aree di attività, come i servizi di cura, sono divenute quasi-mercati, in cui la remunerazione delle imprese fa leva su salari e condizioni di lavoro, in progressivo peggioramento. Altre, come la rete autostradale – affidate a un ceto imprenditoriale che prometteva grandi capacità gestionali – sono divenute bacini di estrazione di rendita. Altre ancora, come il servizio postale e quello ferroviario, mettono a valore grandi eredità pubbliche (e non di rado flussi di denaro pubblico) in strategie di redditività, nelle quali l’imperativo della riduzione dei costi erode il patrimonio ereditato – si pensi alle stazioni e agli uffici postali dismessi – e induce disinvestimenti nelle aree di minor profittabilità, che di servizi essenziali hanno maggior bisogno.
Le conseguenze di questa trasformazione sono chiare:
– Innanzitutto, si produce un sistematico aumento dei costi di accesso a beni e servizi fondamentali. Secondo dati Federconsumatori (da Istat), fra il 2006 e il 2016 il costo della maggior parte dei beni e dei servizi essenziali è aumentato molto più dell’inflazione (15,7%): l’energia elettrica del 24,4%, i servizi postali del 41,5%, i trasporti urbani del 29,5%, i pedaggi e i parcheggi del 42,5%, i trasporti ferroviari del 46,2%, la raccolta dei rifiuti del 52,1%, l’acqua potabile del 89,2%. Questi aumenti agiscono come una tassazione regressiva, poiché le famiglie più povere spendono per beni e servizi essenziali una quota più alta di reddito rispetto alle famiglie più benestanti.
– In secondo luogo, si aggravano i divari territoriali. Da un lato, le ingiunzioni dell’austerity trovano più agevole applicazione nei contesti marginali: aree montane e rurali, aree interne, Mezzogiorno. Dall’altro, le imprese tendono a ridurre l’offerta di beni e servizi nelle aree marginali, che sono quelle che ne hanno più bisogno ma assicurano una minore redditività. Questo avviene anche nelle infrastrutture decisive per la coesione territoriale, come nel settore postale e ferroviario. Nel primo, la ricerca di redditività ha portato fra il 2011 e il 2021 ha portato alla chiusura di 1.244 uffici postali (circa il 10% del totale) (Fonte: Poste Italiane, bilancio). Nelle ferrovie, l’offerta è aumentata solo nelle tratte ad alta velocità, limitate a poche direttrici, diminuendo nelle altre (ad es., per i convogli a lunga percorrenza finanziati con il contributo pubblico, principalmente gli Intercity, l’offerta in termini di treni/km è scesa dal 2010 al 2019 del 16,7%); e resta uno spaventoso divario nel trasporto regionale (ad es., le corse dei treni regionali in tutta la Sicilia sono, ogni giorno, 494 contro le 2.150 della Lombardia) (fonte: Legambiente, Rapporto Pendolaria 2022).
– In terzo luogo, l’economia fondamentale viene portata a fallimenti funzionali: fallimenti ordinari, come la vessazione dei pendolari nelle aree metropolitane; fallimenti straordinari e talora catastrofici, come il disastro del Ponte Morandi; fallimenti sistemici, come lo stato di emergenza prodotto dalla pandemia da SARS-CoV-2 in un sistema sanitario eroso da tagli lineari, privatizzazioni ed esternalizzazioni, e da una regionalizzazione che l’ha reso meno governabile.
La ricostruzione di coesione sociale e di un benessere diffuso, in Italia, passa necessariamente attraverso un rinnovamento profondo di molti settori economici fondamentali. Il ritorno alla gestione pubblica, di per sé, non sarebbe necessariamente risolutivo, né è sufficiente un’iniezione di denaro pubblico per investimenti infrastrutturali (si pensi ancora al caso delle ferrovie: una volta che saranno state realizzate nuove infrastrutture per l’alta velocità nel Sud, le imprese di trasporto le popoleranno di treni o le lasceranno deserte?).
Occorrono dunque nuove regole, che assicurino che l’economia fondamentale – sia essa gestita dalla mano pubblica o da privati – risponda a un principio di licenza sociale, ovvero sia vincolata primariamente alle sue finalità di riproduzione del benessere collettivo. Essa può essere lo spazio di sperimentazione di forme innovative di democrazia economica, come i Consigli del Lavoro e della Cittadinanza prefigurati dal Forum Disuguaglianze e Diversità, in grado di accordare i principi di giustizia del cittadino in quanto utente/consumatore e del cittadino in quanto lavoratore. L’economia fondamentale non può fare affidamento sul filantropismo privato e sulla “finanza sociale”, entrambi legati ad agende proprietarie e a propri territori di riferimento. Necessita, invece, di un sistema fiscale fortemente progressivo, che disincentivi anche l’accumulazione di rendite e patrimoni.
Anche l’auto-organizzazione economica, il mutualismo e l’azione sociale diretta delle comunità locali sono essenziali motori di innovazione nello spazio dell’economia fondamentale. Attività come la produzione e distribuzione alimentare, la produzione e distribuzione di energia, la distribuzione dell’acqua, l’assistenza a bambini e anziani, possono essere in parte riorganizzate entro forme di cooperativismo territoriale e comunitario.
L’economia fondamentale necessita quindi di essere ripensata settore per settore, individuando strumenti di finanziamento fiscale perequativi, regole di gestione che la mettano al riparo dall’estrazione di rendita e di extra-profitti, forme di attivazione territoriale che – soprattutto nelle aree interne – la valorizzino come bacino di innovazione.
Meritocrazia
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. É, questo, il tanto semplice quanto potente incipit del primo articolo della Costituzione Italiana. Ma che cosa significa fondare una Repubblica sulla democrazia e sul lavoro? Significa non solo che ogni cittadino ha uguali diritti e uguale potere di influenzare la cosa pubblica tramite il voto. Ma anche che nessuna condizione “di partenza” o ereditata può determinare differenze nelle opportunità di realizzarsi nella società: non un titolo nobiliare, per esempio, ma nemmeno le condizioni economiche e sociali della propria famiglia di origine. Il criterio di successo è dato esclusivamente dal proprio impegno e dalle proprie abilità.
Una società che si basa su questi principi è stata da molti descritta come una società “meritocratica”, cioè definita, nella sua struttura, dal merito dei suoi componenti. Non solo una collettività così regolata é più efficiente e prospera, perché consente a chi più ha talento e volontà di emergere e, così facendo, di creare valore per sé e per gli altri; ma è anche una società più giusta ed equa, perché talento e volontà sono innati, e chiunque, indipendenti dai quarti di sangue blu o del patrimonio dei suoi avi, neppure può essere dotato.
Ma é proprio vero che la meritocrazia, così intesa, garantisce uguaglianza di opportunità? E come si concilia, questa idea, con l’aumento delle disuguaglianze, e la riduzione della mobilità sociale, negli ultimi quarant’anni?
Alcune caratteristiche delle tecnologie che più caratterizzano la società contemporanea, e che nella narrazione dominante avrebbero reso il mondo più “piatto” e meno gerarchico e promosso una genuina meritocrazia, si sono invece rivelate come vettori di vera ingiustizia sociale. La rivoluzione digitale ha portato, in particolare, a una polarizzazione del mercato del lavoro. Le nuove tecnologie premiano le professioni ad alto contenuto intellettuale, risparmiamo lavori a basso valore aggiunto (e quindi bassi salari) come i servizi alla persona, e penalizzano, tramite l’automazione, attività come quelle manifatturiere e dei servizi di ufficio, dal commercio al settore bancario, che storicamente non richiedevano alti livelli educativi ma garantivano buoni salari e condizioni di lavoro.
In questo scenario, un’educazione scolastica di “eccellenza” diventa quindi sempre più importante per realizzarsi professionalmente. Le famiglie che possono permetterselo hanno di conseguenza incentivi ad avviare i loro figli verso scuole più prestigiose, ad esempio licei e università privati, magari anche all’estero. Ma le famiglie non si fermano alla preparazione scolastica. La conoscenza delle lingue, i viaggi, le attività extracurricolari, e poi periodi di tirocinio e lavoro in azienda o studi professionali diventano altri strumenti per sviluppare abilità cognitive ma anche la capacità di lavorare in gruppo, parlare in pubblico e gestire relazioni. Insomma, invece di stabilire un criterio e una “narrazione” diversa, democratica, sull’uguaglianza di opportunità, nella società contemporanea le dinamiche economiche e tecnologiche finiscono per declinare la meritocrazia in termini molto più simili ai criteri di stratificazione economica e sociale del passato, quelli basati sul sangue e sul censo.
A differenza dei diritti di sangue o di censo tuttavia, come sottolinea il giurista Daniel Marcovits, tutte le attività e i mezzi che le famiglie benestanti impiegano per dare un vantaggio ai propri figli richiedono un grande impegno: i genitori devono lavorare di più per coprire le spese di tutte queste attività, e devono impiegare più tempo per seguire i loro ragazzi. Si crea quindi un circolo vizioso, o una trappola, come la chiama lo stesso Marcovits, per cui il concetto di meritocrazia assume connotazioni fortemente conservatrici: se qualcuno ha più successo nella vita, evidentemente se lo è meritato con tanto lavoro e talent, pertanto la struttura sociale esistente in un regime meritocratico è sempre quella ottimale e più “giusta”. Si tratta ovviamente di una fallacia, considerati i meccanismi cumulativi qui descritti, che partendo da condizioni di partenza differenti, tendono addirittura ad ampliare le diseguaglianze nel tempo. I dati sulla ridotta mobilità sociale a fronte di crescente disuguaglianza ce lo confermano. Così come la crescente evidenza che l’accesso alle migliori scuole, ai lavori meglio remunerati, ma anche le opportunità di eccellere nelle scienze sono sempre più appannaggio di chi proviene da una condizione socioeconomica di partenza più agiata.
In un video che Kamala Harris ha pubblicato pochi giorni prima delle elezioni presidenziali americane nel 2020, la futura vicepresidente descrive la differenza tra uguaglianza ed equità. Secondo Harris, il principio di uguaglianza, intesa come parità dei punti di partenza, non è più sufficiente per garantire effettive pari opportunità. Bisogna invece riconoscere che certe disparità – di condizione economica, ma anche di genere o razza – sono ormai così radicate che un’agenda progressista deve andare oltre, e promuovere piuttosto l’equità attraverso interventi anche differenziati. Senza arrivare all’egalitarismo, c’é ampio spazio, e oggi con meno imbarazzo di trent’anni fa, per sostenere politiche che accompagnino le persone oltre il punto di partenza per garantire loro adeguate possibilità future.
Ambiente
Nella cultura dominante, soprattutto in Italia, l’ambiente appare come un settore accanto agli altri, l’economia, il lavoro, i servizi, ecc. Non più che un ambito con particolari problemi su cui il potere pubblico è chiamato a intervenire con specifici provvedimenti. Quando lo sguardo si fa più largo i danni che patisce il pianeta si esauriscono nel riscaldamento climatico – certamente la più drammatica delle incombenze – a cui tuttavia si può porre rimedio tramite l’innovazione tecnologica, ricorrendo a nuove fonti di energia. Questa è ad es. la filosofia del PNRR. Come se tutte le minacce da fronteggiare si potessero risolvere cambiando il carburante della nostra locomotiva, quando l’origine di tutti gli squilibri ambientali presenti sono la locomotiva stessa, cioè il sistema capitalistico di produzione e di consumo. Occorre perciò fare una considerazione storica. Per gran parte del ‘900 i ceti dominanti dei Paesi avanzati sono riusciti ad occultare i danni che lo sviluppo industriale provocava al pianeta, facendo sparire, per sublimazione ideologica, la natura come una dimensione finita. Poiché lo sviluppo capitalistico si svolgeva solo in Europa, in USA e in Giappone, mentre Asia, Africa, Oceania erano solo territori del saccheggio coloniale, la natura poteva anche apparire come un deposito illimitato di risorse. Ma con l’ingresso di questi continenti nello sviluppo, il pianeta è apparso subito nella sua finitezza e nella sua fragilità.
La considerazione storica non si ferma qui. Negli ultimi decenni, silenziosamente, è avvenuto un passaggio d’epoca. La storia degli uomini che per millenni si è svolta come una retta parallela rispetto all’evoluzione della Terra, oggi l’ha quasi interamente sottomessa alla sua pressione. Non c’è attività umana che non incida direttamente sulle dinamiche complesse di tutto il pianeta. Il mutamento climatico in atto ne costituisce la più potente certificazione. Ma non è l’unica fonte di squilibri che ci minacciano, benché siano oggi i più visibili. Vale la pena ad ogni modo rammentare i più rilevanti. Com’è noto, l’aumento medio delle temperatura ha per effetto lo scioglimento dei ghiacciai ai poli e sulle montagne e il conseguente innalzamento del livello dei mari, estati sempre più torride che renderanno invivibili vaste zone della Terra e spingeranno le popolazioni a emigrare, fenomeni di siccità prolungate e perdita di terre fertili, tropicalizzazione dei mari, con una varietà di conseguenze in parte imprevedibili. Per comprendere cosa può comportare uno solo di questi processi nella realtà italiana, lo scioglimento dei ghiacciai, basti pensare che la loro scomparsa dalle cime delle Alpi comporterebbe il disseccamento o la drammatica riduzione delle acque correnti nella Pianura padana. Ne deriverebbero danni incalcolabili all’agricoltura, alle industrie, agli allevamenti, alle possibilità di smaltimento dei reflui, ai bisogni civili. Ma la pressione antropica non si limita a produrre gas serra. Prendiamo il continuo abbattimento della Foresta Amazzonica, e delle altre foreste tropicali, per allargare l’area degli allevamenti e alimentare il commercio mondiale delle carni. Questa pratica non comporta solo la perdita di piante secolari, ma anche il disseccamento delle sorgenti che la foresta alimentava, la sterilizzazione del suolo denudato, la distruzione di un patrimonio incalcolabile di biodiversità vegetale e animale, l’aumento locale della temperatura e della siccità, il venire meno di una fonte vitale di ossigeno per la salute della biosfera.
Così accade per altre attività umane. Lo sbarramento dei fiumi non toglie solo acque ad alcune popolazioni, ma dissecca tante zone palustri, impedisce il trasporto di materiali alle foci lasciando le coste all’erosione del mare. Un mare sempre più contaminato non solo dai nostri rifiuti, ma anche dai veleni dell’agricoltura chimica, saccheggiato da una pesca senza limiti e senza regole.
Questo quadro di insieme per indicare che i danni subiti dal pianeta non sono risolvibili con l’innovazione tecnologica, cambiando le fonti energetiche, ma richiedono uno sguardo più radicale, perché sono dipendenti dalla pressione economica globale. Il cuore del problema consiste nel fatto che tutti i Paesi, seguendo una logica capitalistica, non producono secondo i bisogni delle proprie popolazioni, ma competono in un agone mondiale, e dunque sono spinti a produrre sempre di più, a divorare sempre più risorse, accrescendo le merci e gli scambi e dunque lavorando tutti insieme al saccheggio globale del pianeta. Eppure questa corsa illimitata non avrebbe ragione di esistere. Basti pensare che oggi finiscono nei rifiuti 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo, sufficienti a sfamare 4 miliardi di persone. Sulla Terra c’è abbastanza ricchezza da far vivere bene tutti, basterebbe distribuirla più equamente. Ma è l’ordine mondiale attuale che porta a questo paradosso: si continua a produrre e a consumare oltre misura come se la Terra fosse infinita. Perciò il più grande pericolo del nostro futuro non sono tanto le catastrofi locali, ma la guerra come strumento per accaparrarsi le risorse sempre più scarse, il passaggio degli stati dalla competizione al conflitto armato. Occorre invertire la rotta. I governi devono incontrarsi non solo per diminuire i gas serra, ma per approdare a un ordine di cooperazione globale. La Terra è la casa di tutti. E’ necessaria una nuova cultura, che guardi ad essa come a un ecosistema, che racchiude altri ecosistemi: il mare, le foreste, il suolo, le città. Una nuova visione che si prende cura delle risorse finite per tutelarle e rigenerarle.
Proposte.
1) Incentivi alle imprese perché trasformino i rifiuti organici in compost, destinato all’agricoltura. Per secoli i rifiuti e le deiezioni urbane hanno rigenerato la fertilità del suolo, oggi sono fonte d’inquinamento.
2) Una politica di invasi in città e campagna che immagazzini l’acqua piovana invernale per gli usi estivi, quando sarà scarsa. Si limitano i danni da alluvioni, si cura una risorsa fondamentale.
3) Dar vita alle “Brigate arboricole”, gruppi di volontari che di concerto con i comuni piantano alberti, arbusti, orti, nelle aree dismesse della città, contrastando la cementificazione.
Uno Stato dalla parte del Cittadino
Oggigiorno quando i cittadini pensano allo Stato spesso hanno in mente immagini di pesante inefficienza e sprechi. Lo Stato è percepito come distante, corrotto, incapace, un’entità che si presenta solo quando si tratta di riscuotere le tasse ma che è altrimenti avara di servizi e di aiuti specie per i cittadini che più soffrono. La sfiducia nelle istituzioni dello stato è ai massimi storici e ci sono ottime ragioni perché sia così. Decenni di disinvestimenti nei servizi pubblici ne hanno peggiorato pesantemente la qualità rendendoli una pallida ombra di quello che erano un tempo. Durante il decennio 2010 i tagli effettuati nel quadro delle politiche di austerità hanno ulteriormente peggiorato la situazione con chiusure di ospedali, riduzione dei posti letto, insegnanti precarizzati e amministrazione pubblica priva del personale necessario a garantire livelli decenti di servizio. La scuola, la sanità, le strade, la rete ferroviaria, gli uffici pubblici, portano i segni dell’abbandono e dell’incuria. E per er quanto la destra spesso insista con l’immagine di uno Stato sovradimensionato in cui lavorano impiegati fannulloni, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici rispetto al totale dei lavoratori, quasi la metà rispetto ai paesi scandinavi.
Ridurre lo stato all’osso non ha dato libero spazio all’iniziativa privata e alla capacità della società civile di risolvere da sola i propri problemi. Al contrario ha privato la società di quelle istituzioni essenziali senza cui anche la sua attività spontanea diventa difficile. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza poteva essere una grande opportunità per affrontare le carenze dello Stato, assumere nuovo personale e curare le gravi lacune che gli impediscono di essere uno strumento efficace al servizio della società. Ma si è deciso altrimenti, con contratti precari invece di contratti stabili e affidando tanti progetti a appalti a compagnie private.
Adesso che ci siamo resi conto che lo Stato non è necessariamente un freno allo sviluppo della società e dell’economia ma può essere la sua necessaria impalcatura è necessario costruire una visione alternativa dello Stato, uno Stato dalla parte delle cittadine e dei cittadini, uno Stato che sia mezzo di democrazia e strumento della volontà popolare; uno Stato che sia capace di imporre l’interesse contro l’interesse particolare. Prima di tutto è necessario dare forza all’iniziativa pubblica con una campagna straordinaria di arruolamento di dipendenti pubblici per portare l’Italia sulla media europea. Sono necessari 1 milione di dipendenti pubblici, nell’amministrazione, nella sanità, nell’educazione, per la cura dell’ambiente, per l’università e per la ricerca.
In secondo luogo, è necessario che lo Stato ritorni a intervenire attivamente nell’economia. Questo non significa semplicemente che deve fare politica redistributiva tassando i ricchi e offrendo aiuto ai poveri. Significa anche che lo Stato deve tornare a fare pianificazione, dotarsi di agenzie capaci di analizzare in tempo reale l’evoluzione dell’economia e in particolare dei settori strategici come l’energia, per prevenire emergenze e per dare risposte rapide. Ma pure che bisogna superare il tabù della proprietà pubblica delle imprese come necessariamente destinata all’inefficienza. La fase più prospera dell’economia italiana è stata segnata da un’economia mista in cui le imprese statali avevano un ruolo centrale. Diversi settori strategici che per loro natura sono monopoli naturali e dove spesso è difficile fare profitti devono essere portati sotto controllo pubblico: a partire dal settore energetico.
Lo stato deve riprendere controllo sull’economia esercitando il suo potere in tutte le forme possibili. Perché in diversi casi è stato dimostrato in maniera palese come non ci sono soluzioni di mercato a tanti problemi, a partire dal cambiamento climatico su cui è necessario che lo Stato si faccia portatore di una pianificazione ecologica. Ma anche perché se lo Stato non ha forza ed è puramente un servo del mercato, non può esistere una vera democrazia in cui i desideri dei cittadini si concretano nella capacità di incidere sulla società. Per decenni lo Stato è stato trasformato puramente in un mezzo per difendere il mercato dai suoi stessi fallimenti e dalla rabbia della popolazione impoverita. Adesso deve tornare a essere uno strumento di democrazia, di libertà e di uguaglianza sociale come prevede la Costituzione.
ECONOMIA E LAVORO
Occupazione pubblica
Il testo che segue si basa sul lavoro di un gruppo di studiosi delle Università del Piemonte Orientale e di Torino che da tempo sta lavorando al progetto di un piano straordinario di assunzioni nella Pubblica Amministrazione, dell’ordine di un milione di unità (in aggiunta a quelle necessarie a garantire la sostituzione di chi va in pensione). Un milione è un ordine di grandezza, ed è insufficiente a colmare il divario con i paesi europei evoluti; ma come vedremo è coerente con una forma di finanziamento sostanzialmente priva di controindicazioni economiche e politiche.
Nessuna economia può funzionare bene Senza una Pubblica Amministrazione che funzioni bene, e nessuna amministrazione può funzionare bene senza il personale necessario. I dati disponibili indicano che in Italia il personale non è sufficiente, e che la principale causa della inefficienza della nostra Pubblica Amministrazione è proprio la carenza di personale. Fra i 27 paesi europei per i quali esistono dati comparabili, l’Italia è quello che ha il più alto rapporto fra popolazione e dipendenti pubblici, 20,2 abitanti per dipendente contro i –per esempio- 11,9 della Francia e i 7,4 della Svezia. Forse sono più immediatamente evidenti le cifre assolute: la Francia e il Regno Unito hanno circa il 10% di abitanti più dell’Italia e rispettivamente 5.674.000 e 5.033.000 dipendenti pubblici, vale a dire il 91,7% e il 70,1% in più dell’Italia (questo scarto rimane se invece di considerare i pubblici dipendenti in senso stretto consideriamo gli addetti totali, pubblici e privati, alla produzione di servizi pubblici, per tenere conto di diversi regimi di esternalizzazione). Possiamo aspettarci che questo sottodimensionamento sia altamente correlato alla soddisfazione dei cittadini nei confronti dell’amministrazione: e infatti fra i 27 paesi citati l’Italia è quello dove la percentuale di cittadini soddisfatti è la più bassa: 22%, contro –per esempio- il 50% della Francia e il 75% della Svezia.
Il sottodimensionamento della Pubblica Amministrazione ha effetti negativi che sono sotto gli occhi di tutti, per quanto riguarda per esempio la sanità, l’assistenza e l’istruzione. Ma ha anche effetti meno visibili e altrettanto gravi. In Italia la percentuale di laureati è fra le più basse fra i paesi sviluppati, ma al tempo stesso il tasso di inoccupazione fra i laureati è fra i più alti; e questo paradosso dipende proprio dal sottodimensionamento della Pubblica Amministrazione, che in Europa (e altrove) è tradizionalmente e logicamente il principale datore di lavoro dei laureati, che lavorano soprattutto nei settori della sanità, dell’istruzione, della assistenza, dell’amministrazione e anche (ma in Italia in misura insufficiente) della gestione del territorio. E’ stato suggerito che questo “paradosso dei laureati” dipenda dal fatto che gli italiani “si laureano nelle materie sbagliate”, ma questa ipotesi è smentita dai dati. E questo, naturalmente è alla base di un enorme flusso in uscita di laureati verso l’estero, che costituisce una perdita molto seria per la cultura e l’economia del nostro paese. Ancora, il numero di incidenti sul lavoro è in Italia anormalmente alto, e ciò è evidentemente da mettere in relazione con le carenze di personale degli ispettorati.
Ci sono conseguenze negative ancora più sottili e altrettanto gravi. Possiamo aspettarci che una Pubblica Amministrazione poco efficiente costituisca un serio ostacolo alla crescita del settore privato dell’economia, e così è. Un indagine condotta dalla Banca Mondiale sugli ostacoli alla nascita di piccole e medie imprese ci comunica che l’Italia è al 58° posto (su 190) a livello mondiale: dietro di lei, in Europa, ci sono solo Bulgaria, Ucraina, Grecia e Albania (oltre ai piccoli paesi protezionisti: Lussemburgo, Malta e San Marino). Paesi come la Polonia (40°) o la Russia (28°) sono molto più avanti di noi. Guardando i dati più in dettaglio scopriamo che il ritardo dell’Italia è dovuto soprattutto a problemi connessi alle procedure edilizie (97° posto), alla difficoltà ad ottenere credito (119°), alla farraginosità delle procedure fiscali (128°) ed alla difficoltà a ottenere il rispetto dei contratti (122°). E’ molto probabile che questi fattori di ritardo siano fortemente correlati alla inefficienza della macchina amministrativa, anche se non esclusivamente determinati da essa; e abbiamo visto come questa inefficienza dipenda in primissimo luogo dalla carenza di personale. Per esempio, nel caso delle concessioni edilizie la mancanza di un efficace sistema di controllo a posteriori fa sì che le imprese siano obbligate a procedure estremamente complesse volte a garantire a priori (per quanto possibile) che tutte le norme siano rispettate.
Non bisogna fare troppo affidamento sul PNRR: esso investe parecchio (non molto: circa 270 milioni all’anno in media per 6 anni) su alcuni provvedimenti di riforma della Pubblica Amministrazione, in particolare sul miglioramento delle tecnologie ma non sul punto cruciale dell’aumento dell’organico: il ministro Brunetta ha parlato di 800.000 assunzioni fino al 2026, ma più del 90% di esse andranno a sostituire il personale che si ritirerà. Paesi come la Francia e la Svezia sono sicuramente più avanti di noi per quanto riguarda la digitalizzazione e la connessione dei servizi, ma ciononostante la loro amministrazione dispone di una forza lavoro molto più consistente. In effetti, una digitalizzazione piuttosto raffazzonata sta creando seri disagi ai cittadini, e anche alle stesse amministrazioni. In parole molto semplici, non possiamo pensare di competere con (per esempio) la Francia se lì per un dato servizio ci sono due addetti giovani ciascuno con un computer e in Italia c’è solo un anziano (l’età media dei nostri pubblici dipendenti è la più alta dei paesi OCDE), però con due computer.
Quanto sopra porta alla conclusione inevitabile che un consistente aumento dell’occupazione nel settore pubblico è una condizione necessaria non solo per migliorare i servizi offerti, ma anche per offrire un migliore sostegno al sistema delle imprese. Giunti a questo punto, è necessario approfondire, brevemente in questo contesto, tre punti.
In primo luogo, occorre stabilire dove andrebbero fatte le nuove assunzioni, e quali figure sono maggiormente necessarie. Quanto scritto più sopra offre qualche suggerimento, ma questo compito dovrebbe essere svolto accuratamente in sede tecnica una volta che in sede politica si sia deciso di procedere. Si tratta di un’indagine sicuramente agevole per un’amministrazione bene intenzionata.
In secondo luogo, occorre trovare i soldi. La proposta del nostro gruppo è che si faccia ricorso a una imposta straordinaria sulla ricchezza finanziaria. Questa è talmente alta da far sì che un’aliquota media dello 0.5% sarebbe sufficiente per assumere un milione di persone; e tale ricchezza è anche molto concentrata, ragion per cui, e preferibilmente, lo stesso gettito potrebbe essere ottenuto con aliquote progressive con una quota esente di 200.000E e tali per cui nemmeno i patrimoni più alti pagherebbero più dell’1%. Questa imposta non sarebbe facilmente eludibile e potrebbe essere ritirata dopo un periodo quasi sicuramente inferiore ai 5 anni, grazie agli effetti di attivazione dovuti all’aumento del PIL (tra l’altro, la trasformazione di circa 30 miliardi da ricchezza in reddito fa aumentare ipso facto il PIL di circa l’1,7%). Dati di sondaggio ci dicono che l’opinione pubblica sarebbe maggioritariamente favorevole a questa politica, e questo vale anche per i potenziali maggiori contribuenti – che probabilmente preferirebbero che i loro figli restassero in Italia. (Ci sono fondati motivi per cui l’imposta dovrebbe riguardare la sola ricchezza finanziaria e non anche quella immobiliare, che qui sarebbe troppo lungo approfondire).
Infine, date le caratteristiche di efficienza e di consenso di questa politica, viene da chiedersi perché essa non sia già stata attuata. Su ciò pesano probabilmente l’ignoranza e il servilismo di tanti politici; ma pensiamo che il vero motivo sia proprio che tale politica sarebbe efficiente. Sono in molti in Italia a desiderare che lo Stato funzioni male, cosa che propizia la corruzione e le privatizzazioni, le quali hanno colpito e stanno sempre più colpendo settori (come la sanità e l’assistenza) per i quali la stessa teoria economica liberista raccomanda une gestione pubblica. In molti ci hanno detto che la prova che la nostra proposta sia sbagliata consiste nel fatto che la politica non la prende in considerazione. Probabilmente è vero il contrario: non viene presa in considerazione perché è giusta.
PROPOSTA: un piano straordinario di assunzioni nella Pubblica Amministrazione, destinate ai diversi settori sulla base della loro utilità sociale e dell’effetto di attivazione sull’economia nel suo complesso, da finanziarsi con un’imposta straordinaria e provvisoria sulla ricchezza finanziaria, con aliquote progressive, una quota esente consistente ed esborso comunque inferiore all’1% anche per i patrimoni più elevati.
Maggiori informazioni sul lavoro alla base di questa proposta sono disponibili in un documento piuttosto ampio scaricabile dai siti del Centro Studi Argo di Torino o della rivista on-line Italia Libera; in esso compaiono dati a suffragio di tutte le affermazioni contenute in questo testo, tranne quella riguardante la scarsa efficacia (finora) della digitalizzazione, che è frutto di colloqui diretti e quella sulla insoddisfazione nei riguardi della Pubblica Amministrazione che proviene da uno studio del Forum Pubblica Amministrazione, Lavoro Pubblico 2021. I dati demografici e sul mercato del lavoro sono di fonte ufficiale (OCDE, EUROSTAT e PNRR). Questi dati sono in continua evoluzione, quindi è possibile che ci sia qualche non rilevante discrepanza rispetto a quelli riportati nel documento di cui sopra. Il documento della Banca Mondiale è Doing Business 2020.
Lavoro povero e flessibilità
Le misure contro la povertà mirano tipicamente ad aumentare la partecipazione al mercato del lavoro. L’idea è che per uscire dalla condizione di indigenza sia necessario essere occupati. Tuttavia, questo non è così vero e sempre di più si sente parlare di lavoratori poveri, in inglese working poor, ossia occupati che vivono in famiglie che hanno un reddito complessivo inferiore a quello della soglia di povertà. Questo fenomeno in Italia è particolarmente critico. I dati Istat sui lavoratori dipendenti ci dicono che circa il 12% degli occupati è a rischio di povertà. Confrontando la situazione italiana con quella degli altri paesi europei, vediamo che fanno peggio di noi solo Romania, Spagna e Lussemburgo. Oltre a ciò, è preoccupante il trend che vede questo dato peggiorato negli ultimi dieci anni di 2,5 punti percentuali per l’Italia a fronte di soli due altri paesi con una crescita paragonabile: Estonia e Regno Unito.
Ma come è possibile? I meccanismi sono sostanzialmente due. Da un lato il reddito da lavoro è basso, dall’altro il reddito non è sufficiente per tutti i componenti della famiglia. Nel primo caso un lavoratore guadagna poco perché ha un basso salario, lavora poche ore o lo fa in maniera discontinua nell’anno. Spesso è la combinazione di due o tre di questi elementi. Un esempio di un working poor è quello di una ragazza impiegata in uno studio per sole due ore al giorno per cinque giorni. Un altro è quello di un ragazzo, assunto tramite una cooperativa di servizi magari presso un ente pubblico. La sua paga oraria è così bassa che, pur lavorando tutto il giorno in maniera continuativa, ha uno stipendio sotto la soglia di povertà. Un terzo caso può essere quello di un/una insegnante che, sebbene sia ampiamente disponibile, lavora solo sporadicamente facendo supplenze. Tralasciamo volutamente le situazioni che alcuni definiscono di lavoro gratuito – per esempio di giovani sfruttati in imprese private in cambio di una referenza sul curriculum – in quanto una delle caratteristiche di una occupazione per essere definita tale è quella di avere la capacità di dare reddito alla persona occupata.
Il secondo meccanismo non fa riferimento all’inadeguatezza del reddito da lavoro del singolo, ma a quello della famiglia del lavoratore. Una famiglia di due adulti e due bambini dove lavora solo uno dei genitori può facilmente trovarsi in difficoltà economica perché lo stipendio non basta a pagare l’affitto o il mutuo della casa, la spesa, le bollette, l’auto, il cellulare. In questo caso il problema della povertà può essere riconducibile, tra altri elementi, alla bassa intensità da lavoro a livello familiare, ossia al fatto che solo uno dei due adulti lavora.
Focalizzandoci solo sulle politiche del mercato del lavoro ci sono almeno due cose che si possono fare per contrastare il problema della povertà da lavoro: concentrarsi sulla scarsità dell’occupazione in termini di “quantità di lavoro” – più opportunità occupazionali e meno part-time involontari – e intervenire sulla “qualità del lavoro” – occupazioni stabili e ben retribuite. La qualità del lavoro include molti aspetti, tra cui l’offrire un reddito adeguato, permettendo agli individui e alle loro famiglie di evitare la povertà. Su questo si rimanda alla voce Salario minimo.
Una riflessione importante riguarda la stabilità del lavoro. Questo elemento incide sia sulla quantità di lavoro, ossia per quanto tempo si è occupati, sia sulla qualità dell’occupazione che può essere più o meno continuativa. Il risultato del perdurare negli ultimi decenni del processo di flessibilizzazione, concentrato prevalentemente sulla flessibilità numerica, ossia la possibilità di assumere per brevissimi periodi di tempo, è che il lavoro ha perso la sua capacità di rappresentare una risposta ai bisogni di inclusione e sicurezza in particolare per la fascia di popolazione che più si trova ad affrontare un contesto incerto. L’instabilità ha conseguenze negative per l’individuo che ha maggiore probabilità di essere povero e di sentirsi povero, ma ha anche ripercussioni per tutta la società. Aumentano i rischi di ammalarsi e infortunarsi, si tende a consumare meno e si posticipano molte scelte familiari, in particolare quelle di farsi una famiglia. Con buona pace delle politiche per la natalità.
Quali misure concrete possono essere mette in atto? Innanzitutto, eliminando, o per lo meno disincentivando, la possibilità di ricorrere a contratti a tempo determinato. A questo proposito si potrebbe consentire l’assunzione a tempo determinato per un periodo di tempo limitato e solo una volta. Ma anche rendere i contratti temporanei significativamente più costosi per le imprese. Si potrebbero ridurre le forme contrattuali, così come previsto ad esempio recentemente in Spagna.
Le conseguenze di un irrigidimento del mercato del lavoro non tradurrebbero in una minore occupazione perché con l’occupazione stabile le imprese vedono diminuire i costi di turn-over e aumentare la produttività. Inoltre, l’analisi dell’andamento dei dati sul costo del lavoro mostra il meccanismo esattamente contrario: in Italia negli ultimi vent’anni, sebbene siano diminuiti gli oneri a carico delle imprese, non è aumentata l’occupazione.
Un’ultima osservazione sul tema del lavoro povero e instabile è la necessità di affiancare agli interventi nel mercato del lavoro quelli di potenziamento delle politiche sociali. Dal sostegno all’occupazione delle famiglie con figli, alle politiche di sostegno del reddito. Su queste ultime lo strumento del Reddito di Cittadinanza è particolarmente importante nella problematica del lavoro povero e instabile. Per un numero rilevante di individui e famiglie, questa forma di sostegno al reddito è più efficace nel contrastare la povertà rispetto all’avere un lavoro. Tuttavia, è molto osteggiata, in quanto secondo i critici porterebbe a far sì che le persone preferiscano prendere il sussidio pubblico anziché lavorare. Senza discutere l’infondatezza di questa posizione, possiamo riconoscere che affinché il Reddito di Cittadinanza sia accettato da tutti, allora, è necessario rendere il lavoro conveniente, ossia assicurare il contrario: le famiglie devono stare meglio con il lavoro che con i sussidi.
Il salario minimo come strategia
Il salario minimo è oggi una misura fondamentale per il nostro Paese, tanto che anche l’Unione Europea lo considera uno strumento necessario per arginare il lavoro povero.
Secondo il rapporto INPS del 2020 i lavoratori che beneficerebbero di una misura come il salario minimo nel nostro paese rappresentano il 13% del totale nel settore privato.
Spesso, basandosi su intuizioni economiche piuttosto naïf, si è sostenuto che il salario minimo andrebbe a diminuire l’occupazione.
Nel mercato del lavoro, infatti, lavoratori e datori di lavoro giungerebbero a un salario di equilibrio secondo la legge della domanda e dell’offerta. Qualora il governo dovesse intervenire, stabilendo un salario minimo legale al di sopra del salario d’equilibrio, ciò sposterebbe la curva d’offerta (quella quindi dei lavoratori che offrono la loro manodopera) verso destra, portando a un aumento quindi della disoccupazione.
Si tratta appunto di un modello quantomeno ideale, che non coglie le caratteristiche essenziali della realtà, supponendo a livello tecnico una situazione di mercati competitivi.
Uno degli esempi fondamentali su cui si è concentrata la letteratura economica è quella del monopsonio. Dal punto di vista intuitivo il monopsonio è l’equivalente del monopolio sul lato della domanda. In presenza di monopsonio la curva di domanda assume una diversa forma e i lavoratori vengono retribuiti meno di quanto gli spetta- dal punto di vista puramente teorico, ovvero il prodotto marginale del lavoro- con effetti anche sull’occupazione. Stabilendo quindi un salario minimo legale lo Stato andrebbe a ristabilire un equilibrio ottimale nel mercato del lavoro.
Com’è la situazione nel caso italiano? Un recente lavoro di Caselli, Mondono e Schiavo ha cercato di fare chiarezza sul tema. Nel nostro paese la quota di aziende che detengono potere di monopsonio si attesta intorno al 35%, con dati estremamente eterogenei dal punto di vista spaziale: al sud la quota di aziende in potere di monopsonio raggiunge il 50%. Inoltre, come evidenziano i dati, dal 2016 in poi vi è stato un brusco calo di imprese in potere di monopsonio per via di un andamento fiacco della produttività.
Oltre alle disquisizioni puramente teoriche, la questione del salario minimo è stata affrontata anche dal punto di vista empirico. A livello storico uno dei lavori più importanti sul tema, quello di Card e Krueger, ha analizzato l’impatto di un aumento del salario minimo in New Jersey nel 1992, quando l’economia americana si trovava in una fase di recessione. Confrontandolo l’andamento dell’occupazione nei fast food in Pennsylvania con strumenti all’avanguardia dal punto di vista dell’analisi empirica nel mercato del lavoro- il cosiddetto modello di stima Difference in Difference-gli autori hanno evidenziato come il salario minimo avesse avuto effetti positivi sull’occupazione, contrariamente alla teoria.
La questione, ovviamente, si fa più sottile: qual è il livello ottimale di salario minimo che garantisce effetti statisticamente non significativi sull’occupazione?
Secondo una recente review sul tema commissionata dal governo inglese, un salario minimo al 60% del salario mediano ha effetti staticamente non significativi sull’occupazione. Nel nostro paese, stimano sempre Caselli, Mondolo, Schiavo questo significherebbe un salario tra gli 8.25 e i 9.65 al netto dei contributi previdenziali. L’analisi, avvertono però gli autori, è stata svolta sul settore manifatturiero. Altri settori, come quello dei servizi e in particolare quello turistico, presentano paghe non solo più basse ma anche un’incidenza elevata di forme di lavoro nero e irregolarità.
Un altro studio empirico di grande importanza riguarda il caso tedesco: il salario minimo è stato introdotto nel 2015, a 8,5 euro l’ora, estendendo la contrattazione collettiva, per poi essere aumentato nel corso degli anni. Prima della sua introduzione, l’11,3% dei lavoratori privati aveva un salario inferiore. Gli effetti sono stati una diminuzione della disuguaglianza nei livelli salariali, un aumento della retribuzione nei primi due decili di salario e nessuna riduzione dell’occupazione.
Una critica rivolta al salario minimo è che andrebbe a intaccare lo storico tessuto di relazioni industriali del nostro paese. In realtà, non esiste alcuna prova concreta che in una condizione di bassa densità sindacale un salario minimo vada a intaccare la contrattazione collettiva. Il rischio è invece che, senza una seria riforma della legge sulla rappresentanza sindacale e una maggior forza dei sindacati, il salario mediano scivoli sempre di più verso il salario minimo.
Nei paesi in cui il salario minimo non è presente, infatti, la presenza dei sindacati è ubiqua, così come quella dei rappresentanti di categoria degli imprenditori. Attraverso la contrattazione collettiva e la compressione salariale, riassunta in “stesso lavoro stessa paga”, i sindacati garantiscono paghe elevate ai dipendenti spingendo invece gli imprenditori a investire in innovazione, miglioramento delle dinamiche aziendali e capitale umano per aumentare i loro profitti. Così facendo si crea un ecosistema che premia quelle aziende che garantiscono salari adeguati e con elevata produttività spingendo invece fuori dal mercato quelle che non sono floride.
In Italia, nonostante il sistema sia simile, si è assistito come dicevamo prima a un indebolimento dei sindacati e della strategia della contrattazione collettiva. Secondo i dati della fondazione Di Vittorio nel corso degli ultimi 10 anni i contratti collettivi sono aumentati dell’80%, passando da 551 nel 2012 a 992 nel 2021. Di questi nuovi contratti, soltanto 25 risultano firmati dalle sigle sindacali maggiorente rappresentative- quindi CGIL, CISL e UIL. Allo stesso tempo, rileva la fondazione, è andato a aumentando anche il tempo di rinnova degli stessi contratti.
Questi fenomeni rispondono, come dicevamo prima, a una competizione che non si svolge più sull’innovazione e sul miglioramento delle strategie aziendali quanto sulle condizioni dei lavoratori sia dal punto di vista salariale sia delle tutele. Una dinamica preoccupante, come rivela un lavoro di Hoffman, Malacrino e Pistaferri, che ha aumentato la disuguaglianza salariale e disincentivato l’accumulazione di capitale umano.
Per questo le due tematiche vanno tenute assieme: da una parte quella della rappresentanza sindacale, dall’altra quella del salario minimo. In particolare si rischia che senza una riforma del sistema di rappresentanza sindacale il salario mediano scivoli verso quello minimo. La proposta Catalfo andava nella giusta direzione
Vi è una motivazione ulteriore per spingere per un salario minimo nel nostro paese. Come società occidentale non siamo interessati soltanto alla libertà negativa- la libertà come assenza di impedimenti- ma anche alla libertà positiva. Un salario minimo andrebbe a impedire un paga da fame che non consente la piena realizzazione di una persona per quel che riguarda la sua vita personale e il suo tempo libero.
Con un caveat, però: il salario minimo come dicevamo precedentemente si basa sul livello salariale nel suo complesso. Per questo in una situazione di salari bassi, il salario minimo rischia di essere altrettanto basso. Quindi il salario minimo deve essere una parte della strategia, assieme a una riforma del mercato del lavoro e a un rinnovamento della politica industriale.
Lavoro autonomo
L’universo rappresentato dal lavoro autonomo (self employed) è un universo estremamente eterogeneo. Ciò è dovuto essenzialmente a delle ragioni storiche che hanno a che fare con la configurazione assunta dalla società capitalistica nell’ultimo secolo e mezzo.
A una maggioranza di coltivatori diretti, piccoli commercianti e artigiani in forte decrescita si sta progressivamente sostituendo un numero in costante crescita di prestatori d’opera individuali, privi di collaboratori, creati dalla rivoluzione informatica e dallo sviluppo delle reti virtuali. La crescita di questa componente è favorita anche, soprattutto in Italia, dal proliferare di rapporti di lavoro precari e occasionali e dall’esasperata ricerca di flessibilià della forza lavoro da parte delle imprese. Questa componente, nella quale il lavoro professionale che richiede un’elevata scolarizzazione occupa una posizione rilevante, ha caratteristiche del tutto diverse dalla tradizionale componente inquadrata negli Ordini professionali, la cui origine affonda addirittura in secoli lontani (medici, architetti, avvocati ecc.).
Potremmo quindi rappresentare l’universo del lavoro autonomo come un aggregato di diversi gruppi sociali che esercitano attività economiche diverse sia “in proprio” che “per conto di terzi”.
Questa eterogeneità è diventata però un elemento strutturale che la trasforma in frammentazione, cioè in ambiti difficilmente comunicanti, dal modo in cui lo Stato Italiano ha affrontato il problema dei rapporti coi lavoratori autonomi dal punto di vista fiscale e delle tutele previdenziali.
Per capire rapidamente di cosa si sta parlando, proviamo a leggere il capitolo riguardante il lavoro autonomo nel 2021 riportato nel “Rapporto Annuale INPS 2022” alle pp. 130-142. I lavoratori autonomi sono raggruppati in a) artigiani (1.585 mila posizioni contributive), b) commercianti (2.105 mila posizioni contributive), c) agricoltori (440 mila posizioni contributive). In totale 4 milioni 130 mila posizioni contributive. A queste però vanno aggiunti d) gli iscritti al Fondo della Gestione Separata (1 milione 431,6 posizioni contributive), la cui composizione raggiunge il massimo dell’eterogeneità, pur essendo uguali tra loro dal punto di vista fiscale e contributivo, ma diversi da commercianti, artigiani e agricoltori. E diversi, dovremmo aggiungere, anche dagli Ordini professionali dotati di mutue private.
Quindi l’eterogeneità di natura “sociologica” diventa frammentazione per il diverso inquadramento dei rispettivi gruppi sia rispetto al fisco che rispetto alle tutele assistenziali e previdenziali. Questa frammentazione si rispecchia, ovviamente, nelle rappresentanze, che, in maggioranza, risentono fortemente delle loro origini corporative e contribuiscono a rendere ancora più complesso il già complesso quadro dei corpi intermedi in Italia.
Si stacca invece da questo pesante retaggio corporativo la rappresentanza di quel lavoro autonomo che si è sviluppato con l’affermazione di Internet e con la creazione di “nuove professioni” – il cosiddetto ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ – costituite da prestatori d’opera individuali, così inizialmente diversi dai professionisti iscritti agli Ordini ma che tendono invece ad assomigliarsi proprio per la trasformazione continua imposta dall’evoluzione tecnologica, dal cambiamento degli stili di vita, dalla globalizzazione ecc..
Si potrebbe dire che il primo esempio di questa diversa rappresentanza del lavoro autonomo, che non nasce con pesanti ipoteche corporative ma come rappresentanza trasversale di tutte quelle attività legate indissolubilmente all’èra dell’informatica e delle reti virtuali è la ‘Freelancersunion’ degli Stati Uniti, nata agli inizi del Duemila, con la quale la corrispondente Associazione italiana, ACTA, si è gemellata. ACTA, che fa parte della Consulta sul lavoro autonomo e le professioni del CNEL, ha dato il suo contributo alla stesura dello Statuto del Lavoro Autonomo del governo Renzi.
Uno dei fattori che hanno consentito alle destre di recuperare terreno negli ultimi anni è stata indubbiamente la pressoché totale incomprensione da parte della sinistra delle caratteristiche del lavoro autonomo e del lavoro precario. Partendo dall’assioma che l’unica forma di lavoro concepibile è quella del lavoro subordinato, la sinistra ha continuato a ripetere che il lavoro autonomo è un falso lavoro autonomo (le “false partite Iva”) e che il lavoro precario deve scomparire trasformandosi in lavoro subordinato a tempo pieno. In questo modo ha praticamente eliminato il problema delle trasformazioni del lavoro, non ha voluto entrare nelle problematiche e nella psicologia del lavoro autonomo “autentico” (che ne rappresenta la stragrande maggioranza) e non ha capito che le posizioni lavorative precarie sono ormai un dato strutturale ineliminabile destinato ad aumentare e a diventare sempre più fragile e occasionale (i cosiddetti “lavoretti” della gig economy) e che ormai milioni di persone hanno trovato strategie di sopravvivenza proprio all’interno di quest’area di precariato e mai vorrebbero rinunciarvi per andare a lavorare in un posto fisso.
Pregiudizi ideologici e pigrizia mentale hanno in sostanza reso impossibile alla sinistra rappresentare e organizzare i lavori “non standard”. I flebili tentativi operati dal sindacato, dalla CGIL in particolare, hanno interessato gruppi marginali di lavoratori ma possono essere comunque un avvio a un processo di riconoscimento, che indubbiamente presenta notevolissime difficoltà e richiede grandi sforzi di analisi, in quanto i diversi gruppi professionali delle cosiddette “nuove professioni” vanno analizzato in dettaglio nelle loro specificità, se si vuole trovare dei motivi convincenti che inducano i loro membri ad uscire dall’individualismo. Occorre che coloro che si richiamano alla tradizione del movimento operaio abbandonino la loro diffidenza e talvolta ostilità nei confronti delle nuove rappresentanze del lavoro autonomo per portare avanti obbiettivi comuni, che consentano ai lavoratori “non standard” di accedere alle tutele fondamentali che uno stato dovrebbe assicurare a tutti i cittadini indipendentemente dal loro status. La precarietà e l’intermittenza possono essere imposte o scelte dal soggetto lavoratore, esse fanno parte di una caratteristica ineliminabile della società capitalistica di oggi.
Quali proposte? Combattere la frammentazione e costruire un sistema assistenziale omogeneo, che intervenga a tutela delle situazioni di difficoltà, indipendentemente dal settore e dalla professione. Nella vita lavorativa moderna capita sempre più spesso che le carriere lavorative passino da situazioni di lavoro subordinato a situazioni di lavoro autonomo nelle sue diverse tipologie e viceversa. Vengono così versati i contributi a diverse casse previdenziali e diventa spesso impossibile cumularli o raggiungere il minimo previsto dalle singole casse per poter accedere alle tutele. Per questo è necessario:
– superare le attuali distinzioni tra casse previdenziali che afferiscono all’INPS e nel frattempo dare la possibilità di cumulare più indennità se si afferisce a più casse previdenziali, in attesa del loro confluire in un’unica cassa.
– omogeneizzare il trattamento per malattia, maternità e disoccupazione, in attesa di pervenire ad una unica cassa, prevedendo:
a) l’estensione dell’indennità di maternità minima, attualmente esistente per coltivatrici dirette, commercianti, artigiane, professioniste con ordini, a tutte le gestioni previdenziali, compresa la Gestione Separata
b) uniformare il trattamento della malattia, con l’eliminazione dei massimali di reddito come vincolo di accesso e con la copertura pensionistica dei periodi indennizzati
c) introdurre una misura unica di sostegno al reddito, sostitutiva degli attuali dis-coll, iscro e alas.
Economia per la cultura e la creatività
Negli ultimi 20 anni, da quando il termine ha iniziato a diffondersi anche nel nostro Paese l’economia culturale e creativa ha vissuto di due potenti quanto pericolose retoriche. Primo, da momento che l’Italia ha un patrimonio artistico e museale invidiato in tutto il mondo (i famosi “giacimenti culturali”), si è diffusa l’idea che potremmo avere un enorme benessere semplicemente “sfruttando” la grande bellezza delle nostre città e dei nostri paesaggi. Come corollario, è opinione diffusa quanto malriposta che la filiera turistica sia il settore che potrebbe trainare l’intera economia nazionale, quando è noto a tutti che il turismo è tra le attività a basso valore aggiunto che impiega soprattutto personale a bassa qualifica e genera importanti fenomeni di sottoccupazione e occupazione precaria.
Il secondo equivoco riguarda il mito della creatività, che partendo dalla narrazione romantica dell’artista solitario e creatore, viene volutamente associato all’imprenditore che con volontà e inventiva è in grado di cambiare le sorti proprie e di chi con lui lavora. Non è un caso che l’imprenditorialità creativa nasca in contrapposizione alla “grigia” burocrazia di istituzioni culturali pubbliche a cui negli anni sono state progressivamente tolte risorse con la conseguente riduzione di quantità e qualità di servizi culturali nelle città, nei musei e nei teatri.
Il combinato disposto di queste retoriche ha provocato danni enormi non solo al patrimonio culturale ma anche all’economia del Paese e, soprattutto, ai lavoratori dei settori culturali. Per molte amministrazioni locali e centrali, le politiche culturali sono diventate un comodo surrogato a basso costo di una visione di futuro e quindi di una politica economica che realizzasse tale visione. Per anni abbiamo assistito ad un approccio messianico alla cultura, in cui improbabili sacerdoti-impresari ci hanno fatto credere strumentalmente che festival e musei, città della cultura e mostre, incubatori e progetti di rigenerazione sono sempre motori di sviluppo economico e nuova occupazione, nonché inclusione sociale e crescita culturale delle comunità. Quello che osserviamo è molto diverso.
Secondo diverse stime, le cosiddette industrie creative e culturali (ICC) in Italia, almeno prima della pandemia (2019), occupano circa 1,5 mln di persone. Di questi circa i due terzi lavorano in settori tradizionali (arti, patrimonio e musei, editoria, musica e audiovisivo) e industrie culturali (comunicazione, design e architettura, software), mentre un terzo lavora con mansioni creative in settori non culturali. A farla da padrone nei settori tradizionali sono software ed editoria che insieme valgono circa il 50% dell’occupazione, mentre le arti e i musei rimangono fanalino di coda.
Secondo Federculture (2022) la pandemia ha affossato i consumi culturali, soprattutto quelli connessi alla mobilità, impattando sull’occupazione più che proporzionalmente rispetto ad altri settori. Questo dato conferma un’ulteriore verità spesso taciuta sulla composizione dei lavoratori della cultura: in quasi un caso su due si tratta di lavoratori autonomi e micro-imprese, che vivono di contratti a breve e brevissimo termine, di retribuzioni molto basse e spesso anche di corrispettivi in nero senza contributi.
Le poche certezze su cui c’è consenso nella letteratura scientifica è che l’economia culturale tende a concentrarsi nelle grandi città e a favorire le grandi istituzioni. Le politiche ministeriali di Franceschini invece di bilanciare questa tendenza hanno avallato la creazione di campioni nazionali, che se da un lato danno lustro alla nazione, dall’altro hanno conseguenze negative sia per le città d’arte, in cui il turismo tende a spiazzare ogni altra attività, trasformando i centri storici in rendite da venditori di souvenir, menù turistici e affitti brevi, sia per i piccoli centri e le aree interne, lasciate ad un destino di spopolamento e degrado paesaggistico. A questo si aggiunge il PNRR in cui sono previsti interventi infrastrutturali rilevanti per alcuni settori culturali, ma contestualmente si rileva una diminuzione sostanziale la spesa per la cultura delle amministrazioni pubbliche.
Una politica culturale diversa impone un cambio di mentalità. Primo, le attività e il patrimonio culturali non possono essere sempre la panacea per i problemi socio-economici di un territorio. Occorre limitare retoriche economicistiche sugli impatti economici e restituire appieno il valore formativo e democratico delle istituzioni culturali. Il patrimonio è un bene pubblico, mettiamoci in testa che comporta dei costi per la comunità; quindi, gli interventi finalizzati a “mettere a profitto” sono per natura destinati spesso a fallire oppure rischiano di essere profondamente distorsivi. Secondo, la creatività è preziosa per l’innovazione, ma non sostituisce il bisogno di servizi essenziali che Stato e enti territoriali devono fornire ai cittadini anche nella cultura, attraverso biblioteche, archivi, musei, teatri e attività culturali. In questo senso, occorre un piano di assunzione di giovani negli uffici territoriali alla cultura e nelle istituzioni, internalizzando funzioni (come quelle educative e organizzative) invece di esternalizzarle e renderle precarie. L’esternalizzazione favorisce l’approccio mordi e fuggi degli eventificatori di professione e svuota di professionalità e competenza gli operatori locali.
Terzo, il turismo non è sempre la soluzione, occorre vigilare affinché non diventi il problema. L’effetto delle attività culturali sulle città minori e sui territori marginali è quasi sempre effimero sia sul turismo sia sui residenti se non associato ad investimenti infrastrutturali (accessibilità) e soprattutto di politica economica. Occorre costruire incentivi non tanto alla cementificazione di provincia e montagna, quanto al mecenatismo e alle reti di patrimonio “minore”. Quarto, la rigenerazione urbana con caratteristiche culturali produce nella migliore delle ipotesi gentrificazione e nella peggiore lascia cattedrali nel deserto. Nel primo caso, il regolatore pubblico non deve favorire speculazioni immobiliari (premessa alla gentrificazione e poi alla turistificazione) imponendo che siano garantiti spazi e servizi pubblici a livello di quartiere (verde, scuole, sanità territoriale, trasporti) e affitti a canoni calmierati. Nel secondo caso, chi concede le autorizzazioni al recupero di edifici o aree deve richiedere un piano gestionale che indichi chiaramente la sostenibilità economico-finanziaria dei progetti di trasformazione almeno nel medio periodo. Il proliferare di generici contenitori culturali e incubatori di impresa creativa ha dimostrato scarsa capacità di visione più che la nascita di reali opportunità occupazionali o formative per i giovani.
Settori strategici e lavori essenziali
Stato, si è parlato tanto di Stato in questo anno pandemico segnato dalla più grande tragedia collettiva dopo la Seconda Guerra mondiale. Si è parlato di Stato come garante, come fornitore, come presente, come responsabile, come vicino, uno Stato che si sarebbe dovuto fare carico dello shock pandemico e garantire equità, uno Stato che avrebbe permesso di coordinare gli sforzi decentralizzati e di costruire una salvaguardia collettiva. Meno si è parlato di quanto e come queste promesse siano state fallimentari e di come dopo un anno dalla pandemia il ruolo dello Stato e delle istituzioni comunitarie sia risultato in larga parte inadeguato nel centralizzare le produzioni, le forniture e gli approvvigionamenti e nel tentare di garantire protezione sociale universale. Dopo anni in cui il capitalismo globale si è definito sull’onda dell’abbondanza, del sovrappiù e dello spreco, rientrano dalla finestra spettri lontani come la crisi da sotto-produzione, crisi da offerta, una nozione remota nella maggior parte delle analisi del sistema produttivo basato sulla specializzazione e sull’accumulazione.
Al più, il capitalismo produce in eccesso non in scarsità, questa la vulgata, eppure abbiamo visto nell’ultimo anno tante nuove crisi da offerta. Crisi da assenza di mascherine, di respiratori, di test diagnostici, di reagenti, di farmaci, crisi da produzione di vaccini. Ma ancor di più, crisi di forza lavoro. E per capire queste crisi da offerta occorre inquadrarle all’interno di un ventennio in cui il tessuto produttivo italiano ha trasferito all’estero gran parte delle competenze centralizzate nei settori a più alto contenuto di conoscenza, a partire dal chimico, dal farmaceutico e dalle macchine utensili. La tendenza a rilocalizzare all’estero attività produttive definite “strategiche” è coesistita con la perpetuata dequalificazione e sotto-remunerazione di quella forza lavoro che mai era stata considerata come rilevante e che è tornata alle cronache con la nozione di essenziale. Accanto al lavoro essenziale è poi emerso il lavoro “non essenziale”, in primis quello dello spettacolo, della cultura, del tempo libero, uno dei segmenti più ferocemente colpiti dai vari lockdown e dall’assenza di strategie di protezione universale del reddito e di aperture pianificate. Il contraltare è stato lo spostamento massivo verso la terziarizzazione a bassi salari, che nella vulgata prepandemica è sempre stata considerata, e di fatto continua a esserlo all’oggi, forza lavoro a basso contenuto di valore, generalmente assorbita dalle cooperative della logistica, del settore di cura e di assistenza agli anziani, delle pulizie. Altra forza lavoro è mancata, forza lavoro nel comparto della sanità pubblica, anche esso vessato da almeno un decennio di taglio alla spesa sanitaria (Bramucci et al., 2020), rifunzionalizzato verso il mantra dell’ottimizzazione dei flussi e dei processi di lavoro, riorganizzato con il taglio dei reparti ad alto costo e a basso contenuto di profitto. Lo spazio lasciato vuoto dalla sanità pubblica, ri-ottimizzata verso un uso efficiente delle risorse, è stato assorbito da un privato predatore, che non si cura delle malattie sociali, che non si cura della malattie d’urgenza e che preferisce invece convogliare risorse nei reparti a più alta profittabilità e meno rischiosi.
E se chi legge si chiederà se il pubblico è per definizione meglio, lo stesso pubblico del malaffare e della corruzione, il pubblico del clientelismo e dell’inefficienza, si risponderà che il malaffare, la corruzione e l’inefficienza non sono caratteristiche dell’organizzazione pubblica in sè ma sono attributi delle organizzazioni, siano esse pubbliche o private, come mostrato dalle successioni di privatizzazioni, segnate da fallimenti aziendali, da stragi sociali e ambientali, da morti “senza causa” e da processi giudiziari spesso conclusi con assoluzioni. Ciò che distingue l’assetto pubblico da quello privato non riguarda la capacità organizzativa e l’inefficienza più o meno intrenseca ma molto più lo spazio di contendibilità e la messa in discussione di strategie di azione e di scelte, che se pubbliche possono essere contese, se private no. Ciò che distingue pubblico da privato è la possibilità di individuare, laddove necessario, responsabilità altrimenti diluite tra consigli di amministrazione, tra gerarchie nebulari, tra direzioni esecutive. E soprattutto ciò che distingue pubblico da privato è il fine ultimo, se volto a soddisfare l’interesse collettivo o l’interesse individuale.
Proponiamo un’agenda di intervento diretto in tre settori specifici al fine di proporre delle priorità rispetto alla più ampia nozione di politica industriale che spesso fatica a declinarsi in concreto.
1. Creazione di un’industria farmaceutica pubblica che sia in grado di fare ricerca e innovazione nelle aree di interesse a maggior rischio in termini di risultato, ma a maggiore contenuto innovativo e di risposta a bisogni collettivi, a partire dalla resistenza agli antibiotici, dai vaccini e dagli antiretrovirali.
L’arretramento della farmaceutica privata nel fare vere innovazioni rispetto alle mere replicazioni “me too” è stato ampiamente documentato. Anche se nella risposta pandemica abbiamo visto il fiorire di svariate tipologie di vaccini, risulta ormai evidente come le imprese farmaceutiche rispondano prima agli andamenti del prezzo delle azioni quotate, alla distribuzione dei dividendi e all’accumulazione dei profitti, e poi forse alla fornitura dei vaccini concordati addirittura con accordi secretati come nel caso di quelli acquistati della Commissione Europea. Si ricordi come se è vero che vi è stata una risposta nella produzione, questa è avvenuta attraverso un’iniezione massiva di finanziamenti pubblici. Nonostante ciò, i paesi occidentali non sono stati in grado di imporre una clausola di “compulsory licencing” che permetta il riutilizzo del brevetto sui vaccini senza incorrere alla violazione di diritti di proprietà intellettuale, fattispecie prevista in seno allo stesso WTO (art. 31 del TRIP) nel caso di emergenze nazionali, con buona pace dei proclami dell’OMS sul vaccino come bene pubblico globale. Per tutta risposta, UE, USA, Giappone e UK, tra gli altri, si sono opposti alla proposta avanzata da India e Sudafrica al tavolo del WTO per chiedere la sospensione dei brevetti sui vaccini e tecnologie ad esse associate COVID-19.
Vista l’ennesima dimostrazione della “benevolenza” di Big-Pharma verso il pubblico che l’ha finanziata, urge mettere in campo una proposta di produzione nazionale di farmaci contro crisi da produzione e inaccettabili monopoli intellettuali. Il caso del vaccino cubano è un esempio di come un vaccino sviluppato all’interno di laboratori di ricerca e prodotto in stabilimenti pubblici possa esistere.
L’industria farmaceutica italiana si posiziona prima in Europa per produzione, ma si tratta di un primato come conto terzi, in cui le imprese italiane, per quanto registrino alti volumi di fatturato e di esportazioni, sono responsabili di una o più fasi del processo ma non del bene finale. Il caso delle 29 milioni di dosi del vaccino AstraZeneca trovate ad Anagni, dove avveniva la sola operazione di infialatura (il “fill&finish”) per poi essere spediti all’estero per fasi successive, è un esempio archetipico del posizionamento dell’Italia come partecipante nella fase intermedia del processo di produzione. Tale caratteristica sta diventando un tratto comune tra i settori più avanzati della manifattura italiana e prelude al consolidamento di un nuovo modello di specializzazione produttiva, dal farmaceutico alla componentistica fino ai macchinari, si produce in conto terzi per imprese capo-filiera di altri paesi, spesso tedesche.
In sintesi: la farmaceutica italiana produce molto, ma largamente componenti intermedie per prodotti finali farmaceutici di altri paesi, ossia dipende dalle strategie di aziende farmaceutiche prevalentemente tedesche e statunitensi.
Occorre investire in un’industria farmaceutica pubblica capace di fare ricerca e innovazione in aree poco profittevoli per il privato ma necessarie per la salute collettiva e per creare lavori di qualità. Occorre inoltre un disegno strategico coerente con il tessuto produttivo italiano che va dall’occupazione alla produzione di beni finali essenziali. Di fatto, la produzione di farmaci non può prescindere dall’indotto sottostante di fornitura di apparecchi, macchine utensili e di precisione, strumentazione da laboratorio, reattori necessari alla sperimentazione e produzione. Questi prodotti possono e devono essere realizzati da un’industria pubblica anche per ovviare ai problemi ampiamente verificatisi durante la pandemia di esportazione all’estero diretta verso il miglior offerente. Per la natura di settore verticalmente integrato con tutto il sistema produttivo e per la sua capacità di stimolare innovazioni e attivare buona occupazione, una nuova politica industriale non può prescindere da una strategia mirata e radicale sull’industria farmaceutica.
Prima il passaggio di FIAT a FCA nel 2014 e adesso la nuova acquisizione da parte di PSA con la formazione del neo-gruppo Stellantis raccontano di una imperdonabile assenza del ruolo dello Stato nell’influenzare le traiettorie di ricerca e sviluppo, i piani occupazionali, la progettazione dell’automobile italiana e non da ultimo la proprietà. Oltre il romanticismo verso il mito dell’automobile, l’Italia, quando confrontata con gli altri due principali paesi europei produttori di auto (Francia e Germania) manca sistematicamente di partecipare con quote proprietarie, con capacità di indirizzo e controllo e perfino di un semplice piano per l’automobile[8]. Da ultimo, si conferma l’assenza di proprietà di azioni, ad esempio detenute dalla Cassa Depositi e Prestiti, nella formazione del nuovo gruppo a regia francese, il cui governo detiene il 6,2% attraverso la banca pubblica BPI France. Ciò non stupisce da parte dello stesso governo che nel Maggio 2020 ha concesso un prestito di 5 miliardi di euro all’ancora FCA senza alcun tipo di garanzia sulla tenuta occupazionale e su un piano di investimento. Ciò che manca da anni alla ex-FCA, i cui piani di sviluppo e innovazione tecnologica sono sempre stati subordinati a quelli finanziari, sono prodotti nuovi da produrre secondo una traiettoria eco-compatibile. Tutti gli stabilimenti ex-FCA in Italia operano infatti in media al 55% della capacità produttiva, eccetto Sevel che produce il Ducato, e da ormai una decina di anni fanno un ricorso costante alla cassa integrazione. L’assenza di nuovi modelli da poter realizzare mostra in primis l’assenza di competenze del saper pensare e innovare.
Oltre a Stellantis, la produzione di automobili e moto italiane si concentra nel lusso, in particolare con Lamborghini e Ducati dentro il gruppo AUDI. Anche in tal caso, assente è una politica industriale, se non con qualche toppa messa dall’intervento regionale. L’ultima traccia di strategia industriale nazionale, se così la si vuole definire, è il piano Industria 4.0 il cui risultato più che l’adozione di tecnologie all’avanguardia ha visto le imprese largamente ricorre a investimento in sicurezza digitale (ISTAT, 2020) ed è finito per rafforzare le asimmetrie regionali tra nord e sud Italia.
Urge, anche in luce delle nuove ristrutturazioni aziendali avvenute nel gruppo ex-FCA, una politica industriale nel settore dell’automobile che veda il ruolo dello Stato come garante dell’interesse pubblico, in primis nella tutela e garanzia dell’occupazione, oltre l’uso della cassa integrazione, e capace di dare direzione e indirizzo sul cosa fare e con quali tecnologie, a partire dall’elettrico e dalla mobilità integrata, oggetti non in discussione tra le stanze dei palazzi governativi all’oggi.
Una politica salariale per un lavoro di cura pubblico in grado di riqualificare il lavoro nei servizi veramente produttivi. Proiezioni del Bureau of Labor Statistics prevedono per gli Stati Uniti nei prossimi dieci anni che 6 tra le principali 10 occupazioni in crescita saranno nel settore sanitario e della cura e non è difficile immaginarsi proiezioni simili per l’Italia.
E’ possibile lasciare al privato dei gruppi sanitari da una parte e alle cooperative dall’altra la gestione di malattie collettive e del lavoro di assistenza? Gli ultimi dieci anni di austerità e di privatizzazioni ci hanno ridotti all’incapacità di gestire la malattia attraverso un sistema sanitario e socio-assistenziale distribuito, decentralizzato e capillare. L’unica distribuzione è stata quella del potere dell’autonomia delle Regioni, che sulla base di un presunto principio di sussidiarietà, ha enormemente contribuito alla creazione di disparità nei trattamenti e nell’accesso alle cure.
Se la manifattura rappresenta la fonte di innovazione con ricadute positive per tutto l’assetto produttivo, è però altrettanto vera la centralità dei lavori di cura dimostrata dall’andamento effettivo dell’occupazione. Tali lavori sono essenziali nel soddisfacimento di bisogni e in quanto tali una politica industriale non può ignorarli, ma prenderne atto, legittimarli e dare loro dignità.
Assorbire il lavoro di cura con occupazione pubblica deve essere prioritario, unendo la creazione di infrastrutture di welfare con una nuova idea di democrazia orientata ai bisogni collettivi[11]. A ciò si associa una necessaria riforma della politica salariale che richiede con urgenza l’introduzione di un salario minimo, che lungi dall’essere il grimaldello contro la contrattazione sindacale, può essere configurato in coesistenza a essa. Insieme al salario minimo, occorre l’estensione dei contratti sindacali erga omnes (purché essi siano superiori a un minimo concordato per legge) al fine di rompere l’ingiusta e intollerabile asimmetria nelle retribuzioni tra settori (INPS, 2020). Cura pubblica non solo per l’umano, cura anche per il territorio martoriato che urge un piano massivo di risanamento e bonifica, anche con l’utilizzo della migliore tecnologia robotica a disposizione, in grado di sostituire l’umano sì, ma nelle funzioni veramente rischiose, sottraendo la gestione e lo smaltimento alle mafie e alle istituzioni corrotte.
Se di un’acquisizione di spazio pubblico si è discusso, si vuole anche sottolineare come non esiste alcuna triviale equazione “pubblico=bello”, “pubblico=giusto”, “pubblico=sostenibile”. Oltre a più pubblico e meno privato nella gestione degli interessi collettivi, si richiede un completo ripensamento delle strutture di governance delle amministrazioni e dei processi decisionali: poco conta essere rappresentati con un membro dentro al consiglio di amministrazione di un’azienda di stato o provare a esercitare timidamente una golden share se tali rappresentanze non sono portatrici di interessi non di Stato ma collettivi. E alla costruzione di un immaginario collettivo e razionale, che sappia mettere in discussione la naturalità e l’a-storicità del capitalismo mostrandone invece l’irrazionalità e l’essere predatorio si rimanda con urgenza e necessità.
TERRITORIO E GOVERNO LOCALE
Mezzogiorno e divari regionali
Nel primo ventennio del XXI secolo il Mezzogiorno ha subito un processo di marginalizzazione sociale, economica, civile. Le distanze aggregate tra Nord e Sud si sono allargate e sono cresciute anche le disparità interne al Mezzogiorno tra città e aree interne, tra regioni, tra poli urbani e paesi. Perché il Sud arretra? Una prima ragione è da ritracciare nelle grandi trasformazioni politiche, economiche, geografiche e demografiche post-novecentesche. Il dominio del liberismo ha implicato un ridimensionamento del ruolo dello Stato e delle politiche pubbliche, a scapito delle privatizzazioni e del mercato, e una disattenzione al tema delle disuguaglianze tra persone e tra territori. Con la caduta del Muro e l’allargamento dei primi anni del nuovo secolo, il baricentro della geografia produttiva europea si è progressivamente spostato verso Nord-Est e, conseguentemente, anche le priorità dell’Ue, aggiustamenti che penalizzano soprattutto le regioni deboli dell’Europa meridionale. La diffusione delle catene globali del valore, favorite dalle connessioni informatiche e dalla riduzione dei costi di trasporto, hanno indotto il decentramento di fasi intermedie di svariate produzioni nei paesi invia di sviluppo, che hanno spiazzato molte regioni a “sviluppo intermedio”, quelle che subiscono un doppio svantaggio competitivo: dalle aree con bassi costi del lavoro e da quelle economicamente avanzate. Ha inciso e inciderà sempre più la transizione demografica, in particolare i saldi naturali negativi nell’intera Europa, e le correlate riduzioni delle forze di lavoro e aumento degli indici di dipendenza, per cui l’incremento demografico dipende dalle migrazioni, che per ragioni economiche tendono a dirigersi verso le regioni e le aree urbane più forti e sviluppate. In questo nuovo scenario, l’Italia e le sue singole regioni hanno perso terreno rispetto alla media Ue, in modo più accentuato quelle del Sud. La grande recessione del 2008 e la pandemia del 2020 hanno aggravato le cause strutturali della decrescita meridionale, non facili da mutare senza un’inversione radicale delle politiche pubbliche. La difficoltà principale è il basso tasso di occupazione, in particolare per giovani e donne, che si associa alla crescente precarizzazione e alle basse retribuzioni. La diffusione di sommerso e lavoro nero, delle occupazioni sottopagate e sottotutelate e dei sussidi pubblici spiegano la resilienza sociale meridionale, anche in anni di dura crisi economica.
Seppure meno articolato del passato, il Mezzogiorno continua ad essere una grande regione europea alquanto differenziata al suo interno. Il Sud non è una landa desolata, né un mero luogo d’elezione di assistenzialismo, clientelismo, devianze criminali e mafiose. Il Sud non è un’area altera, patologicamente malata e dissonante bensì un pezzo ordinario d’Italia, con limiti e criticità maggiori rispetto al resto del paese. Iniziative produttive di qualità e filiere di produzione sono attecchite da tempo nel Mezzogiorno e altre se ne aggiungono gradualmente. Abbigliamento-moda, alimentazione, aeronautica e auto sono comparti manifatturieri meridionali di grande rilevanza nel panorama industriale nazionale, con imprese innovative e dinamiche. Anche nel settore agricolo del Sud sono radicate aree di specializzazione e aggregati produttivi importanti, sempre più nel segmento delle produzioni biologiche e certificate. Non mancano neppure esperienze e poli turistici di qualità e nuclei di terziario innovativo, specie attorno alle università e ai centri di ricerca. L’insieme di queste esperienze tuttavia non riescono a permeare il Mezzogiorno e a strutturarlo come un’area economica e sociale robusta e resiliente. Innanzitutto perché il dinamismo meridionale di territori, poli e imprese è alquanto circoscritto e poco diffuso e, in secondo luogo, perché molto spesso si tratta di esperienze scollegate le une dalle altre e che dunque non riescono a configurarsi come massa critica. D’altro canto, le politiche pubbliche, anche se fortemente ridimensionate, hanno continuato a sostenere e incentivare le singole iniziative, quasi mai il loro addensamento in sistemi interconnessi, funzionali, territoriali. Se per lunghissimi decenni post-unitari la “questione meridionale” si è riassunta in povertà e angustie materiali, oggi mostra soprattutto il volto del deficit di cittadinanza. La dotazione e la qualità dei servizi pubblici essenziali nel Sud sono di gran lunga inferiori al resto del paese. Le scuole, gli ospedali, i trasporti, i servizi socio-assistenziali sono, in media, meno diffusi e meno efficienti nel Sud, alimentando la bassa qualità della vita quotidiana dei meridionali e lo spopolamento. Queste carenze di servizi essenziali sono più marcate nelle aree interne e nelle comunità più piccole e remote, nonostante coprano quote di territorio e di popolazione rilevanti. In Italia, più che altrove, la qualità del welfare è strettamente connessa alla situazione economica: i cittadini delle regioni più ricche, per lo più al Centro-Nord, possono godere di servizi di cittadinanza più estesi e migliori, diversamente i cittadini delle regioni economicamente svantaggiate, per lo più al Sud, devono accontentarsi di servizi e di infrastrutture civili per la quotidianità di gran lunga inferiori. Il divario civile è molto più grave e intollerabile di quello economico: in uno stesso Stato unitario, come il nostro, tutti i cittadini, a prescindere da dove vivono e dal livello del loro reddito dovrebbero, per Costituzione, poter usufruire, in quantità e standard, degli stessi servizi essenziali. Al contrario, la realtà presenta un’asimmetria accentuata e crescente tra i servizi collettivi di base a disposizione degli italiani del Nord e di quelli per gli italiani del Sud, un’odiosa segmentazione della cittadinanza che rischia di aggravarsi ulteriormente se sciaguratamente andasse in porto il cosiddetto “regionalismo differenziato”, ma anche se non si modifica radicalmente l’impianto tecnocratico e top-down del Pnrr.
Il Mezzogiorno, derubricato da tempo a mero problema locale emergenziale, può ritornare ad essere questione di interesse nazionale soltanto attraverso un’inversione dello sguardo: guardare l’Italia tutta dal Sud, le città metropolitane dalle aree interne e dai piccoli paesi di montagna e di collina, l’Europa dal Mediterraneo, il Nord dal Mezzogiorno, il centro dal margine. Non una semplice e meccanica inversione della direzionalità dell’osservazione, bensì un nuovo modo di guardare al tutto dai luoghi e dalle persone marginalizzate da un sistema economico capitalistico e da politiche liberiste divisive, polarizzanti, squilibranti. Se si abbandona la postura, analitica e politica, dominante, il Mezzogiorno, parafrasando Carlo Azeglio Ciampi, appare come il luogo con la più promettente “riserva di futuro” per l’Italia. I giovani, i porti, le produzioni alimentari biologiche e di nicchia, il Mediterraneo, il sole, il mare, il vento, i paesi, l’Appennino, la musica, i boschi, il cinema, la letteratura, sono risorse di “futuro” relativamente abbondanti nel Mezzogiorno e, spesso, relativamente scarse altrove. Se riconosciute, in primo luogo dai meridionali, come risorse “abilitanti” per il cambiamento, e se valorizzate in modo integrato in una visione politica nazionale nuova, consentirebbero di ripensare uno sviluppo “dal volto umano” per il Sud e per l’Italia.
Il Mezzogiorno potrà essere la riserva di futuro dell’Italia se ritorna al centro dell’attenzione pubblica nazionale. Servono innanzitutto casematte simboliche, segni tangibili di inversione di rotta. Prima ancora di trasferimenti finanziari, di politiche territoriali, di sostegno ai soggetti istituzionali locali. L’innovazione più grande è incoraggiare speranza e mobilitazione, cancellando provvedimenti simbolo della marginalizzazione del Sud e promuovendo, nel contempo, azioni a sostegno delle istituzioni e delle popolazioni più fragili ma con elevate potenzialità di cambiamento di sistema.
La prima cancellazione è relativa al regionalismo differenziato, condizione indispensabile per affermare che i diritti di cittadinanza di ogni italiano non possono essere differenziati, che il benessere collettivo e le infrastrutture fondamentali della vita quotidiana non sono legati né al reddito né alla geografia, che l’Italia è un paese unito e che per costituzione i ceti sociali ricchi, a prescindere dalla loro collocazione territoriale, contribuiscono solidariamente a sostenere i ceti svantaggiati.
Una seconda cancellazione riguarda il paradosso del Pnrr di finanziare i bisogni attraverso bandi “competitivi”, che implica che le amministrazioni pubbliche più strutturate sotto il profilo progettuale e gestionale catturino risorse indipendentemente dal livello dei bisogni sociali. E’ già successo che Comuni già dotati di strutture e servizi per l’infanzia abbiamo “vinto” finanziamenti per realizzare nuove strutture mentre Comuni del tutto sprovvisti di tali servizi, a ragione della loro debolezza organizzativa, non sono riusciti a “vincere” la competizione. Con il risultato che un Piano destinato nelle intenzioni a ridurre le distanze finisce per rafforzarle. I bisogni non si mettono a bando, vanno soddisfatti con strutture e servizi adeguati laddove mancano o sono carenti.
Il Mezzogiorno ha un disperato bisogno di rafforzare le amministrazioni comunali, fortemente depotenziate dai tagli e dai definanziamenti delle politiche di austerità dell’ultimo quindicennio. E’ necessario con urgenza un grande piano di reclutamento nei Comuni meridionali di centinaia di migliaia di giovani preparati e motivati: ingegneri, economisti, sociologi, informatici, botanici, agronomi, valutatori, animatori, esperi in gestione e rendicontazione di progetti. L’accanito darwinismo istituzionale degli ultimi anni ha impoverito la platea istituzionale nell’intero Paese e in modo più drastico nel Sud. I Comuni sono rimasti gli unici presidi istituzionali nel Mezzogiorno, a maggior ragione è dunque necessario un loro deciso rafforzamento attraverso una nuova leva di giovani tecnici, funzionari, amministrativi.
Il futuro del Mezzogiorno, e dell’Italia, è in larga parte legato al destino delle sue aree interne. Da decenni le classi dominanti, accecati dall’illusione urbano-centrica, hanno abbandonato le aree interne, condannandole alla progressiva desertificazione demografica e produttiva. La marginalizzazione di queste aree appenniniche ha implicato non solo la scomparsa di ecosistemi vitali, di saperi secolari, di produzioni di nicchia di qualità, di abilità rurali sedimentate, ma anche rischi crescenti per le città a valle, che si manifestano continuamente sottoforma di alluvioni e frane disastrose, di carenza di acqua, di tensioni e affollamento abitativi. Si è colpevolmente dimenticato che l’abbandono delle aree interne di collina e di montagna avrebbe portato con sé anche la scomparsa di diversificati beni pubblici di estrema utilità per le popolazioni di pianura. Per dare innanzitutto dignità ai restanti delle aree interne meridionali e per avviare processi del ripopolamento umano, sulla scia delle politiche attivate dalla Snai sarebbe assai utile sostenere le università meridionali in prossimità delle aree interne affinché avviino programmi di ricerca-azione in queste aree, di ricognizione di risorse e bisogni, di coinvolgimento attivo delle popolazioni locali, di fertilizzazione incrociata tra conoscenze contestuali e conoscenze scientifiche. Finanziamenti “ordinari” aggiuntivi alle università del Sud intenzionate ad abbracciare la missione civile della rinascita dei territori interni sarebbero utilissimi oltre che ai territori marginalizzati alle stesse università in termini di sperimentazione didattica e di ricerca, di relazioni cooperative tra centri e periferie, tra ricerca applicata di immediata utilità sociale.
Aree interne
L’Italia è il paese della diversità: il nostro tratto nazionale è la varietà territoriale. Questa non ci divide, ma ci unisce. I problemi di un Sindaco di un piccolo Comune nelle Alpi nord-occidentali, sono simili a quelli di un Sindaco di un piccolo Comune appenninico del centro-sud: demografia avversa, infrastrutture di cittadinanza deboli, mancanza di trasferimenti. Ma anche lontananza dalle scuole, dai presidi sanitari, dai trasporti: la logica dell’eccellenza e della concentrazione territoriale in pochi grandi “poli” non è adatta al nostro Paese. L’esigibilità dei diritti di cittadinanza richiede la presenza di infrastrutture di beni e servizi di qualità, economicamente accessibili, vicini alle persone e ai loro bisogni quotidiani. Possiamo anche dirla così: le aree interne rispondono a una “domanda di diversità”, ma per essere in grado di soddisfare questa domanda hanno bisogno di attenzione pubblica, politiche territoriali dedicate e riconoscimento politico-sociale. Vivere lontani dall’offerta dei servizi essenziali, crea “cittadini dimezzati”. Le aree interne italiane, inoltre, sono senza “voce” e prive di rappresentanza, svuotate della capacità di incidere sulla distribuzione delle risorse pubbliche. Pur essendo pari al 53% dei Comuni italiani, a più del 60% del territorio e a circa il 23% della popolazione, sono escluse dalla sfera pubblica. Tanto spazio, ma poco peso politico. Sono “mangiate” dal disegno dei collegi elettorali e sono state private delle uniche istituzioni intermedie che le rappresentavano, le comunità montane. La Legge “Del Rio” (legge n. 56/2014) sulle città metropolitane è un fallimento politico e istituzionale, che consegna all’irrilevanza il governo del policentrismo territoriale. Cosa abbiamo guadagnato dal sacrificio rituale delle istituzioni intermedie? L’antipolitica ha sacrificato le Province e le Comunità Montane, ma ha lasciato intatto la “casta” che voleva spazzare via. Il risultato è che un territorio complesso e articolato come quello italiano è stato consegnato a istituzioni lontane dai bisogni delle persone nei luoghi; con le Regioni, e le città metropolitane, delegate al ruolo di istituzioni intermedie, ma in modo del tutto inefficace e inconsistente. Quale immagine evoca la denominazione “città metropolitana”? Edifici, piazze e monumenti connessi da una rete di trasporto, sopraelevato e/o sotterraneo; conurbazioni segnate dall’alternarsi di case, capannoni e raccordi stradali; centri abitati con una elevata densità demografica che si estendono in aree pianeggianti. Ma quelle che oggi in Italia sono denominate città metropolitane sono, con pochissime eccezioni, costituite da percentuali rilevanti di Comuni montani e/o parzialmente montani. Genova, la “città di mare”, è parte dell’area metropolitana italiana con il più alto indice di montanità. Anche la città metropolitana di Torino è caratterizzata in grande parte da un territorio montano. Fatta eccezione per Milano e Venezia, 10 su 12 città metropolitane italiane sono costituite da percentuali importanti di Comuni classificati come montani o parzialmente montani; 6 (Genova, Roma, Reggio-Calabria, Messina, Palermo, Cagliari) hanno più del 50% di Comuni montani o parzialmente montani.
Questo esempio è paradigmatico di una situazione più generale: i territori del margine non sono rappresentati nelle scelte di investimento pubblico di lungo periodo, che sono invece ammaliate dalla difesa di posizioni di rendita di breve periodo a favore di pochi gruppi, individui o aree “polo”, con il consenso attivo della politica e della regolazione pubblica. Del resto, quale politico costruirebbe la sua carriera sul consenso di aree che non hanno peso elettorale? E quale comune di costa si metterebbe contro gli interessi “che contano”? E non sarà il “piccoloborghismo” esploso durante la pandemia a salvare le aree interne e montane. Come già per la cultura, l’evocazione del “borgo” fa sì che anche la valorizzazione del territorio sia tale solo se inglobata nella goffa egemonia del turismo petrolio d’Italia, che paga salari ridicoli e non lascia valore sul territorio. Nessuno sguardo di lungo periodo, nessuna attenzione per la vita quotidiana delle persone che in quei luoghi abitano o vorrebbero trasferirsi. Una narrazione falsa e selettiva, quella dei borghi, basata sulla bellezza come descrittore vuoto e con chiari connotati di classe e di potere.
Che fare, dunque? La Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) aveva individuato tre linee di intervento, che vanno oggi potenziate e valorizzate:
a. Tutela del territorio e sicurezza degli abitanti;
b. Promozione della diversità culturale/naturale e del policentrismo;
c. Rilancio dello sviluppo attraverso l’uso di risorse non sfruttate o utilizzate male.
La tutela del territorio e dei suoi abitanti deve passare proprio attraverso questi ultimi: i cittadini delle aree interne devono essere messi in grado di acquisire conoscenze tali da poter promuovere e svolgere le attività di messa in sicurezza del territorio attraverso un’ordinaria attività di manutenzione, che la popolazione avrà interesse ad attuare proprio perché ne trarrà dei vantaggi. La tutela e la conservazione infatti non sono più delle azioni “passive”, cioè degli obiettivi da perseguire attraverso il non intervento, il “lasciare tutto com’è”; la tutela deve passare, anzi, attraverso l’azione intelligente dell’uomo sul proprio territorio al fine di conservarlo, restituendo alle comunità locali il compito della sua tutela. Il neo-popolamento vocazionale e le strategie per attuarlo, quindi, sono al centro dell’azione. Oltre all’interesse, le popolazioni delle aree interne devono anche possedere le conoscenze necessarie per attuare l’attività di tutela e conservazione del territorio. Tali conoscenze sono il frutto dell’ibridazione tra saperi locali e centri esterni, tra dimensione tacita e dimensione formale, tra tradizione e nuove tecnologie. Conoscenza e interesse, infine, rimandano ai regimi proprietari e ai diritti di proprietà delle risorse fondamentali: cosa implica, esattamente, l’azione di tutela e conservazione da parte delle comunità locali in termini di diritti di proprietà? Non sono sufficienti diritti individuali ben disegnati. Trattandosi di beni comuni (terra, acqua, paesaggio, conoscenza locale), è necessario disegnare diritti di proprietà collettiva e soluzioni condivise e di “messa in comune” delle risorse locali. Inoltre, la cura dei beni e dei servizi “fondamentali” (casa, lavoro, trasporti, scuola, salute) deve essere al centro di politiche per l’abitabilità quotidiana dei luoghi. Disegno istituzionale a misura di territorio, risorse umane ed economiche dedicate, procedure veloci ed efficaci, nuove strutture organizzative di attuazione e dialogo forte tra amministrazione e politica: una politica territoriale per le aree interne pone questioni di interesse generale per il Paese nel suo insieme.
Accoglienza
Nel 2015, dopo gli esiti tragici delle “Primavere arabe”, un significativo flusso di profughi dal Nordafrica verso l’Europa era prevedibile. Eppure, il nostro Paese si fece cogliere impreparato: a prevalere fu la lettura emergenziale del fenomeno e, quindi, la scelta politica di allestire grandi hotspot e centri di accoglienza ad hoc, spesso situati ai margini di aree metropolitane già gravate da disagio socio-economico e crescente insofferenza verso gli stranieri.
Nonostante ciò, in particolare tra il 2015 e il 2018, si è realizzata una significativ redistribuzione dei richiedenti asilo sul territorio nazionale dagli effetti in gran parte imprevisti. Nel quadro di una politica nazionale di ricollocamento che mirava a sgravare le grandi città del peso della accoglienza e grazie alle capillari iniziative dei sindaci e della società civile – che hanno saputo leggere le opportunità offerte da quella situazione, convertendo lo svantaggio in risorsa – siamo giunti ad avere nel 2018 oltre il 40% dei profughi ospitati in aree interne, spesso in piccoli progetti legati all’allora sistema SPRAR. Come documentato dalle ricerche condotte in quegli anni – tra cui lo studio sui “montanari per forza” realizzato da Dislivelli (Dematteis, Di Gioia e Membretti, 2018) e la ricerca sugli “Alpine Refugees” condotta dal network ForAlps (www.foralps.eu; Perlik et al. 2019), proprio queste aree sono state spesso in grado di fare leva sull’arrivo dei rifugiati per ridare linfa a comunità stremate dal punto di vista demografico, economico e sociale.
Il sistema dell’accoglienza diffusa ha saputo valorizzare i richiedenti asilo come leva di sviluppo locale, grazie alla sinergia tra i fondi statali per l’ospitalità (utilizzati a favore delle comunità nel loro complesso) e le capacità di innovazione dimostrate dai soggetti territoriali (Membretti, Kofler e Viazzo, 2017): riattivazione di economie circolari, creazione di piccole cooperative di lavoro, manutenzione dei beni comuni, servizi di prossimità per gli anziani, formazione professionale indirizzata alle vocazioni territoriali; ma anche mantenimento degli sportelli postali, del trasporto pubblico locale, di piccole scuole a rischio di chiusura. La presenza dei rifugiati nelle aree interne ha generato un impatto globalmente positivo per le comunità ospitanti (come analizzato in questi ultimi anni dal progetto europeo MATILDE: www.matilde-migration.eu), senza nascondere alcuni elementi di criticità: dove sono mancati interventi e politiche di radicamento locale, legati al lavoro e alle relazioni sociali, tanti infatti sono gli stranieri accolti che alla fine si sono spostati in città.
Eppure il nesso tra accoglienza degli immigrati – rifugiati così come migranti “economici” – e sviluppo territoriale non è stato messo al centro di alcuna politica nazionale negli anni a seguire: anzi, una nuova retorica politica ha finito con l’imporsi, propagandando con violenza l’equazione tra rifugiati/immigrati e costo sociale, tra immigrazione e minaccia per la società. Lo smantellamento del sistema SPRAR, la denigrazione e poi l’attacco giudiziario al caso emblematico di Riace, la totale indifferenza verso le morti nel Mediterraneo sotto la bandiera del respingimento ad oltranza, sono alcuni dei principali passaggi che ci hanno portato a non aver fatto tesoro di quelle esperienze positive; perlomeno non a livello di Stato centrale.
Considerare al contrario gli stranieri che arrivano in Italia una risorsa e non un problema, – soprattutto in alcuni territori a rischio di collasso demografico, come quelli interni – vuol dire:
1) considerare il fenomeno immigratorio in un’ottica win-win, di mutuo beneficio per i migranti e per le comunità locali delle aree interne, superando l’approccio emergenziale a favore di una politica strutturale e place-sensitive della accoglienza.
2) valutare in modo multidimensionale e fondato su basi dati attendibili il contributo dei nuovi abitanti allo sviluppo locale di questi territori, per conoscere gli aspetti su cui si può intervenire e favorire nel contempo una corretta analisi del fenomeno, nonchè una informazione non ideologicamente viziata.
3) promuovere la partecipazione attiva e agency dei nuovi abitanti stranieri, per favorirne il radicamento territoriale e l’esercizio concreto dei diritti di cittadinanza, evitando che siano portati a lasciare le aree interne per spostarsi altrove.
Rispetto al primo punto, è fondamentale disegnare le politiche – anche quelle migratorie – nei luoghi, sulle base anche delle esigenze dei nuovi abitanti, che possono, insieme ai residenti, chiedere migliori servizi, alzando così la capacità negoziale dei territori stessi, a partire da una maggiore massa critica raggiunta. E’ importante nel contempo raccontare pubblicamente, sulla base dei molti dati qualitativi ormai a disposizione e dentro una narrazione che ribalti quella basata sulla disinformazione, che nei comuni piccoli e interni le esperienze positive di accoglienza di migranti sono state molte e spesso vincenti, grazie al lavoro dei sindaci e della società civile. Un ribaltamento di prospettiva, che guardi alla migrazione come fenomeno strutturale che deve essere oggetto di politiche della complessità, in grado di coniugare inclusione e resilienza, dentro modelli di sviluppo sostenibile e di governance che valorizzino il potenziale delle aree interne non solo in termini di accoglienza ma anche come laboratori di innovazione socio-economica, basata proprio sulla sinergia tra i diversi tipi di abitanti.
Il secondo insieme di policy da costruire riguarda il tema della valutazione di impatto della presenza immigrata: a fronte di una carenza di dati utili e pertinenti, soprattutto a scale territoriali minori come quelle tipiche delle aree interne, sono importanti le opportunità legate al nuovo sistema del censimento permanente, in grado nel prossimo futuro di produrre dati sempre aggiornati sugli andamenti della popolazione nel suo complesso, e dei vari segmenti di interesse. Nel contempo, la crescente mobilità (interna, circolare, temporanea, permanente, ..) delle persone, a partire dai migranti internazionali che giungono in aree rurali e montane del paese da quelle urbane, mette in luce la necessità di seguire in modo puntuale e articolato tutte queste persone nei loro spostamenti (interni al paese come internazionali, quali quelli legati al lavoro stagionale), accentuando la connessione tra informazioni personali e posizione nello spazio, per cogliere (e quindi cercare di governare) i flussi nella loro complessità e multi-direzionalità.
Il terzo ambito di policy su cui intervenire è quello della agency e della partecipazione attiva degli immigrati stranieri alla vita locale nei contesti di arrivo. Le politiche su cui investire sono dunque quelle in grado di favorire il pieno radicamento dei nuovi abitanti stranieri, dentro processi che favoriscano nel contempo la partecipazione e il protagonismo di comunità locali oggi spesso marginalizzate. Politiche di negoziazione, anzitutto, che puntino a mediare e a costruire congiuntamente orizzonti di sviluppo comune, centrati sulla reale condivisione di responsabilità rispetto al presente e al futuro dei territori e delle comunità, da considerare come beni comuni. In questo senso, risultano centrali i temi dell’accesso (regolare e tutelato) degli stranieri al mercato del lavoro (a fronte di una normativa nazionale che strozza le possibilità di ingresso nel paese per ragioni lavorative) e alla casa (oggi paradossalmente bene raro, anche in aree interne spopolate) ma anche la messa in campo di percorsi formativi specifici in grado di valorizzarne le competenze e le attitudini professionali, in linea con le vocazioni locali e i saperi delle aree interne.
Si apre allora oggi, proprio in una situazione di crisi socio-economica, ambientale e geo-politica globale, una importante occasione per rivitalizzare il sistema della accoglienza diffusa dei migranti, privilegiando le aree interne come laboratori di cittadinanza e di innovazione. Immobili sotto utilizzati o dismessi che si possono riqualificare, comunità in sofferenza demografica che possono essere ringiovanite, servizi territoriali che possono trovare nuovi utenti: accogliere i migranti nei piccoli comuni delle aree interne – nel quadro di un piano nazionale che sappia coniugare emergenza e programmazione, solidarietà e sviluppo locale, e che riconosca il protagonismo degli abitanti di questi territori – può essere dunque una azione lungimirante. Se le città resteranno probabilmente il primo polo di inserimento degli immigrati stranieri, tuttavia, proprio a partire dalla accoglienza diffusa in aree interne, abbiamo oggi la possibilità di aprire una pagina nuova, investendo sull’accoglienza per perseguire processi duraturi di innovazione economica, sociale e istituzionale, favorendo inoltre un rinnovato legame tra aree urbane e territori rurali.
Agricoltura
Non c’è settore dell’economia contemporanea che meglio dell’agricoltura industriale mostri l’esaurimento storico del modo di produzione capitalistico, la sua incompatibilità, drammaticamente crescente, con gli equilibri del pianeta. Così come non c’è ambito che meglio della produzione agricola mostri un’alternativa materiale già in atto, un nuovo modo di fare economia, capace di rigenerare la terra, rispettando l’ambiente, tutelando il lavoro. Quando parliamo di agricoltura industriale ci riferiamo più esattamente al sistema mondiale di produzione del cibo. Quindi comprendiamo anche gli allevamenti intensivi, la stabulazione di diverse decine di miliardi di buoi, maiali, polli che occupano oltre il 30% della superficie arabile della Terra e richiedono una pari estensione per coltivare soia, mais, orzo, etc., destinati alla loro alimentazione. Dunque un immensa superficie sottratta alla produzione agricola per l’alimentazione umana, ma al tempo stesso, una gigantesca fonte di contaminazione delle risorse idriche, dei suoli fertili, di produzione di metano, un potente gas climalterante.
Quando si fa cenno agli squilibri ambientali provocati dall’agricoltura industriale ci si limita di solito a rammentare che essa contribuisce per almeno il 30% al riscaldamento globale. Si tratta di una valutazione superficiale, utile al ceto politico e agli ambienti scientifici di supporto, che pensano di risolvere i problemi attraverso l’innovazione tecnica, in questo caso cambiando le fonti di energia. Mostriamo quindi brevemente e per cenni che il sistema mondiale di produzione del cibo sta letteralmente distruggendo la Terra.
Il primo aspetto da ricordare è che il modo estrattivo di produrre beni agricoli, con l’uso sistematico di concimazione chimica, diserbanti, fitofarmaci, nel corso degli anni isterilisce il suolo e lo espone all’azione distruttiva degli agenti climatici. Si calcola che ogni anno si perdono nel mondo tra 10-12 milioni di terre fertili. Dunque l’agricoltura capitalistica distrugge progressivamente le basi stesse della propria economia. Non basta. Il modello attuale di produzione e allevamento consuma almeno il 70% delle risorse idriche del pianeta. Si tratta di un sistema introdotto dagli USA negli anni ’50, con la cosiddetta Rivoluzione verde, che ha elevato la produttività dell’agricoltura attraverso tre leve: sementi ibride, concimazione chimica, irrigazione. Tale modello si è imposto a livello globale. E’ stato calcolato che tra il 1950 e il 1985 la produzione agricola mondiale misurata in grano è cresciuta del 250%. Ma nello stesso tempo gli input di energia impiegati sono aumentati del 5000%. Una sproporzione gigantesca. Per 10,000 anni l’agricoltura ha prodotto energia in forma di cibo e di fibre, consentendo al genere umano di crescere ed espandersi, ora la consuma in proporzioni gigantesche. Occorre aggiungere che non si tratta solo di sperpero. Dobbiamo considerare anche i danni economici, ambientali, sociali prodotti da tale sistema. La concimazione chimica, ad esempio, contamina le falde idriche coi nitrati, imponendo ai comuni i costi della depurazione, ma col tempo ha mostrato danni più vasti. L’azoto e il fosforo trascinati dai fiumi nei mari e nei laghi provoca l’eutrofizzazione delle acque e uccide, per carenza di ossigeno, ogni forma di vita. Negli anni sono emerse le cosiddette dead zone, le zone morte, come quelle del Golfo del Messico o del Mar Baltico, ma si calcola che nel mondo almeno 20.000 Km2 di baie marine sono colpite dal fenomeno con danni rilevanti alle popolazioni costiere che perdono l’economia della pesca.
Ma anche le nostre popolazioni perdono economie. L’avanzare delle monocolture industriali e la pressione dei supermercati hanno fatto scomparire in europa una moltitudine di contadini, creando deserti territoriali. Nell ‘Europa a 28, tra il 2003 e il 2016, sono stati abbandonati 27 milioni di ettari, l’Italia ha perduto il 46,8% delle sue imprese. Scompaiono i contadini e aumentano i braccianti immigrati che vivono in condizione di semi-schiavitù.
Per finire con l’esame dell’insostenibilità di questo modello rammentiamo che esso ha distrutto e continua a distruggere la biodiversità, sia naturale che agricola. Ma la biodiversità è il patrimonio genetico della Terra, la nostra più grande ricchezza, frutto dell’evoluzione naturale e del millenario lavoro di selezione dei contadini. Poco meno di un secolo fa avevamo migliaia di varietà di riso, di grano, di patate, di mele, di pere, di viti, oggi ne abbiamo poche decine, perché l’agricoltura industriale ha selezionato quelle più produttive e più adatte ai trasporti.
Ma tale uniformità genetica, caratteristica delle monocolture specializzate, costituisce un impoverimento grave, ogni nuova malattia distrugge tutto il raccolto, come avviene coi virus negli allevamenti intensivi, e al tempo stesso non fornisce difesa alle piante di fronte al caos climatico.
A tale economia suicida c’è alternativa. Da decenni l’agricoltura biologica e biodinamica, la permacultura, e altre pratiche che riprendono la policoltura contadina, sono in crescita in tutte le regioni del mondo. Oggi l’agroecologia è il termine che abbraccia questi modelli di agricoltura, che sono spesso il frutto della collaborazione tra scienziati e contadini, i quali fronteggiano le avversità climatiche e dei parassiti tramite la mescolanze dei semi e delle piante, esaltando la biodiversità. Queste nuove economie rigenerano costantemente la fertilità dei suoli, non utilizzano i concimi chimici, ma il letame animale e il compost. Conservando e arricchendo la sostanza organica, che significa immagazzinare carbonio, le piante hanno bisogno di poca acqua, resistono più efficacemente alla siccità. Gli imput energetici crollano e gli interventi chimici si riducono enormemente o scompaiono. Al tempo stesso i prodotti sono incontaminati e superiori per qualità a quelli industriali.
L’Italia è seconda solo alla Spagna, in Europa, per le superfici coltivate a biologico, con 1 milione 800 mila ettari, il 15% della superfice coltivata. E giova ricordare che tanto l’agricoltura biologica che quella biodinamica si inscrivono oggi all’interno del progetto Green Deal. Europa primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.Dunque l’agricoltura alternativa rappresenta un fronte in espansione perfino dentro i regolamenti dell’Europa neoliberista, per la forza intrinseca che ha il modello agroecologico, per il favore crescente che i cittadini, come in USA, in America Latina e in altre parti del mondo, accordano ai beni agricoli sani dell’agricoltura senza chimica.
Proposte
1)Assegnare un reddito di presidio ambientale a tutti i piccoli coltivatori europei collocati in collina e in montagna.
2) Accordare alle regioni la possibilità di fissare un prezzo minimo di acquisto delle principali derrate stagionali (pomodori, arance, ecc.) da parte delle grandi catene di distribuzione.
3) Una legge di sostegno per la formazione di cooperative di vendita che raccolgano le produzioni disperse dei piccoli coltivatori.
Politica agricola, economia contadina e svolta ecologica
Negli ultimi 38 anni sono sparite due aziende agricole su tre ma negli ultimi 10 anni è aumentato il numero delle aziende con una dimensione superiore a 100 ettari che, pur essendo solo l’1,6% del totale, coltivano il 30% della terra. Un nuovo latifondismo che rende difficile ogni possibilità di ingresso di nuovi agricoltori. La mortalità delle aziende agricole non è equamente ripartita tra le regioni italiane. In effetti delle circa 900.000 aziende con una dimensione inferiore ai 10 ettari, meno di un quarto sono al Nord, il 15% al Centro ed il 60% nel Mezzogiorno (cioè 527.293 aziende). Un patrimonio fondamentale a difesa delle aree interne e delle zone più svantaggiate del paese.
L’agricoltura è un settore che offre lavoro a milioni di persone anche se negli ultimi 10 anni abbiamo perso più di un milione di persone al lavoro. Ufficialmente restano ancora poco meno di 3 milioni. La trasformazione dell’occupazione in agricoltura segue una tendenza che vede ridursi gradualmente il peso della manodopera familiare – dovuto alla sparizione delle piccole e medie aziende agricole (quelle fino a 30 ettari) – a vantaggio di aziende di più grande dimensione, a forte capitalizzazione, in cui il lavoro è svolto da dipendenti di cui, però, quasi il 70% è costituito da lavoratori assunti in “forma saltuaria”, cioè giornalieri. Il precariato – anche in agricoltura, con i fenomeni di sfruttamento conosciuti da tutti che spesso sconfinano quasi nella schiavitù – sta diventando la regola sostituendo la stabilità del lavoro indipendente delle aziende diretto coltivatrici. In effetti i lavoratori dipendenti extraeuropei ufficialmente censiti sono presenti in molte regioni ma con una concentrazione in Emilia Romagna, nel cuore dell’agricoltura industriale.
Anche se nel 2020 la manodopera familiare è presente nel 98,3% delle aziende, il modello agricolo italiano – grazie all’ingiusta ripartizione del sostegno pubblico sia europeo che nazionale che premia gli ettari invece che il lavoro – è dominato da un ristrettissimo numero di grandi e grandissime aziende specializzate, sempre più spesso di proprietà di società, tra cui banche ed assicurazioni, che – perennemente in crisi a causa dell’insostenibilità dei processi di industrializzazione dell’agricoltura – sopravvivono grazie allo sfruttamento della manodopera e al continuo supporto da parte delle politiche nazionali e regionali. La concentrazione di questi tipi di aziende in pochissime regioni ha creato ampie zone di desertificazione, un processo di distruzione delle risorse naturale – ne è riprova l’impatto della siccità nelle acque sia di superficie che di falda – che si abbatte sull’intero paese. Incapaci di un’effettiva svolta ecologica, di una stabilizzazione dell’occupazione fondamentale per questo tipo di transizione, sostenute da gruppi di potere ben strutturati dentro la pubblica amministrazione e da un sistema di rappresentanza assolutamente antidemocratico e che protegge interessi costituiti, la filiera è così diventata la fonte di materie prime a basso costo per la GDO e l’industria agroalimentare .
Il mercato interno, nonostante il quadro sin qui delineato, vede ancora una buona presenza di produzioni di prossimità che debbono competere con prezzi decrescenti, spesso al disotto dei costi di produzione, spesso fronteggiati con un maggior (auto)sfruttamento anche della manodopera familiare e del conduttore/trice. Le aziende di piccola e media dimensione non hanno fino ad oggi avuto nessun ascolto nella definizione delle politiche pubbliche – tanto da provocare un forte richiamo al Governo da parte della Commissione europea – e necessitano di un riconoscimento che metta al primo posto la qualità dell’occupazione, il metodo agroecologico della produzione, la specificità dei loro bisogni e la difesa della loro autonomia. Autonomia che è stata fondamentale nel momento della crisi del COVID. Scrive l’ISTAT “La dimensione aziendale ha rappresentato un fattore discriminante per la resilienza delle aziende agricole. Considerando la dimensione in termini di manodopera, la percentuale di aziende con almeno 10 ULA che hanno dichiarato effetti dalla pandemia è stata del 58,8%, cinque volte più alta rispetto a quella rilevata per le aziende più piccole, fino a 1 ULA (11,6%)…”.
Le proposte che discendono da questa prospettiva sono le seguenti:
1) Queste aziende, che restano il sistema fondamentale dell’agricoltura italiana non hanno bisogno di elemosine, ma di politiche pubbliche basate sui loro bisogni, capaci di contrastare la loro permanente diminuzione numerica, adatte a contrastare le posizione di dominio assoluto di poche centrali d’acquisto e di pochissime industrie sementiere nazionali o multinazionali. Ma anche in grado di arrestare il processo di accaparramento di terre e di consumo di suolo, sia a fini urbanistici che agricoli (necessaria protezione della terra agricola);
2) Occorre sviluppare politiche positive che favoriscono la creazione di nuove aziende, numerose e quindi di piccole e medie dimensioni, favorendo l’accesso all’uso della terra da parte di giovani o quanti vogliano, in particolare nelle zone montane e collinari.
3) Occorre garantire il diritto degli agricoltori a produrre, riprodurre, conservare, scambiare e vendere le proprie sementi ad altri agricoltori come strumento fondamentale per produrre il necessario adattamento delle coltivazioni ai cambiamenti climatici.
Turismi e turismo per il futuro
Il turismo è un settore non solo importante, ma anche irrinunciabile nel nostro Paese. Ma non a tutti i costi. Non più per tutti i turismi. Negli ultimi decenni, con una progressione sempre più aggressiva e monospecifica, il turismo si è imposto come un settore economico il cui vigore è rappresentato ossessivamente da due indicatori di quantità: presenze e arrivi (da cui gli incassi). Questa coppia di indicatori la dice lunga su quanto il turismo sia un settore dove la massa è quel che conta. E se è la massa a contare, l’industria turistica si inventa di tutto per attrarre attrarre e ancora attrarre. Qualunque cosa ecciti l’attrattività ha facoltà di esistere per il turismo di massa. Può essere così domani? Proviamo a concentrarci su tre aspetti: a) ambiente: il turismo di massa usa ed abusa delle risorse naturali e paesaggistiche sia estraendo quanto più valore possibile sia scaricando una gran quantità di rifiuti ed esternalità; b) cultura: le origini del turismo risiedono in una vicenda di formazione culturale delle giovani élite europee; di quell’impegno formativo si è persa traccia; c) buon lavoro: sappiamo che la forza lavoro del turismo è spesso precaria, sfruttata, mal pagata, con poche garanzie sociali. Non servono discorsi complessi per rendersi conto di cosa il turismo di massa ha lasciato in eredità lungo migliaia di chilometri di coste italiane, centinaia di ettari di aree alpine, decine e decine di centri storici divenuti brutti centri commerciali. Risultati resi possibili grazie a enormi concessioni pubbliche a basso o zero costo (spiagge, boschi, prati, fiumi, lagune, centri storici, etc.) e a una costante spesa pubblica per tenere in ordine (pur male) strade, parcheggi, trasporti, raccolta e smaltimento rifiuti, musei, parchi, ferrovie, bus, etc. Beni pubblici di fatto predati dall’industria turistica senza che questa abbia versato il giusto prezzo. Il prossimo turismo non può essere in nessun modo estrattivo/dissipativo/inquinante, lasciandoci debiti e degrado. Né può essere un turismo indifferente alla missione educatrice da cui è nato. E neppure può replicare un modello basato sullo sfruttamento lavorativo stagionale. Stante che non è corretto rinunciare al turismo in un Paese come l’Italia e che occorre investirci ancora, al settore dobbiamo chiedere di curvarsi con decisione alle due più grandi istanze dell’attualità: quella ecologico-climatica e quella dell’equità. Massimamente quando il turismo si rivolge alle aree interne alle quali strizza l’occhio intravedendo là nuovi ‘mercati’, come li chiama tradendo il vizietto estrattivista. Le aree interne sono delicate e fragili. La trascuratezza che hanno subito è stata in parte una fortuna poiché si sono conservate storia e storie, tradizioni artigiane e popolari, bellezza e schiettezza, natura e cultura. Quei patrimoni interni che oggi attirano l’industria turistica derivano dall’enorme sforzo collettivo di chi nel passato si è preso cura di quei luoghi, ma non certo per consegnarli nelle mani di pochi speculatori. Quel patrimonio interno è di tutti e non una tavola apparecchiata per facili rendite turistiche. Se le aree interne sono vittime di spopolamento, non devono certo subire nuove gentrificazioni da parte di chi rastrella abitazioni locali per farci resort di lusso per facoltosi turisti. Di questo turismo non ha bisogno l’interno del Paese e vanno eretti argini per evitarlo. Oggi possiamo proporre qualcosa di più immune da quei virus: quelle forme di turismo incardinate sul binomio lentezza e viaggio. Partiamo dalla lentezza che è un antidoto naturale al pensiero unico della velocità oggi diventata una norma sociale discriminante che si permette, ingiustamente e con effetti nocivi, di dividerci tra vincenti ed efficienti (i veloci) e tra perdenti e inefficienti (i non veloci). Praticare la lentezza nel tempo libero, come diremo, è un antidoto che può aiutarci a crescere spiritualmente e culturalmente e far bene al territorio e alle sue società. Alla crisi non si può rispondere unicamente con la velocità e la tecnologia, sua parente stretta, ma va considerata anche la lentezza: trascurarla significa prendersi una responsabilità politica che equivale a escludere alcune economie e un modello di progresso più sano e alternativo. Dopo la parola lentezza, mettiamo al centro di un progetto turistico per il Paese la parola viaggio. Sebbene con viaggiare oggi indichiamo prevalentemente lo spostamento da un’origine a una destinazione, riducendo così il significato alla funzione del trasporto, meno nobile, se spostiamo la nostra attenzione a quel che c’è tra origine e destinazione, ovvero il territorio permeato dal viaggio, decidendo di farne la vera meta del nostro turismo, la prospettiva cambia per noi e i territori attraversati. Per noi, perché il viaggio lento ci aiuta ad abbracciare una dimensione esperienziale che ci fa apprezzare quel che troviamo passo dopo passo, le relazioni con i territori e gli abitanti, etc. Per i territori in mezzo, perché si trovano pazientemente percorsi e non più velocemente attraversati. Chi va lento si ferma ovunque desideri: per visitare, mangiare, riposare, dialogare, ammirare, imparare. Ognuna di queste azioni ‘lente’ è legata a possibili buoni effetti culturali, sociali ed economici che, invece, la velocità non deposita in quelle terre, visto che le salta. Il risultato è un turismo lento incardinato su lunghe tracce – sentieri e ciclovie principalmente – a bassa velocità: cammini e cicloturismi. È qui che abbiamo urgenza di investire.
L’enorme e antico patrimonio di sentieri e cammini italiani (dalla via Francigena al Sentiero Italia CAI, dalle antiche vie etrusche e romane alle tante vie del sale, dai sentieri sempre esistiti tra paesi e campagne ai tratturi, etc.) assieme al più recente Sistema Nazionale delle Ciclovie Turistiche devono convintamente appartenere al prossimo piano di investimento infrastrutturale, non meno di altro. In certe parti d’Europa un chilometro di ciclovia turistica ben pensato e disegnato è in grado di supportare cinque occupati per km generando indotti a vantaggio delle economie locali per 2-300.000 euro per km per anno. In Germania i 50.000 km di lunghe ciclovie sostengono 9 miliardi di indotto all’anno per le aree interne e oltre 300.000 posti di lavoro a un costo di investimento per km che è 100-150 inferiore a quello di una autostrada. Parliamo di occupazione di qualità che per noi coincide con le nostre osterie, piccoli negozi, musei e servizi alla persona. Spesso nulla di più che buoni servizi di vicinato oggi sono in sofferenza ma che il turismo lento, da viaggio, potrebbe aiutare a rigenerarsi senza perdere identità locale. I turismi lenti, però, non sono immuni dal corrompersi in turismi di massa. Molti operatori si stanno affacciando alla lentezza con il loro codice estrattivo, proponendo, tanto ai turisti quanto ai territori attraversati, dei format che non premiano né i primi né i secondi, ma prevalentemente loro stessi. Occorre evitare queste nuove forme di predazione, lavorando sul buon progetto di linea lenta e su progetti di territorio che abilitino le amministrazioni pubbliche locali, le imprese commerciali e le aziende agricole a essere loro stessi prestatori d’opera per i turisti e spiegando loro le novità dei turismi lenti itineranti.
Propongo due piccoli casi italiani che stanno funzionando e hanno iniziato ad aprire la strada a un turismo lento non di massa e non estrattivo, dimostrando che vi è spazio per modelli diversi e più capaci di distribuire vantaggi e rendite ai cittadini, alle imprese e ai luoghi. VENTO (www.cicloviavento.it) è il progetto di una ciclovia nazionale di 700km tra VENezia e TOrino lungo il fiume Po, basato proprio sull’idea che le persone si possano muovere liberamente e lentamente lungo una linea sicura, accessibile a tutti, confortevole e capace di ricucire la bellezza persa e dispersa. Un progetto che ha richiamato il soggetto pubblico al suo ruolo di investitore visionario ma concreto, di sistema tanto alla scala vasta, quanto a favore delle realtà locali. Un progetto che ha riportato in primo piano l’idea di investire su progetti di linee al posto della continua spesa in connessioni discontinue e trasportistiche (le mini-ciclabili) o in promozione turistica o in bonus per gli operatori turistici.
Il secondo caso è TWIN (www.twin.polimi.it), Trekking, Walking and cycling for INclusion, dove si è dimostrato che è possibile fare inventandosi tanti piccoli punti di accoglienza per camminanti e pedalanti in viaggio, ma avendo cura che tutto il ciclo di realizzazione-gestione favorisca soggetti svantaggiati e non estrattori. Con TWIN è stata realizzata una capanna in legno al passo della Cisa all’incrocio tra Sentiero Italia e via Francigena, usando il legname della tempesta Vaia2018, facendo lavorare quattro detenuti su un progetto a mano pubblica (del Politecnico di Milano che ha usato i fondi del 5per1000), ingaggiando istituti tecnici per la formazione dei detenuti, coinvolgendo piccoli comuni e associazioni (a partire dal CAI) e dando in gestione la capanna a una cooperativa locale che a sua volta assume una persona svantaggiata per gestire capanna e turisti lenti: parte della tariffa va a lei. Due casi, VENTO e TWIN, che hanno interpretato il turismo lento secondo un’altra declinazione, possibile e gradevole, più attenta a rispettare i territori, abilitarne le loro qualità e dare una risposta concreta alle fragilità. Due casi che un progetto politico visionario può vedere come punti di partenza. Il turismo lento, se pensato per tempo ovvero oggi, può essere un laboratorio privilegiato dove coniugare crescita culturale, cura del paesaggio e dell’ambiente, inclusione sociale e rigenerazione territoriale per le aree più fragili. Tutte cose che non avvengono però per caso né con il vecchio marketing né con la retorica dei bonus per acquistare una bicicletta, ma con un progetto preciso e pubblico, con una visione di insieme (la linea lenta) e con valori e principi di gestione nuovi e fermamente inclusivi. Un progetto di territorio che si può fare.
Regioni ed enti locali
A partire dalla riforma ulivista del Titolo V della Costituzione (2001), il principio di sussidiarietà è il fulcro intorno al quale sono modellati i rapporti tra lo Stato e gli enti territoriali. Nucleo della sussidiarietà è l’idea che debbano essere i cittadini a occuparsi direttamente delle questioni che li riguardano, così che i poteri pubblici, a partire da quelli comunali, per poi passare a quelli provinciali, regionali e statali (sussidiarietà in senso “verticale”), sono da ritenersi legittimati a intervenire solo se i cittadini non sono in grado di fare da sé (sussidiarietà in senso “orizzontale”).
In definitiva: priorità al privato sul pubblico e, se proprio pubblico dev’essere, priorità agli enti territoriali minori. Una visione, dunque, doppiamente antistatalista.
A favore della sussidiarietà sono solitamente portate tre argomentazioni:
1) Gli enti territoriali minori, a partire dai comuni, sono quelli più attenti ai bisogni dei cittadini, perché operano a contatto diretto e quotidiano con gli stessi e sarebbero quindi in grado di meglio conoscerne le esigenze;
2) minore è la dimensione territoriale degli enti pubblici, più controllabili dagli amministrati essi risultano: l’azione pubblica più prossima sarebbe, infatti, quella meglio conoscibile e verificabile dai cittadini;
3) maggiori sono i compiti attribuiti agli enti locali di dimensioni minori, maggiore è l’efficienza amministrativa complessiva del sistema pubblico, dal momento che è dalla distanza tra governanti e governati che deriverebbero inefficienze, sprechi e ruberie.
All’atto pratico, tuttavia, tali ipotetici vantaggi sono spesso risultati rovesciati in speculari svantaggi:
1) la vicinanza tra governanti e governati rende i primi più condizionabili dagli interessi di parte dei secondi, distogliendo l’amministrazione pubblica (locale o regionale) dalla realizzazione dell’interesse generale;
2) numerosi poteri locali, specie comunali e regionali, sono stati travolti da clamorosi casi di corruzione: la maggiore vicinanza ai cittadini può infatti tradursi in maggiore facilità di contatto tra malgoverno e malaffare;
3) è dubbio che l’efficienza di cui alcune amministrazioni locali hanno fatto motivo di vanto sia attribuibile all’autonomia di cui godono, essendo piuttosto, almeno in parte, riconducibile alle diseguaglianze di cui alcune zone del territorio nazionale si avvantaggiano da tempo.
Oltre alla riforma del Titolo V del 2001, numerosi e continui interventi normativi hanno interessato la materia negli ultimi anni (a partire dalle leggi Bassanini del 1997-1999 sul «federalismo a Costituzione invariata», sino alla legge Delrio del 2014 sulla trasformazione delle province in enti elettivi di secondo livello, passando per la normativa sul federalismo fiscale introdotta a partire dal 2009 e mai definitivamente entrata a regime).
In molti casi, la confusione normativa ha lasciato scoperte funzioni basilari (soprattutto provinciali) come la manutenzione degli istituti scolastici, delle strade, del territorio in generale. In altri, traducendosi di fatto nella cristallizzazione del criterio della “spesa storica”, ha acuito oltre il tollerabile le diseguaglianze territoriali nell’attuazione dei diritti fondamentali: in particolare, la salute, l’assistenza, l’istruzione.
Un dato su tutti: secondo l’Istat, la speranza di vita alla nascita è pari, in Umbria a 85,6 anni per le donne e a 81,1 anni per gli uomini; in Campania è di 83,3 anni per le donne e di 78,4 anni per gli uomini: una differenza tra i due anni e mezzo e i tre anni di vita tra cittadine e cittadini che, in teoria, vivono nello stesso Paese! Considerazioni simili potrebbero essere svolte con riguardo alla scuola, all’università, all’assistenza sociale, all’abitazione.
Eppure, al centro del dibattito pubblico in materia di politiche territoriali, anziché le crescenti diseguaglianze, campeggiano le richieste di regionalismo differenziato avanzate (per ora) da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna e volte a ulteriormente rafforzare i territori già più forti.
Su tutto, domina l’insensato discorso sui residui fiscali regionali (sulla base del falso presupposto che siano le regioni e non i cittadini a pagare le tasse…), finalizzato a rattrappire egoisticamente e incostituzionalmente la solidarietà da nazionale a regionale: come se, nell’affrontare il problema della redistribuzione della ricchezza, la regione di residenza fosse più importante della condizione di benessere o indigenza.
Occorre cambiare verso, con l’obiettivo di dare a tutti gli italiani, in qualunque parte del territorio nazionale vivano, eguali opportunità di realizzare i propri progetto di vita. La logica di mercato, improntata alla concorrenza, non può essere elevata a criterio attraverso cui gestire i rapporti tra Stato e autonomie. Territori e città non devono essere costretti a operare in competizione gli uni contro gli altri, ma devono poter contare sulla solidarietà reciproca. Le risorse vanno distribuite con l’obiettivo primario di migliorare i servizi là dove più sono carenti, nel contempo preservando quelli che già hanno raggiunto idonei livelli di qualità.
In questo quadro, parte delle competenze attualmente attribuite alle regioni devono tornare a essere gestite dallo Stato, in particolare in quei settori dove si è perduta, o si sta perdendo, la dimensione nazionale dell’azione politica. Negli ambiti della salute, della scuola, della formazione, della tutela dei beni culturali, della protezione dell’ambiente, del governo del territorio le competenze regionali vanno ridotte a beneficio dell’incremento delle competenze dello Stato.
Il regionalismo differenziato va respinto e un profondo ripensamento deve investire le regioni a Statuto speciale: la specialità ha in gran parte perso giustificazione e si è trasformata in privilegio odioso e controproducente. L’eventuale attribuzione con legge costituzionale di poche competenze ulteriori (per esempio, in ambito linguistico), motivate da ragioni oggettive, deve prendere il posto degli Statuti speciali. Insomma: tutte le regioni tornino a essere ordinarie e con competenze circoscritte a profili non riguardanti diritti costituzionali da garantire egualmente a tutti.
Occorre, inoltre, rimettere al centro la questione meridionale.
Il Mezzogiorno d’Italia è oramai uno dei territori più arretrati d’Europa. Troppe risorse politiche, intellettuali ed economiche sono state negli ultimi anni rivolte ad affrontare una questione settentrionale in effetti inesistente, mentre la vera questione territoriale del Paese, quella meridionale, veniva dimenticata e abbandonata a se stessa.
L’arretratezza del meridione deve diventare un tema sentito da tutti gli italiani, perché è l’intero Paese a patire la perdita di opportunità economiche, sociali e culturali che ne deriva (ovviamente, anche a causa della diffusione in tutto il Paese della criminalità organizzata). Occorre pensare a forme di intervento accentrate a livello statale perché solo l’azione dello Stato può adeguatamente far fronte a un problema che coinvolge lo Stato nel suo complesso.
Ancora, occorre aprire una riflessione sulla forma di governo dei comuni e delle regioni, viziata da un iper-presidenzialismo che si ritorce con effetti nocivi sul loro stesso ruolo.
Il combinato tra l’elezione diretta dei vertici dell’esecutivo e la loro non-sfiduciabilità da parte dell’organo consiliare, salvo il suo stesso scioglimento, rende di fatto sindaci e presidenti regionali padroni assoluti della vita politica dell’ente da loro amministrato, dal momento che non solo le opposizioni, ma anche le maggioranze non hanno, in effetti, alcun ruolo significativo (anche perché è il capo della giunta a nominare e revocare gli assessori a sua discrezione).
Ciò produce un doppio effetto distorsivo: da un lato, spoliticizza la vita pubblica comunale e regionale, dal momento che qualsiasi dinamica interna è paralizzata e rinviata alle successive elezioni (come se si potesse fare politica “a singhiozzo”, una volta ogni cinque anni); dall’altro lato, iper-politicizza il ruolo di sindaci e presidenti di regione, sino a farli non di rado assurgere a leader di rilievo più nazionale che locale, distogliendoli dalla loro primaria funzione.
Infine, con riguardo specifico agli enti locali, occorre riattribuire un ruolo certo, per competenze e finanziamenti, all’ente sovracomunale (provincia o città metropolitana), eventualmente anche accorpando in esso le funzioni ora attribuite a una pletora di enti di area vasta a competenza monofunzionali (ambiti territoriali idrici e rifiuti, bacini imbriferi, consorzi di varia natura, ecc.).
AZIONE PUBBLICA
Lotta alle mafie
La storia delle mafie, lungi dall’essere una questione meramente criminale, è parte integrante della storia civile, sociale, economica e politica d’Italia. Se fossero soltanto comuni associazioni per delinquere o semplici organizzazioni criminali, Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra non avrebbero attraversato tutte le epoche senza soluzione di continuità dall’unificazione a oggi. Le mafie meridionali sono istituzioni, ancor più che organizzazioni, e non seguono infatti traiettorie puramente criminali: non si tratta soltanto del controllo violento di interi territori attraverso il racket, l’intimidazione e l’omertà, o della movimentazione e offerta di beni e servizi illeciti; ciò che le contraddistingue sono i rapporti che il potere criminale intrattiene con altri poteri ufficiali e con la società. Questi rapporti non si limitano certo alle realtà locali, ma toccano storicamente la grande imprenditoria nazionale, ministri e presidenti del consiglio; e se a ciò si aggiunge la capacità di espansione territoriale al Nord dimostrata negli ultimi decenni, non si può che ritenere fuorviante il racconto di chi vede nelle mafie il semplice frutto dell’arretratezza di alcune aree del Mezzogiorno, delle sue classi dirigenti e della sua società.
A trent’anni dalle stragi che costarono la vita a Falcone e Borsellino, possiamo dire che il loro sacrificio non è stato vano. Le bombe di Cosa Nostra furono senza dubbio la reazione alla rottura dell’impunità storica arrivata con il Maxiprocesso sul finire degli anni Ottanta, ma questa scelta brutale si è ritorta contro la mafia, che da allora ha dovuto affrontare il rifiuto di gran parte della popolazione e una repressione giudiziaria molto più efficace anche grazie alle misure di contrasto da anni invocate da Falcone e finalmente introdotte dopo la sua morte.
Cosa Nostra è passata alla strategia dell’«inabissamento». Le altre organizzazioni – più lontane dai riflettori – hanno sfruttato le opportunità aperte dalla crisi dei clan siciliani per incrementare il proprio giro d’affari e la propria influenza senza fare troppo rumore. La ’ndrangheta è divenuta forse la più potente organizzazione criminale del mondo, assumendo un ruolo preminente nel narcotraffico globale grazie alla sua presenza nei cinque continenti. La sua espansione nel Nord Italia, secondo numerose inchieste giudiziarie, assume i contorni di una vera e propria colonizzazione. E negli ultimi anni si registrano fenomeni di “gemmazione” di nuove organizzazioni mafiose o paramafiose, seppure difficilmente inquadrabili nelle fattispecie previste dal Codice penale, come nel caso di Mafia Capitale a Roma.
Non è cambiata solo la mappa del potere criminale. Oggi le mafie sparano meno, sono silenziose, persino invisibili, si sono date strutture organizzative sempre più flessibili e reticolari e ricorrono alla violenza solo come ultima ratio. L’attività criminale viene a fondarsi soprattutto su rapporti di scambio e collusione nei mercati illegali e ancor più legali, sulla complicità sistematica con imprenditori, professionisti, politici, burocrati, persino magistrati, spesso grazie al collante di massonerie e logge deviate. Se lo shock delle stragi e la rinnovata attenzione mediatica e civile hanno ridotto il consenso sociale e culturale della popolazione nei confronti delle mafie, è paradossalmente aumentato il consenso “strumentale” in diversi settori politici ed economici, anche e soprattutto al Nord. Come ha efficacemente sintetizzato la relazione finale della Commissione antimafia nel 2018, il consenso mafioso «è passato dal basso della società alle élite».
Pensiamo al colossale business – e alle drammatiche conseguenze per l’ambiente e per la salute – dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici; agli affari nella sanità privata (non solo al Sud ma anche in Lombardia); al ricchissimo banchetto delle grandi opere, a cui le organizzazioni criminali partecipano tramite il meccanismo dei subappalti (alta velocità, MOSE ed Expo 2015 sono gli esempi più noti ed eclatanti); alla presenza mafiosa in settori assai diversi come il gioco d’azzardo, i compro oro, le energie rinnovabili, le catene di supermercati; all’industria del riciclaggio dei capitali sporchi che, per la Banca d’Italia, rappresentava già solo nel 2011 il 10% del Pil italiano: a prevalere è un tipo di mafia “sommersa”, che minaccia in misura minore la sicurezza e la vita quotidiana delle persone, ma è molto più pericolosa in termini di disuguaglianza sociale ed erosione della democrazia. Una mafia sempre più diluita in sistemi di potere e corruzione a varia densità criminale, all’interno dei quali sfumano anche i confini tra legale e illegale, tra pubblico e privato. Il che vale non solo quando si tratta di sofisticate imprese criminali o di depredazione del denaro pubblico su larga scala, ma anche per settori come l’edilizia di base e il movimento terra.
Non dovrebbero sfuggire le implicazioni politiche di questa vera e propria metamorfosi. Ma per comprenderla ancora più a fondo occorre tener presente che si tratta di un fenomeno globale: all’Italia tocca il triste primato della loro “invenzione” storica, ma soprattutto negli ultimi decenni le mafie stanno conoscendo uno straordinario successo in tutto il pianeta, rivelandosi un fenomeno riproducibile. Come sostiene per esempio Fabio Armao, le mafie – interconnesse in reti transnazionali, protagoniste dell’espansione in nuove “colonie” ma ancora fortemente radicate nei luoghi d’origine – sanno ormai «coniugare globale e locale molto meglio dello stato». E sono funzionali a un certo modo di intendere il capitalismo e la politica.
Il capitalista dedito al perseguimento incondizionato del profitto può avvalersi dei loro servizi per annullare la concorrenza, reclutare manodopera clandestina, reprimere qualunque rivendicazione salariale, accedere illecitamente a finanziamenti pubblici e privati, aggirare le restrizioni di legge in materia ambientale, sociale o di sicurezza. A livello globale, le mafie sono in grado di far circolare quantitativi di denaro colossali e merci illegali estremamente redditizie, che però richiedono altissimi costi d’investimento, come le droghe o le armi: in questo modo presiedono a un’accumulazione selvaggia di capitali sganciati da ogni logica di produzione, funzionali a soddisfare la sempre più forte richiesta sistemica di capitali liquidi imposta dall’economia globale. Non è quindi una forzatura affermare che la criminalità organizzata prolifera e si arricchisce in tutto il mondo di pari passo con la tendenza alla finanziarizzazione dell’economia e lo sviluppo dei mercati offshore.
Le patologie del clientelismo e della corruzione, diffuse anche negli altri paesi democratici, assumono in Italia una forma completamente diversa e sistemica soprattutto a causa delle mafie, che le alimentano grazie alle loro ingenti risorse di violenza, denaro, invisibilità, rivelandosi gli alleati ideali per quel modo di far politica che vive come un intralcio le regole della democrazia e dello stato di diritto. Con la Seconda Repubblica la corruzione è esplosa e si è rinsaldato un sistema di appropriazione particolaristica di risorse collettive in cui le mafie si sono inserite sempre di più, con un ruolo di “facilitatori”. E il regime di austerity che, a fase alterne, l’Italia ha abbracciato negli ultimi trent’anni non ha giovato (smentendo la retorica liberista dell’«affamare la bestia»): chiudere i rubinetti della spesa pubblica non riduce l’afflusso di denaro ai poteri criminali, ma intacca il funzionamento stesso del Welfare State, della sanità, delle infrastrutture e degli enti locali, in cui corruzione e mafie si possono infiltrare ancora più a fondo. La privatizzazione della politica ha finito per privatizzare anche la corruzione che, secondo il consueto circolo vizioso, ha offerto nuovi pretesti alla retorica dello Stato minimo e dell’antipolitica.
Non solo: la pandemia di Covid si è innestata in un tessuto economico già segnato da oltre dieci anni di crisi permanente, scatenando una grave crisi di liquidità per svariate piccole e medie imprese che in molti casi si sono rivolte all’usura di stampo mafioso, il cui esito è spesso l’acquisizione dell’azienda da parte di imprenditori criminali. Sfruttando le proprie immense riserve di capitali e la minaccia (quasi mai l’uso diretto) della violenza, le mafie hanno soffocato chi era alla disperata ricerca di ossigeno e hanno fatto shopping a buon mercato, impadronendosi di una fetta ancora più ampia dell’economia legale.
Quale antimafia, in un quadro simile? Sul fronte del contrasto giudiziario, occorre in primo luogo difendere il quadro normativo ereditato dall’epoca di Falcone, e difendere i magistrati che lo applicano fedeli al principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Esiste indubbiamente qualche discrepanza tra le analisi sociologiche e gli elementi empirici sulle mafie appena presentati e la definizione data dal 416-bis, secondo il quale «un’associazione è di tipo mafioso» se ha come mezzo specifico «la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva». Come abbiamo visto, infatti, non di rado intimidazione e assoggettamento cedono il passo al consenso, al soddisfacimento – potremmo dire – di una domanda di mercato dei servizi mafiosi. Ciò non significa che il 416-bis – il quale ha prodotto risultati eccellenti e si propone come un modello anche agli altri paesi europei – deve essere modificato, ma che si rende necessaria una riflessione su come affiancarlo con nuove norme penali in grado di colpire la “zona grigia”, di andare oltre il reato di derivazione giurisprudenziale (e come tale indefinito e di complessa applicazione) del concorso esterno in associazione mafiosa e di avere strumenti più affilati contro i poteri criminali.
Ma è altrettanto evidente che gli strumenti della legge non bastano. E che la retorica della legalità è diventata quasi controproducente, soprattutto oggi che il movimento antimafia, cresciuto enormemente dagli anni Novanta, si ritrova in crisi d’identità, spesso prigioniero di vecchi stereotipi e di cerimonie stantie. Un’antimafia permeabile a volte al gioco di veri e propri impostori, su tutti Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo condannata per corruzione per aver gestito illecitamente i beni sequestrati e confiscati alla mafia, e Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia che mentre si ergeva a paladino della lotta a Cosa nostra aveva creato un impressionante sistema criminale dedito a dossieraggi, affari e patti indicibili, per poi essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ecco allora l’esigenza di rilanciare un’antimafia radicata nella società reale. Se la mafia è un fenomeno economico, politico e sociale, oltre che criminale, anche la lotta alla mafia dovrebbe assumere una prospettiva economica, politica e sociale. Di seguito alcune idee da cui partire:
Sul fronte economico:
– Contrastare l’usura di stampo mafioso aumentando i fondi di solidarietà e monitorando il fenomeno anche a livello locale, ma soprattutto prevenirla facilitando l’accesso delle piccole imprese in regola al credito e ad altre forme di sostegno.
– Rivedere le norme che garantiscono il sostegno agli imprenditori che denunciano il racket mafioso, per evitare che le loro aziende falliscano come accade frequentemente a causa del condizionamento mafioso.
– Ridurre le opportunità di arricchimento mafioso sul mercato degli stupefacenti. Legalizzare le droghe leggere toglierà alle organizzazioni criminali un mercato redditizio, ma occorre intervenire anche sulla domanda di beni illeciti, con un massiccio investimento in politiche sociali, sanitarie e educative per la riduzione del consumo di droghe pesanti, finanziate con una percentuale sui beni sequestrati.
Sul fronte politico:
– Ridurre severamente la possibilità di appalti in regime derogatorio di somma urgenza e garantire maggiore trasparenza sui subappalti e in generale sulla gestione del denaro pubblico.
– Favorire l’espansione della democrazia, della partecipazione e della trasparenza anche a livello locale e chiarire i principi inderogabili che le Regioni non possono valicare nell’ambito delle loro competenze in materia di ambiente, servizi pubblici, urbanistica.
– Verità è giustizia: è il momento di togliere il segreto di stato sulle stragi.
Sul fronte sociale:
– Riformare e potenziare l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e gli analoghi organismi locali per favorire la riconversione sociale.
– Intervenire sui contesti sociali mafiogeni (che riguardano svariate periferie del Nord tanto quanto i tradizionali territori di insediamento mafioso) con politiche giovanili e interventi contro la povertà materiale e educativa.
– Piano di sostegno a testimoni di giustizia e familiari delle vittime innocenti di mafia e terrorismo: mai più soli.
Ma soprattutto, contro ogni falso unanimismo, occorre ricollocare la lotta alle mafie nel contesto più generale di una critica al capitalismo globale di cui sono l’espressione più feroce e distruttiva, e di un programma più ampio di giustizia sociale e rilancio della democrazia.
Per una politica del credito pubblico
Il credito è essenziale per la società: fornisce le basi per plasmare il sistema economico di domani. È quindi indispensabile che il sistema finanziario abbia come missione primaria quella di servire l’ interesse pubblico, e non quello dei privati. Per perseguire questo obiettivo, è fondamentale costruire un assetto istituzionale in grado di indirizzare il denaro verso progetti e investimenti di utilità sociale e ambientale.
L’esperienza del “miracolo economico italiano” degli anni ’50 e ’60 del Novecento mostra che lo straordinario sviluppo del Paese di quei decenni fu ottenuto attraverso una serie di politiche chiamata “nazionalizzazione del credito”. Con questo termine non si intende che la proprietà delle istituzioni finanziarie fosse pubblica, ma che diverse istituzioni tra cui la banca centrale, gli istituti di credito e diverse agenzie governative cooperavano tra loro per allocare il credito sulla base delle priorità sociali e nazionali. Il credito era insomma considerato uno strumento politico e sociale, e il sistema finanziario nel suo complesso cooperava nel favorire i prestiti alle attività economiche considerate prioritarie.
L’Italia ha di nuovo bisogno di ciò. La mano invisibile del mercato, lasciata libera, produce inquinamento, sfruttamento e disuguaglianze, e premia i profitti immediati di pochi a scapito di uno sviluppo sostenibile e benefico per tutte e tutti. Ma per finanziare una politica industriale degna di questo nome, grazie alla quale la collettività possa perseguire le priorità economiche che si è prefissata, è necessario mettere in piedi una nuova politica del credito pubblico.
La prima proposta concreta per raggiungere questo obiettivo è quella di fornire a Cassa Depositi e Prestiti (CDP) o ad un’istituzione creata ad hoc, ma sempre a controllo pubblico, una licenza bancaria.
Una licenza bancaria permette a un’istituzione finanziaria due funzioni fondamentali: quella di finanziarsi presso la banca centrale, e quella di prestare denaro alle imprese.
Ad oggi, sia CDP che l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa (Invitalia), l’altra istituzione finanziaria a partecipazione pubblica, non hanno una licenza bancaria. Entrambe compiono le loro missioni di sostegno alle imprese partecipando direttamente al loro capitale. Le forme impiegate sono varie, ma contemplano tutte l’ingresso nel capitale di rischio delle società.
Il credito, i prestiti diretti alle attività economiche prioritarie, non fanno invece ad oggi parte della cassetta degli attrezzi delle istituzioni finanziarie pubbliche. Al fine di indirizzare la politica industriale verso la transizione energetica, l’occupazione giovanile, lo sviluppo delle aree interne del Paese, è invece essenziale tornare a una “nazionalizzazione del credito”, e permettere ad una o più agenzie pubbliche di finanziare gli investimenti a medio-lungo termine delle imprese italiane, in linea con l’obiettivo di contribuire a progetti e investimenti di utilità sociale e ambientale.
È altresì importante permettere a queste istituzioni pubbliche di finanziarsi come le altre banche sul mercato, così come presso la banca centrale. Quest’ultima caratteristica permetterebbe loro di beneficiare della liquidità iniettata dalla Banca Centrale Europea (BCE) attraverso le normali operazioni di mercato aperto o iniziative eccezionali come il Quantitative Easing (QE).
Consideriamo ora il credito privato. Anche le banche devono essere al servizio dell’interesse generale. Non si tratta qui di ostacolare la libera impresa, ma anzi di attuare pienamente l’articolo 41 della Costituzione, che prevede che l’iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Basta leggere la cronaca di tutti i giorni per renderci conto di quanto una parte delle imprese del nostro Paese, che siano grandi, medie o piccole, violino ogni giorno questo articolo. Lo fanno sfruttando e sottopagando i lavoratori, minandone la sicurezza a fini di profitto, danneggiando la loro salute e quella dell’ambiente e delle comunità.
Una seconda proposta concreta riguarda quindi la necessità di effettuare regolarmente una verifica degli impatti economici, sociali ed ecologici che le banche hanno sulla società italiana.
Si tratta dunque di verificare gli investimenti e i prestiti delle banche italiane per valutarne non solo i profili di rischio dal punto di vista finanziario, come già avviene per mano della Vigilanza di Banca d’Italia, ma anche il loro impatto in termini ecologici, sociali, di salute e sicurezza. Alle banche dovrebbero poi essere applicati dei requisiti non solo patrimoniali, ma anche sociali ed ecologici, in assenza dei quali queste ultime potrebbero essere sanzionate.
Questa iniziativa consentirebbe di ripulire i flussi finanziari, che oggi sono in buona parte orientati verso gli investimenti in armi, in imprese poco attente ai diritti e alla salute dei lavoratori, e soprattutto nei combustibili fossili. E permetterebbe così di indirizzare anche il credito privato, e non solo quello pubblico, a sostegno della transizione sociale ed ecologica di cui il nostro Paese ha bisogno.
La giustizia fiscale
In Italia, il principio di progressività fiscale è parte della nostra Costituzione. Perché la progressività è nella Costituzione? Lo Statuto Albertino del 1848 prevedeva la proporzionalità. L’Assemblea costituente, in prima battuta, non vide di buon occhio l’inserimento della progressività. Alla fine però passò, un compromesso ideale tra diritti individuali e giustizia sociale. Si volle riportare la solidarietà tra classi diverse perché la progressività implica che chi più ha non solo sopporti maggior carico di chi ha meno, ma che lo sopporti in misura più che proporzionale al crescere della ricchezza. Oggi invece questo principio è largamente disatteso, come evidenziato dalla nuova ricerca di Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi, Andrea Roventini and Alessandro Santoro. Nonostante il principio espresso nella Costituzione, in Italia la fiscalità è blandamente progressiva e per il 5% piu’ ricco dei contribuenti è addirittura regressiva con un’aliquota effettiva complessiva inferiore rispetto al 95% della popolazione. La tassazione progressiva dei redditi dovrebbe essere alla base del nostro sistema fiscale. Così non è: i redditi di capitale beneficiano di trattamenti privilegiati generalizzati. I redditi da lavoro indipendente sono essere tassati (molto) meno di quelli da lavoro dipendente o da pensione. La progressività sui soli redditi da lavoro (dipendente o autonomo) è priva di solide giustificazioni politiche. Non ci sono inoltre giustificazioni per gli ampi e consistenti regimi agevolati su redditi da capitale, con disparità di trattamento rispetto al peso della tassazione gravante sul altri redditi, ad iniziare dai redditi di lavoro.
In Italia ci sono quasi sei milioni di persone in povertà assoluta. Quasi 11 milioni gli italiani a rischio povertà. Un occupato su 10 è povero e 1 su 4 ha un basso salario.
I costi dell’impatto della pandemia sul mercato del lavoro hanno pesato in modo prevalente sull’occupazione femminile e sui giovani. È sempre più diffusa la modalità di lavoro “autonomo dipendente”, da intendersi come occupati formalmente autonomi ma di fatto alle dipendenze di un’altra unità economica. I salari hanno sofferto in modo drammatico: circa 4 milioni di dipendenti del settore privato (escluse agricoltura e lavoro domestico) hanno una retribuzione teorica lorda annua inferiore a 12 mila euro.
Di contro la ricchezza delle famiglie italiane durante la pandemia è aumentata, più 100 miliardi nel solo 2020, ricchezza netta pari a 8,7 volte il reddito disponibile, più di paesi come Canada, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. In particolare, tra il 2019 e il 2021 la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è cresciuta complessivamente di 334 miliardi di euro, sfiorando il tetto dei 5.000 miliardi, rispetto ai 4.600 miliardi di fine 2019.
Un paese ricco, ma dove la distribuzione della torta, però è squilibrata. I patrimoni sono molto più concentrate dei redditi, cosi come le attività finanziarie rispetto a quelle reali.
La ricchezza delle famiglie attuale proviene dal lavoro e dall’impresa, ma si è formata, in termini molto rilevanti, anche per eredità e donazioni. Le eredità di valore consistente, riguardando pochi soggetti, hanno contribuito ad accentuare le disparità patrimoniali tra famiglie. Disparità che hanno assunto un peso ancor più rilevante per la rimodulazione e riduzione dell’imposta di successione, che peraltro ha sempre avuto un gettito irrisorio. Ruolo analogo alle eredità nel favorire l’accumulo di ricchezza e l’aumento delle disuguaglianze l’ha avuto l’aliquota unica al 26% (una “flat tax”) sui capital gains, guadagni di capitale dovuti all’aumento dei valori di mercato degli asset finanziari e alle speculazioni.
Se da un lato la recente riforma dell’IRPEF ha razionalizzato alquanto il meccanismo aliquote-detrazioni, avvicinando aliquote medie e marginali effettive, dall’altro, non ha potuto, a causa dei veti incrociati, ricomporre la base imponibile dell’imposta, mantenendo la sua frammentazione che si manifesta nella sua rinnovata cedolarizzazione, per cui diverse tipologie di reddito sono trattate diversamente, e contribuenti con lo stesso reddito subiscono prelievi differenti.
Si è cercato di dare un poco a tutti, ma se al 10% delle famiglie più ricche sono state destinate più del 20% (1,6 miliardi) delle risorse distribuite, nulla è andato invece per gli ultimi tra gli ultimi, i più fragili dell’economia italiana, quelli con un reddito inferiore alla no tax area, tra questi lavoratori che hanno pagato in modo feroce la crisi: donne, giovani, part-time involontari, intermittenti.
Per loro la nuova IRPEF mantiene il sistema perverso per cui redditi superiori alla no tax area beneficiano interamente del trattamento integrativo (bonus 80 euro e successive iterazioni, 1200 euro all’anno) pagando cosi meno imposte rispetto a chi ha un reddito vicino ma inferiore alla no tax area.
Nulla si è fatto per modificare la disparità di trattamento, a parità di reddito, delle diverse categorie di percettori, mantenendo progressività sui redditi da lavoro ma flat tax sui quelli da capitale.
La mancanza di progressività sui redditi da capitale ha un impatto sul gettito. Basti pensare che per il triennio 2021-2023, il “Rapporto annuale sulle spese fiscali, 2020” stima le minori entrate Irpef riconducibili alla cedolare secca sui redditi da capitale immobiliare in misura pari a 5,1 miliardi di euro, con un effetto negativo complessivo, calcolato al netto del gettito dell’imposta sostitutiva, pari a 2,3 miliardi di euro su base annua. Disuguaglianze nella tassazione di redditi da capitale e da lavoro che a loro volta contribuiscono ad aumentare la forbice tra i ricchi e i poveri.
Serve invece cambiare rotta, verso un fisco più progressivo redistribuendo il carico fiscale dal lavoro al capitale. Si può fare allineando la tassazione di redditi da capitale con quella da lavoro, rendendola progressiva, rivedendo le imposte su successioni (meno di 1 miliardo di euro di gettito in Italia, 14 miliardi in Francia). Perché il patrimonio di partenza è determinante nella condizione sociale delle persone e in un paese dove l’ascensore sociale fa fatica a muoversi, rivedere l’imposta sulle successioni e donazioni ridurrebbe le disuguaglianze a monte della produzione della ricchezza, non solo a valle.
E perchè no, rivedendo tutte le altre patrimoniali già esistenti (l’Imu, il bollo sui depositi, le imposte di registro), ripensandole all’interno di un nuovo fisco più equo. Magari creando un un’anagrafe patrimoniale e un registro dei beni nazionali, per dissipare la nebbia che c’è ora sulle condizioni patrimoniali degli italiani. Da usare sia contro l’evasione fiscale sia per gestire i sussidi, sia per indirizzare politiche fiscali.
Rivedendo la tassazione delle imprese, andando a colpire in maniera più sistematica la rendita e eliminando incentivi inutili.
L’abolizione recente del Patent Box e la proposta di tassare gli extra profitti su gas e petrolio sono passi nella giusta direzione.
Si deve fare tenendo la barra dritta sulla riforma del catasto, dove i valori reali sono fino a 4/5 volte superiori a quelli catastali nei centri storici, che permetterà un domani di rendere più’ equo il prelievo fiscale.
Tutti i valori immobiliari aumenterebbero (in media di circa il doppio), ma alcuni aumenterebbero (molto) più di altri, mentre altri potrebbero addirittura ridursi. Aumenterebbero i valori degli immobili delle grandi città rispetto a quelle che sono rimaste con popolazione stabile o in riduzione, o ai piccoli paesi; quelli dei centri urbani rispetto alle periferie; quelli del nord rispetto al sud.
Per fare questo serve abbandonare la “trickle-down economics”, teoria per cui la riduzione di tasse su redditi elevati e capitale finirebbe per generare crescita e portare benefici anche ai più poveri, teoria smentita nei fatti.
La pandemia dovrebbe aver reso quanto mai evidente che i servizi pubblici sono a beneficio di tutti: occorre rivalutare la dimensione perequativa della leva fiscale.
Per il finanziamento del welfare si continua a fare affidamento in larga parte su imposte sul reddito e contributi sociali, che colpiscono prevalentemente o esclusivamente i redditi di lavoro. Nel frattempo la distribuzione della ricchezza è cambiata in modo significativo. Il sistema fiscale non è più al passo con queste evoluzioni, non servono necessariamente più tasse ma devono essere distribuite meglio.
La crescita deve essere inclusiva e per questo serve una fiscalità più progressiva.
Le ricette ci sono, supportate da tutti le grandi istituzioni internazionali e da gran parte dei cittadini, a favore di un fisco più progressivo.
Serve tradurre nel contesto italiano il vento del cambiamento che arriva da altri paesi, serve non aver paura delle proprie idee. Un percorso complesso, che non può esser fatto tutto d’un fiato, ma il primi passi non possono più attendere.
Qui 5 proposte per iniziare il cammino:
· Estensione a base imponibile IRPEF a redditi da capitale e immobiliare, dal 2023.
· Progressiva abolizione regime forfettario per lavoratori autonomi e piccole imprese [oggi a parità di reddito, per esempio 35.000 euro, un lavoratore indipendente continuerà a pagare 2.500 euro in meno di un dipendente e 3.400 in meno di un pensionato] per trasformare l’Irpef in una imposta speciale su tutti i redditi di lavoro e da capitale.
· Revisione tassazione patrimoniale:
o Introduzione patrimoniale sulle grandi ricchezze: visto che la ricchezza finanziaria è elevata (5.000 miliardi) e molto concentrata, un prelievo patrimoniale creerebbe un gettito consistente finalizzato a migliore servizi collettivi e occupazione pubblica anche con una quota esente molto alta (più di 300.000 euro di ricchezza, escludendo i beni immobili) e con un’aliquota bassa e progressiva.
o Revisione imposta su successione e donazioni, per ottenere un gettito in linea con paesi come Francia e Inghilterra.
o Riforma del catasto, a gettito invariato con un aumento previsto per i contribuenti titolari di patrimoni di maggior valore.
· Aumento “windfall tax” sugli extra profitti aziende energetiche a x% degli extra profitti e estensione a tutti i settori che hanno beneficiato o stanno beneficiano della crisi.
Servizi pubblici locali a rilevanza economica e a rete
I servizi pubblici locali a rilevanza economica e a rete (SPL) sono un’infrastruttura fondamentale per la qualità della vita di città e paesi. Una gestione efficiente e sostenibile dei rifiuti, del servizio idrico integrato o del trasporto pubblico, è tra le principali missioni di un governo locale. Essa chiama in causa diversi aspetti: la proprietà delle reti e dei capitali (ownership); il modello politico-istituzionale posto a governo dell’infrastruttura (governance); l’impatto socio-ecologico delle tecnologie e dei dispositivi organizzativi utilizzati per fornire i servizi (performance).
Nessuno di questi aspetti è politicamente neutro. Per un ente locale, appaltare a privati un SPL, affidarlo ad una in-house su cui si esercita un controllo analogo o ad una multiutility quotata in borsa, è una scelta che produce conseguenze strutturali sulla direzione e il controllo dei servizi. L’ampiezza e i meccanismi decisionali propri di un Ambito Territoriale Ottimale (ATO) grande quanto una Provincia, non corrispondono a quelli di un singolo ente locale, o di un’Unione di piccoli Comuni. Puntare sulla raccolta differenziata anziché sull’incenerimento, sulla manutenzione straordinaria delle reti anziché su nuove fonti di approvvigionamento idrico, implica impatti diversificati su occupazione, costo del servizio, esternalità ambientali.
Non tutte le scelte sono collocate sul piano locale. A livello nazionale, la materia dei SPL ha visto negli ultimi anni un intervento ricorrente del legislatore nazionale. Tutto nasce dai Referendum Popolari del 12-13 giugno 2011, quando più di 25 milioni di cittadine/i hanno votato per abrogare l’art.23 bis del dl 112/2008, che imponeva la privatizzazione degli SPL e la dismissione delle municipalizzate, e una parte del comma 1 dell’art.154 del TUA (Testo Unico Ambientale) che prevedeva il riconoscimento di una quota di remunerazione del capitale investito nella tariffazione del servizio idrico integrato.
I governi che si sono susseguiti hanno provato a ignorare la volontà popolare prima imponendo un limite economico ristrettissimo agli affidamenti in-house (200mila euro), abolito dalla Corte costituzionale, quindi limitando la possibilità degli enti locali con popolazione al di sotto dei 30mila abitanti di costituire società pubbliche, e infine prevedendo maggiori oneri procedimentali alle amministrazioni locali che optano per la gestione pubblica. In particolare, l’art.192 del Codice Contratti, prevede la motivazione rafforzata, ovvero l’obbligo per l’ente optante per l’affidamento in-house, di giustificare con una relazione le ragioni del “mancato ricorso al mercato”. L’art.6 del DDL Concorrenza ribadisce e rafforza tale obbligo, aggiungendo l’onore di trasmettere gli atti dell’affidamento in house all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, uno speciale sistema di monitoraggio dei costi, la rivalutazione reiterata delle condizioni di market failure, e incentivi alle aggregazioni verso le multiutilities. In caso di affidamento a privati invece, non viene chiesto nulla, se non una relazione sui costi del servizio. L’obiettivo è chiaro: creare un ambiente ostile per le amministrazioni locali favorevoli all’in-house, e bloccare la pur incipiente tendenza alla rimunicipalizzazione visibile in tanti territori.
La gestione pubblica è quindi, secondo questa impostazione normativa, l’eccezione, non la regola. Eppure, guardando al Paese, secondo la banca dati di Invitalia, il 40,8% dei cittadini è servito da società in house nel campo dei rifiuti, mentre nel settore idrico, la gestione pubblica copre il 75,6% degli abitanti. A livello macroregionale, la gestione privata è decisamente più diffusa a Sud e nelle isole (con punte del 90% nel settore rifiuti, ad esempio in Sicilia e Sardegna) dove, al netto di alcune eccezioni nelle grandi città come Napoli, mancano infrastrutture aziendali a capitale pubblico. Del resto, guardando anche ai dati sul valore della produzione, circa dieci miliardi di euro per i rifiuti solidi urbani, e circa 2,3 considerando solo i 5 principali gestori idrici italiani, non sorprende l’interesse del capitale privato a entrare nel mercato acquisendo quote di multiutilities o attraverso proprie aziende.
Il punto è se l’interesse privato sia compatibile con quello pubblico. Anche qui, i piani di osservazione sono diversi. il numero di aziende private interessate da interdittive antimafia e da procedimenti giudiziari è elevatissimo. La gestione del servizio idrico secondo i canoni del libero mercato crea disuguaglianze di accesso inaccettabili. Anche il ricorso alle società quotate in borsa con capitale misto, prevalentemente concentrato nel Centro Nord e Nord Italia, presenta il conto in termini di invadenza del capitale acquisito sul mercato finanziario in merito alle scelte sugli investimenti, alla determinazione delle tariffe, alla capacità di indirizzo e controllo degli enti locali.
È fondamentale ribadire, anche in virtù dell’art. 5 della Costituzione, che le comunità locali devono essere libere di auto-determinare ownership, governance e performance degli SPL. Tuttavia, è possibile immaginare una linea di politica pubblica nazionale che riequilibri gli oneri per gli enti locali affidanti e dia al dispositivo referendario la considerazione dovuta. Si tratta di misure da un lato regolamentari, da un altro di politica industriale, che potrebbero comportare non solo più libertà di scelta per le amministrazioni locali, ma anche attivare circuiti virtuosi dal punto di vista economico.
i) Va rivista tutta la normativa, oggi frammentata in diversi dispositivi normativi, sugli SPL. In particolare, va eliminato l’obbligo di giustificazione per il ricorso al mercato e vanno parificate le misure di controllo sull’anticorruzione tra pubblico e privato;
ii) Per le ragioni di cui sopra, va completamente stralciato l’art.6 del DDL Concorrenza, che ribadisce la privatizzazione come forma principale e ordinaria di gestione degli SPL e disincentiva la gestione in house;
iii) Va favorita, specie nel Sud Italia, la costituzione di soggetti imprenditoriali pubblici che si occupino di realizzare, e quindi di gestire, le infrastrutture fondamentali per assicurare una gestione sostenibile e circolare dei rifiuti, dell’acqua e del trasporto pubblico;
iv) Va costituito un fondo pubblico nazionale per sostenere i processi di ripubblicizzazione del servizio idrico integrato nelle zone dove esso attualmente è in concessione a soggetti privati. La transizione tra i due modelli richiede infatti oneri rilevanti per gli enti locali, ma presenta sostenibilità a lungo termine per capitale paziente;
v) Tali azioni, vanno pensate in un contesto di riforma più ampia della finanza locale, con un allentamento delle rigidità che bloccano la spesa in conto capitale dei Comuni (almeno su alcuni settori nevralgici, come appunto quelli coperti da SPL), e del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti, la cui progressiva aziendalizzazione ha determinato un accesso al credito più oneroso per il finanziamento dell’economia fondamentale.
Per una società digitale giusta
Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e la loro diffusione sono il vettore di cambiamento più importante del nostro tempo.
Oggi 50,85 milioni di italiani, pari all’84,3% della popolazione, si collegano ad internet, e il 97,3% della popolazione ha uno smart phone (cfr. https://wearesocial.com/it/blog/2022/02/digital-2022-i-dati-italiani/). Si producono dati digitali a un ritmo crescente in modo esponenziale: nel 2020 nel mondo si producevano 64,2 Zettabytes di dati e si stima che la quantità di dati digitali raddoppi ogni 2 anni. I GAFAM hanno una capitalizzazione di borsa superiore ai 9.000 miliardi di dollari: un valore che supera il PIL di Italia, Francia e Germania messi insieme.
Tutto questo si è prodotto in pochi decenni. Stiamo vivendo un cambiamento di paradigma che richiede un deciso intervento della politica e l’adeguamento di molte regole, come per esempio quelle in materia di concorrenza, che sono ormai obsolete ed inadeguate.
Negli anni ‘90 molti vedevano nell’architettura orizzontale (punto-punto, o p2p) di internet e nell’affermarsi del modello del software libero (che ormai è dominante nell’industria di settore) le condizioni per la costruzione di una società digitale giusta, centrata sui diritti fondamentali e sui valori di libertà uguaglianza e fraternità.
Ma la politica, e quella italiana più delle altre, non è stata permeabile a quelle istanze e, complice anche il clima ideologico dei decenni passati, ha preferito “lasciar fare” e permettere che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione fossero sviluppate dal mercato. Così le tecnologie digitali sono state disegnate secondo altri fini, diversi da quelli di costruire una società più libera, giusta e solidale.
Il capitale ha quindi potuto costruire, senza vincoli, la macchina di controllo e profilazione che oggi è nelle mani di un piccolo gruppo di aziende: il “capitalismo della sorveglianza”, per utilizzare la concettualizzazione della Zuboff, si è consolidato e oggi i GAFAM controllano ed usano a fini di profitto enormi quantità di dati che i cittadini e le istituzioni pubbliche e private (in Italia, ma non solo) gli consegnano in modo a volte inconsapevole a volte superficiale. Le tecnologie, disegnate per massimizzare il profitto, dividono i cittadini in bolle di percezione polarizzanti, che danneggiano il tessuto sociale. Questo stato di cose può essere utilizzato (ed è stato utilizzato) per danneggiare la collettività a vantaggio di alcuni, come per esempio per distorcere i risultati elettorali (come il caso Cambridge Analytica) o per perseguire interessi di paesi terzi (come nel caso Snowdem).
Un dato ormai chiaro è che le tecnologie non sono neutrali; le tecnologie si disegnano e, di conseguenza, realizzano il risultato atteso da chi le ha progettate. È quindi fondamentale lavorare con consapevolezza sulle tecnologie digitali, favorendo quelle che realizzano i valori e gli obiettivi di Unione Popolare. D’altronde, non gestire la dimensione digitale oggi significa non gestire la società, favorire derive autoritarie, disperdere valore, rinunciare a conseguire i valori che si perseguono.
Un lavoro politico efficace sulla dimensione digitale deve partire dallo status quo ed intervenire chirurgicamente, apportando correttivi dove questi possono essere efficaci, dando spazio al disegno consapevole di strutture socio-tecnologiche che potenzino le comunità (rendendole consapevoli, capaci e resilienti) e tenendo al centro la tutela dei diritti fondamentali della persona e il rispetto della dignità umana.
Per questo è utile guardare agli indirizzi che vengono dall’Unione Europea: l’adozione del GDPR è l’esempio più chiaro (ma non l’unico) della crescente centralità dei diritti fondamentali della persona e della dignità umana nelle scelte di normazione dell’Unione Europea.
Questa specificità distingue l’Unione Europea dal resto del mondo (USA, Cina, Russia ed altri) e caratterizza l’identità Europea in maniera forte, coinvolgente e credibile.
In Cina si assegna spazio a tecnologie di sorveglianza e profilazione private e pubbliche. Negli USA, la scelta di lasciare gli operatori di mercato liberi di perseguire il profitto, ha inclinato la società in direzioni pericolose, diffondendo disinformazione, menzogne e conflittualità, e danneggiando la società nel suo complesso. Le dinamiche sviluppate in quei paesi hanno prodotto tecnologie digitali che permettono il controllo e la sorveglianza, ora dello stato, ora degli operatori privati.
Per tenere al centro i diritti fondamentali delle persone, la dignità umana e il bene comune sono necessarie norme e politiche che impediscano il prodursi di modelli parassitari ed estrattivi e derive oligopolistiche che, monetizzando i dati dei cittadini, favoriscono la concentrazione di posizioni di vantaggio nelle mani di pochi e riducono gli spazi di libertà ed autonomia per tutti gli altri.
D’altronde, non mancano le opportunità e gli spazi sui quali lavorare in modo puntuale, come evidenziano le considerazioni che seguono, con conseguenti punti di programma.
Sul versante dell’amministrazione pubblica l’Italia è dotata di un quadro normativo favorevole all’uso e alla distribuzione di software libero nelle pubbliche amministrazioni; mentre gli altri paesi e le istituzioni europee si muovono nella stessa direzione, vanno potenziate le capacità d’azione, favorita la diffusione della cultura sul tema e corrette alcune direttive emergenti.
Pertanto si propone di:
adottare norme che favoriscono la mutualizzazione delle spese in servizi informatici da parte delle pubbliche amministrazioni, anche mediante il coordinamento delle in-house informatiche, per incentivare lo sviluppo e il riuso di tecnologie in software libero;
realizzare il Polo Strategico Nazionale utilizzando esclusivamente software libero, senza ricorrere all’apporto di tecnologie proprietarie realizzato da operatori extra UE e coordinando gli sforzi di disegno di tecnologie a controllo UE con gli altri paesi UE, tra l’altro, nell’ambito del progetto Gaia-X;
adottare norme che favoriscono la decentralizzazione, l’interoperabilità e l’organizzazione distribuita e federata dei servizi digitali delle pubbliche amministrazioni;
adottare norme e politiche che diffondono cultura e consapevolezza informatica nelle pubbliche amministrazioni e nelle scuole (sia ai docenti che agli studenti), sviluppando competenze (nell’uso e nel funzionamento dei sistemi in software libero e hardware open source) e pensiero critico.
Per ciò che riguarda la privacy, la sovranità e i beni comuni la tutela dei dati personali degli utenti contro gli abusi dei GAFAM (ma non solo) è abilitata dal GDPR, ma è necessaria un’azione politica chiara per potenziare i cittadini, supportarli nell’esercizio dei propri diritti e nell’acquisire sia sovranità individuale sui propri dati personali sia sovranità collettiva sui dati (inclusi quelli personali). In questo senso è di aiuto il nuovo regolamento sul governo dei dati (2022/868) recentemente approvato dall’UE che, tra l’altro, favorisce il riuso dei dati per il bene comune e pratiche di altruismo dei dati, con l’effetto di favorire la generazione di beni comuni digitali.
Pertanto si propone di:
adottare norme che proteggono più efficacemente l’anonimato dei cittadini, vietano attività di sorveglianza di massa in luoghi pubblici e fissano le condizioni per lo svolgimento di attività di sorveglianza in luoghi privati, in particolare per il caso dei controlli sui lavoratori;
adottare norme che, in caso di violazione dei dati personali, riconoscono danni punitivi a favore del soggetto leso, disincentivando lo sfruttamento delle posizioni di vantaggio oligopolistico e riconoscendo anche a organizzazioni sufficientemente rappresentative il potere di far valere i diritti degli interessati;
adottare norme che favoriscano, esperienze di riuso e di altruismo dei dati adottando idonee misure tecniche ed organizzative e incentivando la nascita nei territori di coalizioni tra soggetti diversi;
adottare norme che istituiscano un’autorità che attui efficacemente le previsioni del regolamento sul governo dei dati (per esempio, ampliando i compiti del Garante per la protezione dei dati personali, che potrebbe assumere la denominazione di Garante per la protezione dei dati personali, l’accesso ai dati di pubblico interesse e l’attuazione del regolamento sul governo dei dati), attribuendole espressamente il compito di promuovere l’accesso ai dati per fini di pubblico interesse, e il potere di ordinare ai privati di consentire l’accesso, per tali fini, ai dati dagli stessi trattati.
Per gli aspetti che riguardano la democrazia digitale, per costruire un tessuto sociale capace di partecipare attivamente alla vita delle istituzioni utilizzando in modo virtuoso le tecnologie digitali, è necessario creare le condizioni adatte e quindi abilitare la partecipazione digitale dei cittadini, sia nelle istituzioni pubbliche che nello stesso partito.
Pertanto si propone di:
adottare norme che abilitano la raccolta delle firme di sostegno alle liste elettorali in formato digitale;
adottare norme che consentono lo sviluppo di politiche e bilanci partecipativi mediante tecnologie digitali;
strutturare il governo del partito in modo da massimizzare la partecipazione dal basso, sia in fase di voto, sia in fase di proposta, adottando tecnologie digitali disegnate con lo scopo di favorire il dialogo, l’incontro di posizioni diverse e la generazione del senso di comunità dei partecipanti.
Infine, per gli aspetti connessi alla politica industriale del software libero e dell’hardware open source, lo studio commissionato dalla Commissione Europea “L’impatto del software e dell’hardware open source sulla tecnologica, la competitività e l’innovazione nell’economia dell’UE” (Vedi https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/library/study-about-impact-open-source-software-and-hardware-technological-independence-competitiveness-and) stima che nel 2018 le aziende dell’UE hanno investito circa 1 miliardo di euro in software libero, con un impatto sull’economia europea compreso tra 65 e 95 miliardi di euro; stima inoltre un rapporto costi-benefici superiore a 1:4 e prevede che un aumento del 10% dei contributi al software libero genererebbe annualmente uno 0,4%-0,6% di PIL in più, oltre a 600 nuove imprese ICT nell’UE.
L’Italia deve cogliere queste opportunità con adeguate politiche industriali che favoriscano il software libero e l’hardware open source.
Pertanto si propone di:
adottare politiche e norme che favoriscano lo sviluppo dell’industria del software libero e dell’hardware open source.
La trasparenza algoritmica
Uno dei temi più caldi nel dibattito in corso è quello della trasparenza dei sistemi d’intelligenza artificiale. Ci sono già norme che impongono la trasparenza riguardo alla logica di funzionamento dei sistemi d’intelligenza artificiale (ma non solo). In attesa di conoscere la formulazione finale della nuova legge sull’intelligenza artificiale, è importante raffinare il quadro normativo nazionale prevedendo ulteriori obblighi specifici che garantiscano la trasparenza algoritmica. Mentre si diffondono le tecnologie d’intelligenza artificiale, l’Unione Europea sta deliberando l’adozione di una nuova legge sull’intelligenza artificiale con lo scopo di contribuire al conseguimento di risultati vantaggiosi dal punto di vista sociale e ambientale, fornire vantaggi competitivi alle imprese e all’economia europea e, allo stesso tempo, assicurare che i cittadini europei possano beneficiare di tecnologie sviluppate e operanti in conformità ai valori, ai diritti fondamentali e ai principi dell’Unione.
Pertanto si propone di:
adottare norme che prevedano per i datori di lavoro l’obbligo di garantire piena trasparenza degli algoritmi utilizzati sui lavoratori;
adottare norme e politiche che favoriscano lo sviluppo e l’uso di sistemi d’intelligenza artificiale pubblicati con licenza libera, con tutte le informazioni utili per consentirne la riproduzione e la verifica (inclusi gli eventuali dati utilizzati per lo sviluppo dei sistemi).
Sanità: il quadro generale
Con l’istituzione nel 1978 del sistema sanitario nazionale l’Italia ha riconosciuto la salute come un diritto di tutti i cittadini – a prescindere dal reddito e dal fatto che si lavori o meno – da attuare attraverso una struttura decentrata di governo e di erogazione. Un tema chiave è il territorio, che fa riferimento a un cambiamento radicale dei modelli di cura: il superamento della centralità ospedaliera, lo sviluppo complementare di funzioni e servizi per la prevenzione (l’igiene pubblica, i consultori, la medicina scolastica e del lavoro), il coinvolgimento dei cittadini e delle collettività locali.
Che cosa sia successo da allora lo si è compreso abbastanza chiaramente con la pandemia. La lista dei problemi è lunga.
Innanzitutto, è stata adottata una politica di sotto-finanziamento o de-finanziamento. I tassi di crescita della spesa sanitaria pubblica sono stati pressoché nulli tra il 2010 e il 2019. Secondo i dati Oecd (2020), nel 2018 la spesa sanitaria pubblica sul Pil è pari al 6,5% , cioè 2-3 punti in meno rispetto a quelli di Francia e Germania. La spesa pro capite nel 2020 è stata di 5.642 euro, contro i 7.654 della Germania e i 6.121 euro della Francia.
Sono state sacrificate la medicina territoriale, le cure primarie e le attività di prevenzione e igiene pubblica, che secondo gli ultimi dati disponibili non superano il 4% del totale della spesa a fronte dello standard del 5% fissato dalla programmazione nazionale.
Sono stati sacrificati anche gli ospedali, grazie a una strategia massiccia di (irrazionale) razionalizzazione che ha portato nel corso degli anni alla loro concentrazione in strutture medio-grandi e a una drastica diminuzione dei posti letto: 3,1 per 1000 abitanti nel 2018, contro gli 8 della Germania e i 6 della Francia. Ciò ha causato l’aumento delle diseguaglianze territoriali e la riduzione ulteriore delle opportunità di accesso ai servizi fondamentali per la salute nelle cosiddette aree interne meno densamente popolate.
Quanto al personale, fra il 2008 e il 2017 è stato ridotto di 42.000 unità (6,2%). Nel periodo 2018-2025, è previsto un ammanco di circa 16.700 medici, con le punte più alte in medicina di emergenza, pediatria, anestesia, rianimazione e terapia intensiva. Ammanco che ormai notizia di ogni giorno alle quali le Regioni cercano di supplire nei modi più fantasiosi.
I dati sulla riduzione della spesa e delle risorse vanno quindi letti nel quadro di un ampio e profondo processo di riorganizzazione ispirato alla peggiore aziendalizzazione, che ha immesso nel sistema sanitario modelli basati sulla produzione di prestazioni e sulla massimizzazione della produttività, portati quindi a concentrarsi sulla cura della malattia e non sulla prevenzione e promozione della salute. Ovvero modelli che non mettono al centro il paziente e il cittadino.
In alcune regioni in particolare, a ciò si assommano le dinamiche di privatizzazione o “commercializzazione”: i servizi sanitari sono stati ripensati come aree di business altamente remunerative, perciò attrattive per i soggetti privati, e il loro funzionamento è stato impostato secondo i meccanismi tipici del mercato attraverso una finta concorrenza tra privato e pubblico. Questi meccanismi hanno finito con l’incentivare le attività più redditizie, dove per i privati è conveniente investire: le attività ospedaliere a discapito di quelle territoriali, le prestazioni specialistiche ad alta componente tecnologica a discapito delle prestazioni ambulatoriali. Ciò ha pesantemente contribuito al declino della prevenzione e della promozione su base territoriale.
Rilevazioni sempre più preoccupanti documentano, inoltre, la crescita dei fondi sanitari integrativi, e i problemi che ne derivano riguardo alla appropriatezza effettive delle cure, all’eguaglianza di accesso ai servizi per la salute, e alla sostenibilità per la fiscalità generale.
Infine, si sono rafforzate frammentazioni e squilibri territoriali. Negli ultimi 18 anni gli investimenti al Sud sono pari solo al 17,9% del totale. Per quanto riguarda la spesa pro-capite, a fronte di un importo media annuo a livello nazionale di 44,4 euro, quella nel Nord-Est è pari a 76,7, quella nel Sud a 24,7, mentre al Centro e al Nord-Ovest i dati sono molto vicini alla media.
Quando una pandemia come quella ancora in corso mette in luce una domanda di salute riguardante una popolazione nel suo insieme, questo sistema si rivela non soltanto inadeguato ma anche contraddittorio rispetto alle condizioni cui dovrebbe corrispondere la produzione e la tutela della salute come servizio e bene fondamentale. Tanto più perché abbiamo oramai capito che la salute è determinata non solo da fattori clinici ma da fattori sociali: le condizioni di vita e di lavoro, i servizi accessibili, il reddito e la posizione socio-economica, il quadro di policy. E che la salute umana e la salute ambientale sono interconnesse.
Occorre sicuramente – e si può – ripartire dal territorio, sostenendone e sviluppandone capacità, risorse, competenze. Le Case della Comunità, previste dal PNRR, possono andare in questa direzione a condizione che esse siano inscritte in una strategia complessiva orientata a investire su (i) la dotazione adeguata di personale e infrastrutture, (ii) l’accesso alle cure dei soggetti vulnerabili (si pensi ai migranti) (iii) la risposta tempestiva a pandemie ed emergenze, (iv) l’assistenza domiciliare supportata dalla telemedicina, (v) l’integrazione fra interventi sanitari e interventi sociali, (vi) l’adozione di metodologie di lavoro basate sui determinanti sociali per la salute e su approcci sistemici come one health che prendono in conto l’interdipendenza fra la salute delle persone e l’ambiente in cui vivono.
Da un punto di vista prettamente politico, è necessario rimettere realmente la Salute al centro del dibattito pubblico e di tutte le politiche di governo (HIAP, Health In All Policies), e attivare un’operazione verità sull’importanza di avere un sistema sanitario pubblico e universalistico, che sappiamo essere in natura più efficiente (in termini di costo) ed equo di un sistema mutualistico o basato su assicurazioni private.
Infine, non si può menzionare il tema della corruzione. Come evidenziato da EHFCN (European Healthcare Fraud & Corruption Network, https://www.ehfcn.org), quello della corruzione è purtroppo un tema transnazionale e, di conseguenza, (quasi) indipendente dai modelli organizzativi dei sistemi sanitari. È tuttavia necessario predisporre strumenti che ne permettano il contrasto.
Sanità: falsi problemi e nuove soluzioni
Spesso si individua nella riforma del titolo V la causa principale della differenza dei servizi socio-sanitari garantiti dalle Regioni. La pandemia ha fortemente alimentato questa versione dei fatti. Ma è sostanzialmente un falso problema. Come ben argomentato da Nerina Dirindin[1], le maggiori responsabilità sono in capo al livello centrale, ovvero il Ministero della Salute e i suoi occupanti dalla riforma in poi, sono i primi responsabili (chi più, chi meno) del degrado del nostro SSN. È quindi mancata la politica. Perché con la Sanità non si vincono le elezioni (cit).
Quali sono i vantaggi del sistema regionale attuale? Sono sostanzialmente due. Il primo è quello di permettere alle Regioni di superare i limiti e le mancanze del livello centrale (per questo la Sanità è meglio in alcune Regioni) mentre il secondo è l’organizzazione ad hoc dei servizi sanitari. Se pensiamo all’organizzazione della campagna vaccinale, quante vittime in più avremmo avuto se tutte le Regioni fossero state “lente”, nella fase iniziale, come alcune Regioni?
Il secondo è spesso non considerato nel dibattito pubblico, e concerne la logistica dei servizi sanitari. I servizi socio-sanitari dovrebbero essere organizzati tenendo in considerazione non solo il contesto socio-economico ma anche quello geografico e di infrastrutture, viste le enormi differenze che corrono tra Regioni e all’interno di una stessa Regione. In altre parole quello che può andare bene in Emilia Romagna, può non funzionare in Sardegna o Basilicata, e viceversa.
Tuttavia, tutti noi cittadini osserviamo le inefficienze del nostro SSN. Per risolvere questo problema annoso (che è tipico di tutti i sistemi sanitari pubblici), in molti propongono un aumento del personale sanitario, oltre che di risorse strumentali. Pur essendo fortemente auspicabile (vedi quadro generale), è opportuno osservare che tale aumento non si porta dietro automaticamente l’aumento dell’efficienza in termini di riduzione dei tempi di accesso al servizio[2] [3]. Al contrario, l’aumento del personale avrà invece un impatto benefico sulla qualità della cura con conseguente beneficio anche economico[4].
Se con più personale aumentiamo la qualità del servizio, come facciamo a ridurre i tempi di attesa (non le liste di attesa) di accesso ai servizi sanitari? Come facciamo a ridurre i tempi di attesa in un pronto soccorso? In altre parole come rendiamo il nostro SSN pronto a rispondere velocemente ai cittadini senza deteriorare la qualità dei servizi offerti?
Organizzare un servizio significa considerare il percorso del paziente, dal suo primo contatto con il Sistema Sanitario al trattamento terapeutico dopo la diagnosi, in tutte le fasi e le procedure svolte all’interno del SSN. Tali percorsi sono organizzati in PDTA (Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali), ovvero interventi complessi basati sulle migliori evidenze scientifiche disponibili, e caratterizzati dall’organizzazione del processo di assistenza per gruppi specifici di pazienti, attraverso il coordinamento e l’attuazione di attività standardizzate da parte di un team multidisciplinare.
Occorre quindi operare sui processi che permettono la corretta esecuzione del PDTA. Da questo punto di vista, il nostro SSN è all‘anno zero, e le esperienze esistenti sono locali e sporadiche se ci confrontiamo con le migliori realtà europee. Operare sui processi significa applicare le metodologie di descriptive, predictive e prescriptive analytics, ovvero – rispettivamente – capire cosa è successo, prevedere quali scenari potrebbero verificarsi, e identificare la migliore o le migliori risposte a tali possibili scenari.
Sono almeno 50 anni che le scienze di analisi quantitativa si occupano dell’organizzazione dei sistemi sanitari in diretta collaborazione con il fornitore del servizio sanitario. Queste metodologie (anche le più innovative) possono essere applicate sul campo senza particolari paure anche in Italia. Tornando al pronto soccorso, un esempio[5] ci mostra come sia possibile ridurre drasticamente il tempo che intercorre tra triage e prima visita usando un sistema di supporto alle decisioni basato su un modello predittivo e algoritmi di prioritizzazione.
Occorre quindi che il SSN, ad ogni livello, si doti di nuove competenze e professionalità multidisciplinari che operano nella gestione dei servizi sanitari (Health Care Management Science) allo scopo di gestire al meglio i PDTA mettendo al centro il paziente ma al contempo ottimizzando le risorse disponibili.
Ma non è sufficiente. E’ necessario anche che il livello centrale si doti di un sistema di monitoraggio e controllo del rispetto dei diritti dei cittadini, utile a segnalare con tempestività le carenze più gravi sui territori. Attualmente parte di questa funzione è demandata al Progetto Nazionale Esiti (PNE) ma la limitatezza della capacità di analisi non ha fornito aiuto al decisore politico.
Non ha infatti senso sapere che i tempi di accesso al PS in Piemonte siano più o meno di quelli della Lombardia o della Sicilia. Non servono perché non permettono di attivare il ciclo della qualità, ovvero non dicono dove si può migliorare. Quello che si dovrebbe poter dire è: date le risorse a disposizione e il contesto operativo, quel pronto soccorso di più non può fare oppure migliorare del 10% ponendo in essere una lista di azioni concordate con politici, dirigenti, operatori e cittadini.
Sembra fantascienza ma non la è grazie ai Big Data della Sanità[6], che possono essere usati per valutare interi sistemi sanitari regionali sfruttando le potenzialità del calcolo ad alte prestazioni. Anche per questo i Big Data della Sanità devono restare pubblici: essi sono un bene comune come l’acqua.
In sintesi, il SSN si deve dotare di nuove competenze e professionalità dal mondo dell’Analytics per creare delle Decision Science Units interne all’organizzazione il cui scopo deve essere quello di valutare l’erogazione dei servizi sanitari erogati individuando colli di bottiglia e fornendo suggerimenti per il miglioramento, stabilendo inoltre collaborazioni strutturali con le Università per favorire l’aggiornamento formativo e la ricerca. Al contempo, il Ministero (magari in Agenas) deve dotarsi di un sistema di monitoraggio e controllo continuo del rispetto dei diritti dei cittadini, utile a segnalare con tempestività le carenze più gravi sui territori, misurando anche le performance dei sistemi sanitari, e aiutando la programmazione del personale socio-sanitario[7].
Quest’ultimo punto è sicuramente quello più sfidante. Ma il nostro SSN è sempre stato centro di sperimentazione e innovazione. L’esperienza ci dice che i medici sono generalmente d’accordo, il vero freno – spesso ma non sempre – sono i dirigenti di nomina politica. A quando dirigenti nominati soltanto per selezione pubblica e aperta?
Riassumendo le proposte / punti:
Aumentare il personale socio-sanitario che opera nel nostro SSN guidato da una seria programmazione tenendo conto delle reali esigenze del sistema, e non solo delle risorse economiche disponibili.
Dotare gli attori del SSN (grandi ospedali, ASL, Regioni) di Decision Science Unit per l’analisi e il miglioramento dei servizi erogati acquisendo inizialmente personale specializzato ma al contempo avviando nuovi percorsi formativi di livello universitario. Analogamente, dotare il Ministero di un sistema di monitoraggio e controllo continuo del rispetto dei diritti dei cittadini, utile a segnalare con tempestività le carenze più gravi sui territori, misurando anche le performance dei sistemi sanitari.
Scuola
L’istruzione pubblica è una risorsa fondamentale per impostare una comune idea di cittadinanza, limitare le differenze di accesso alla cultura e redistribuire le opportunità a prescindere dalla provenienza sociale. Per la “terza via” che negli anni Novanta cercava di aggiornare i propri riferimenti a una società che si voleva pienamente sviluppata e lanciata verso il benessere diffuso, questo ruolo era interpretato secondo la retorica della “meritocrazia”: l’uguaglianza di accesso alle opportunità di istruzione doveva coincidere con una selezione dei “migliori”, destinati a costituire una classe dirigente legittimata attraverso il filtro della qualità.
Attraverso questa lente possono essere lette le proposte di riforma promosse da Luigi Berlinguer. Queste erano animate da intenti di fondo progressivi, come la lotta alla dispersione scolastica, il prolungamento degli anni di studio e l’ampliamento dell’accesso alla formazione universitaria. Dai primi anni Duemila, invece, l’impostazione preminente è quella neoliberale, ovvero:
– Riduzione del perimetro del servizio educativo pubblico, sia sul piano delle risorse investite, sia su quello della capacità progettuale d’insieme, sostituita da procedure di valutazione delle performance destinate a premiare chi incontra i risultati attesi dal potere politico e a penalizzare chi opera in contesti più difficili;
– Riduzione della portata culturale dell’esperienza scolastica, letta essenzialmente come funzionale alle esigenze di un “mercato” che, nella forma immaginata dal decisore pubblico, costituisce una variabile indipendente;
– Disciplinamento del personale, concepito come mero esecutore dei risultati che poi troveranno la loro rilevazione nelle procedure di controllo della qualità;
– Generale “individualizzazione” dell’operato dei docenti e dei risultati conseguiti dagli studenti, non più percepiti in una dimensione d’insieme ma anzi visti quasi esclusivamente in un’ottica di competizione.
Una nuova politica per la scuola deve scardinare questa visione, che si è imposta come senso comune, partendo proprio dalla pervasiva idea di “meritocrazia”. È infatti chiaro che:
– Lungi dal ridurre le differenze sociali, essa le acuisce, poiché valorizza qualità più facilmente accessibili da chi ha una robusta rete di sostegno alle spalle, soprattutto in un contesto di relativa riduzione dell’impegno finanziario pubblico nella scuola.
– Non esistendo una definizione univoca e universale del “merito”, ogni forma di selezione meritocratica impone un’unica visione culturale, spesso confacente a esigenze di conservazione, e in ogni caso inaccettabile in una società complessa e articolata come quella contemporanea, nella quale non ci si può permettere di disperdere nessun tipo di talento.
– Rispetto ad altri paesi sviluppati la società italiana presenta ancora un tasso di dispersione scolastica dopo le medie inferiori più ampio (circa il 14%, peraltro concentrato in alcune aree) e una quota di individui in possesso di un titolo di istruzione superiore nella fascia di età 25-34 anni decisamente inferiore (circa il 29%): l’urgenza non è quella di limitare e selezionare l’accesso ai gradi più alti degli studi, ma quella di promuoverlo con un’istruzione in grado di offrire al maggior numero possibile di ragazzi e ragazze gli strumenti per proseguirli.
Una nuova politica scolastica deve dunque fondarsi su altri valori:
– Universalità: l’obbligo scolastico ai 18 anni deve essere sostanziato da un sostegno concreto al diritto allo studio, dall’accesso per chi ne ha bisogno ai servizi abitativi, di trasporto e di aiuto didattico necessari ad affrontare nel modo migliore gli studi universitari, e da un impegno vero nella formazione continua destinata a tutte le fasce di età. In una parola, il diritto all’accesso agli studi deve diventare vero diritto a coltivare la propria possibilità di successo.
– Progettualità: il sistema scolastico deve impiantarsi su un comune progetto di cittadinanza e di società, ma per farlo deve adeguarsi alle diverse realtà sociali e territoriali in cui le scuole operano. Per questo l’autonomia deve diventare uno strumento di dialogo degli istituti con le esigenze della propria area di riferimento, nell’ambito di una gestione complessiva che si ponga l’obiettivo di offrire a tutto il paese servizi comparabili. In quest’ottica le rilevazioni statistiche nazionali (INVALSI) e comparative (PISA, o PIAAC per gli adulti) devono essere strumenti conoscitivi per individuare le criticità e le buone pratiche da diffondere.
– Valorizzazione: nella scuola lo studente deve trovare la strada per sviluppare le sue attitudini e coltivare i suoi interessi, arrivando attraverso di essi a maturare le conoscenze condivise necessarie alla vita associata contemporanea e finanche le qualità culturali e morali per metterla in discussione. L’offerta educativa deve essere abbastanza varia da consentire al maggior numero di profili intellettuali di migliorarsi, e occorre spazzare via i residui di gerarchizzazione tra gli indirizzi di studio, per rendere la scuola l’istituzione preparatoria a una società in cui il contributo di tutte e di tutti è valorizzato.
Le proposte operative non possono che partire da un incremento delle risorse investite nell’istruzione, con priorità negli ambiti e nei contesti sociali che hanno maggior bisogno di rinnovamento strutturale delle scuole, senza una logica di competizione tra istituti e individui che privilegerebbe chi già ha meno problemi, ma individuando la libertà di gestione come valore a valle rispetto a un piano complessivo di diffusione capillare dei servizi scolastici di qualità.
Intrecciata a ciò è la necessità di mettere al centro i protagonisti della vita educativa, ovvero gli studenti e soprattutto gli insegnanti. L’impostazione neoliberale tende ad alimentare un fittizio conflitto di interessi tra corpo docente e resto della società, ignorando che una scuola che funziona compone gli interessi verso comuni obiettivi migliorativi. Il corpo docente italiano, la cui formazione sul piano professionale e didattico va senz’altro potenziata, rappresenta una risorsa fondamentale di competenze culturali e di esperienza che va coinvolta nell’elaborazione di una nuova idea di scuola, e soprattutto in un adeguamento concreto alle esigenze sociali, che avverrà per forza nella vita quotidiana delle classi. Una parte delle risorse materiali da investire sulla scuola dovrà destinarsi al consolidamento delle posizioni docenti, sostenendo la loro formazione all’ingresso e durante il percorso professionale fino a farne un tratto costitutivo, adeguando gli stipendi alle responsabilità, migliorando il rapporto numerico con gli studenti laddove critico, e garantendo le posizioni di ruolo necessarie a rendere le supplenze il dispositivo di assoluta emergenza per cui sono state pensate, così da consolidare continuità didattica e in generale considerazione professionale per il ruolo-chiave nello sviluppo della scuola.
Università e ricerca
L’azione dei governi negli ultimi vent’anni sulla scuola, l’università e la ricerca è stata in continuità. L’idea sottostante è che l’indirizzo del sistema della formazione e della ricerca è inadeguato rispetto alle necessità del sistema economico e che solo con una riforma del primo sarebbe stato possibile un rilancio del secondo. Gli interventi sono stati mirati a colmare il “gap formativo”, cioè la differenza tra la formazione e le esigenze del mercato del lavoro e a vincolare la ricerca di base dirottando i finanziamenti in maniera controllata dall’alto. L’esito è stato catastrofico perché erano sbagliate le premesse.
Secondo il report dell’Istat sulla mobilità interna e le migrazioni internazionali della popolazione residente, tra il 2013 e il 2017 oltre 244mila connazionali con più di 25 anni sono migrati all’estero, di cui il 64%, 156 mila, laureati e diplomati. La tendenza negli anni è in vertiginoso aumento: i laureati italiani che si sono trasferiti all’estero nel 2017 sono stati il +4% rispetto al 2016 ma +41,8% rispetto a 2013. La migrazione, tuttavia, non è solo verso l’estero (Regno Unito, Germania e Francia in primis) ma anche interna: negli ultimi 20 anni, dice l’Istat, la perdita netta di popolazione nel Sud, dovuta ai movimenti interni è stata pari a 1 milione 174mila unità. Questo è un sintomo di un problema strutturale del paese che espelle i giovani, soprattutto i più formati – ovvero la prima ricchezza su cui investire – e che è volutamente ignorato o marginalizzato nella discussione pubblica.
Il taglio alle politiche di formazione avvenuto dal 2008 in poi ha prodotto un calo del 10% degli immatricolati (ma fino al 20% se ci limitiamo fino al 2013), tanto che il nostro paese ha raggiunto l’ultimo posto in Europa per percentuale di numero di laureati nella fascia d’età 25-34 anni (superati anche dalla Turchia), con un valore del 29% mentre la media UE è poco sotto il 40%; dal 2007 i posti di dottorato banditi si sono ridotti addirittura del 43,4%. Il paradosso italiano consiste nel fatto che, malgrado questa situazione disastrosa e preoccupante, pochissimi riescono a trovare un lavoro che sia adatto al grado d’istruzione acquisito e di qui fenomeni come l’emigrazione di massa e la competizione per lavori precari di basso livello.
Questo è il nodo che una forza politica di sinistra dovrebbe mettere in testa alla sua priorità, imponendolo con forza nel dibattito pubblico e segnando così una forte discontinuità con le politiche fin qui attuate che si sono focalizzate sull’abbassamento del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori, invece che sulla competizione basata sulla specializzazione tecnologica, sul mito delle piccole e medie imprese, o addirittura delle effimere start-up, come motore dell’innovazione, invece che sul ruolo di uno Stato imprenditore che sia creatore di duraturi nuovi settori tecnologici e mercati. Questo cambiamento di rotta politica deve essere necessariamente accompagnato dall’apertura di una discussione per cambiare le regole europee: se non si può parlare di rapporto di causalità diretta, certamente c’è stata una correlazione tra l’ingresso dell’Italia nell’euro e, ad esempio, il crollo della produzione industriale del 25% che ha coinciso con lo smantellamento delle grandi industrie a partecipazione statale e con il cambiamento di obiettivo dall’aumento della produttività e della specializzazione tecnologica a quello dell’abbassamento della qualità e del costo del lavoro.
Il problema del mercato del lavoro per il personale con alta formazione sta infatti dalla parte delle imprese: il paradosso italiano è quello di essere al penultimo posto dei Paesi Ocse per quota di laureati nella fascia d’età 25-34 anni, il 29% contro il 45% della media Ocse, e al contempo di esportare i pochi “cervelli” che vengono formati (dal 2007 i posti di dottorato banditi sono calati del 43,4%). Questo poiché pochi trovano una occupazione adeguata al livello d’istruzione acquisito. L’emigrazione di massa e la competizione per lavori precari di basso livello nascono da qui.
La narrativa dominante ha però raccontato tutt’altro: sorvolando sulla mancanza di una richiesta reale di personale ad alta formazione da parte delle imprese e del cronico sotto-finanziamento del sistema universitario e della ricerca, si è identificato il capro espiatorio del problema negli insegnanti e nei professori. Si è attuata, in maniera bipartisan, la riforma Gelmini che avrebbe dovuto salvare l’Università dai “baroni” e invece l’ha consegnata ad una élite di professori spesso contigui alla politica. Il racconto è stato incentrato sulla favola del secchio bucato: prima di riempirlo (dare risorse al sistema), bisogna tapparne i buchi (riformarlo). E così nel 2010 si decise un taglio delle risorse di circa il 20%.
Questa situazione ha prodotto una forte gerarchizzazione dei ruoli, anche per effetto dell’abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituita da un esercito di precari la cui carriera è incerta per le scarse risorse disponibili e che sono incentivati al conformismo, cioè a lavorare su progetti di ricerca che puntano a ottenere, innanzitutto, il consenso della comunità di riferimento piuttosto che a proporre l’esplorazione di nuove idee. Se questo è un fenomeno internazionale, in Italia è incentivato dalla particolare combinazione di fondi limitati e valutazione pervasiva.
Uno dei fenomeni più lampanti che hanno generato le misure dei governi negli ultimi 15 anni è stato un travaso di docenti da un ateneo all’altro. C’è una ripartizione delle risorse che segue la direttrice Sud-Nord: è come se l’equivalente di 280 ricercatori dovesse abbandonare gli atenei meridionali per essere trasferiti nelle più ricche università settentrionali. Vogliamo premiare i virtuosi, si dirà: ma cosa significa “virtuoso”? Il governo Monti stabilì che i pensionamenti in un ateneo A possano essere rimpiazzati da assunzioni in un ateneo B, se B ha un bilancio più solido (più virtuoso) di A. Così ora le università milanesi incamerano l’equivalente di 168 ricercatori in aggiunta al rimpiazzo dei propri pensionamenti: organico sottratto agli atenei del Centro-Sud. Un ateneo per diventare più virtuoso deve semplicemente aumentare le tasse universitarie, senza curarsi del tetto massimo previsto dalla legge e sulla cui violazione nessuno vigila. L’aggettivo “virtuoso” serve dunque per giustificare una politica ispirata dall’effetto san Matteo, il processo per cui le risorse sono ripartite fra i diversi attori in proporzione a quanto già hanno: “I ricchi si arricchiscono sempre più, i poveri s’impoveriscono sempre più”. Secondo gli ideatori, questa maniera di distribuire le risorse avvantaggerebbe, per un effetto di sgocciolamento dall’alto verso il basso, l’intera società. Nel caso dell’istruzione superiore, molti governi considerano obiettivo principale della loro politica, che giustifica l’accentramento delle risorse, quello di avere università nel top delle classifiche mondiali degli atenei. Bisognerebbe invece considerare che tra le dieci regioni europee con i valori più bassi di laureati (fascia di età tra 30/34 anni, dati 2014) ci sono la Sardegna, la Sicilia, la Campania e la Basilicata e che gli studenti iscritti nel mezzogiorno sono crollati rispetto a quello del nord Italia (-18,7% contro un -3,9% nel centro Nord tra il 2006 e il 2015).
Il problema è che se in una situazione di sottosviluppo si usano degli indicatori come l’ammontare delle tasse universitarie per distribuire le risorse si fa una scelta politica in linea con l’effetto San Matteo. Per questa ragione nell’ultimo decennio l’università italiana è stata ridimensionata in modo selettivo: più al Sud che al Nord e poiché si partiva già da una situazione sottodimensionata, l’impatto al Sud compromette le prospettive di interi territori.
Pensando a delle linee di intervento, è necessario innanzitutto aumentare le risorse e distribuirle in maniera diffusa sia per le linee di ricerca che per la collocazione geografica, invertendo così la tendenza a premiare solo chi già ha, per merito o per storia, risorse e cercando di invertire il deperimento di intere regioni e settori scientifici. La dinamica della distribuzione delle risorse in base a un merito più o meno reale ha il rischio di accentrare sempre di più le risorse su pochi poli, soffocando la ricerca diffusa e generando un circolo vizioso che inibisce a sua volta la possibilità di sviluppare ricerche innovative. È necessario non solo liberare i precari della ricerca dal ricatto, ma anche contrastare la concentrazione del potere accademico in poche mani, ripristinando forme di governo democratico degli atenei tendendo sempre presente che la vera esplorazione, oltre a essere difficile, può condurre a risultati incerti e non è una scelta popolare nel campo in cui si lavora. Tuttavia, favorire l’innovazione, che nasce proprio dall’esplorazione di nuove strade, dovrebbe essere un obiettivo prioritario delle politiche della ricerca: strategie per premiare la creatività.
Il patrimonio culturale
Non c’è mai stata, in questo paese, una politica culturale costituzionalmente orientata. Nelle due ultime legislature, poi, sono arrivate le ‘riforme’ di Dario Franceschini. Esse si basano su un principio semplice, anzi brutale: separare la good company dei musei (quelli che rendono qualche soldo), dalla bad company delle odiose soprintendenze, avviate a grandi passi verso l’abolizione. Il resto (archivi, biblioteche, siti minori, patrimonio diffuso) è semplicemente abbandonato a se stesso: avvenga quel che può.
In gioco non c’è la dignità dell’arte, ma la nostra capacità di cambiare il mondo. Il patrimonio culturale è una finestra attraverso la quale possiamo capire che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso. Ma se lo trasformiamo nell’ennesimo specchio in cui far riflettere il nostro presente ridotto ad un’unica dimensione, quella economica, abbiamo fatto ammalare la medicina, abbiamo avvelenato l’antidoto. Se il patrimonio non produce conoscenza diffusa, ma lusso per pochi basato sullo schiavismo, davvero non abbiamo più motivi per mantenerlo con le tasse di tutti: non serve più al progetto della Costituzione, che è “il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3).
Tutto questo non è una novità, è l’estremizzazione della linea anticostituzionale inaugurata da Alberto Ronchey (ministro per i beni culturali dal 1992 al 94), guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati la dottrina del patrimonio come ‘petrolio d’Italia’, la religione del privato con l’annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Walter Veltroni) lo slittamento ‘televisivo’ per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero (si veda lo sfregio della ricostruzione dell’arena del Colosseo).
La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.
Perché questo si realizzi, i primi passi sono pochi e chiari:
– abrogare le riforme Franceschini, e tornare a riunire territorio e musei in funzione della tutela e della produzione e redistribuzione della conoscenza attraverso la ricerca;
– introdurre l’accesso gratuito a tutti i musei e i siti della cultura statali;
– tornare immediatamente al livello di finanziamento del patrimonio precedente al taglio Bondi-Tremonti del 2008;
– riportare la pianta organica dei Beni culturali a 25.000 unità, e coprirle tutte con posti a tempo indeterminato;
– abolire il Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno e ricondurre il patrimonio culturale chiesastico sotto il controllo diretto delle soprintendenze territoriali;
– riunire Ambiente e Cultura in un solo Ministero del Territorio e del Patrimonio (un ministero dell’articolo 9 della Costituzione), da intendere come un ministero dei diritti della persona, come lo sono quelli della Salute e dell’Istruzione.
– ‘decolonizzare’ i monumenti attraverso un grande progetto di educazione costituzionale al patrimonio.
– inserire l’insegnamento della storia dell’arte (intesa come storia del patrimonio culturale) in tutte le scuole, di ogni ordine e grado.
Giustizia penale, sicurezza e comunità
Affrontare il tema della giustizia penale nel nostro Paese significa, in primo luogo, realizzare compiutamente il dettato costituzionale, che prevede una risposta calibrata e diversificata da parte dello Stato in occasione della commissione di fatti di reato. L’articolo 27 della Costituzione parla infatti non solo della pena della reclusione, ma più ampiamente delle diverse “pene” possibili: la concreta declinazione di quali e quante debbano essere queste pene non può che legarsi in modo inscindibile alla loro finalità rieducativa. Immaginare una penalità che concretamente spinga gli autori di reato a porre rimedio (quando e per quanto questo sia possibile) al male e alla sofferenza che i reati arrecano alla convivenza civile: questa la vera sfida per una Società moderna, che voglia tutelare la propria sicurezza in termini reali.
Il sostanziale fallimento del sistema sanzionatorio tradizionale è, purtroppo, un dato incontestabile: nel nostro Paese la giustizia penale è spesso esercitata male e tardi e le carceri sono divenute, nonostante l’impegno di tanti operatori, luoghi di inumanità e spesso di riproduzione della criminalità. Un sistema sanzionatorio efficace deve, in primo luogo, delimitare in modo rigoroso e sicuro il perimetro delle pene che devono essere espiate necessariamente in carcere, evitando di sovraffollate gli Istituti Penitenziari di persone che non siano concretamente pericolose per la convivenza comune.
A tutt’oggi, più di un terzo dei detenuti non risulta condannato in via definitiva; un altro terzo risulta coinvolto in reati minori, spesso riconducibili al piccolo spaccio di sostanze stupefacenti; quasi la metà è portatrice di problematiche psichiche. È assolutamente necessario evitare che, all’interno degli Istituti Penitenziari si perpetui la pericolosa convivenza e commistione tra persone che hanno alle spalle carriere delinquenziali e devianti di considerevole spessore e detenuti con pene esigue e stili di vita che fanno degli espedienti quotidiani la propria cifra caratteristica, per evitare che la criminalità organizzata possa attingere ad un serbatoio così cospicuo di manovalanza criminale.
E, d’altra parte, occorre rispristinare – parallelamente agli interventi di riduzione del sovraffollamento carcerario – la piena dignità delle condizioni di detenzione, in modo aderente al dettato della Costituzione e nell’interesse dei lavoratori della Giustizia e della società civile, oltre che degli stessi detenuti: un carcere indegno è anche un carcere insicuro e pericoloso, anche e soprattutto per i territori che lo circondano.
Costruire un sistema penale sicuro ed efficiente significa, innanzitutto, allargare lo sguardo, sinora concentrato quasi esclusivamente sugli autori di reato, anche alla società che è lo scenario in cui i reati si consumano, a partire dalle figure delle vittime. Realizzare un servizio pubblico e generale di assistenza (psicologica, economica, giuridica) alle vittime costituisce un bisogno non più rinviabile da parte del sistema della giustizia. E, d’altra parte, potenziare le sanzioni sostitutive e le misure alternative, incrementando il reale controllo delle azioni concrete che gli autori di reato sono disposti a compiere a favore delle comunità che hanno ferito con i propri atti, è un imperativo categorico, ove si voglia realmente potenziare la sicurezza sociale, facendo leva su un costante e capillare monitoraggio della quotidianità del reinserimento sociale, oltre che sui controlli tradizionali delle forze di Polizia.
Si tratta, insomma, di integrare il sistema sanzionatorio al di là della deludente situazione carceraria, chiedendo e motivando le persone a dare il meglio di se’ a quelle cerchie sociali che hanno conosciuto solo il peggio e avendo la prontezza di intervenire efficacemente e tempestivamente quando ciò non succede nella misura prevista.
Questa dimensione sanzionatoria, è, evidentemente per molti, ma non per tutti coloro che si sono macchiati della commissione di reati, alcuni dei quali – a causa della particolare gravità dei fatti o della indisponibilità a mettersi in gioco in una vera esperienza di restituzione alla comunità e di reinserimento sociale – non possono (o non possono ancora) partecipare ad una dimensione più ambiziosa ed efficace. Rispetto a queste situazioni, la dimensione carceraria rimane, pur con le dovute riforme e senza che la pena acquisti caratteri incompatibili con la dignità della persona, la prospettiva più immediata.
Da questa prospettiva, discendono tre proposte:
1) creare una agenzia che possa disporre, come succede in molto stati europei, di risorse e mezzo per un controllo è una progettualità dei percorsi di reinserimento sul territorio;
2) introdurre e rafforzare la previsione di altre sanzioni penali (lavori di pubblica utilità, sanzioni sostitutive, sanzioni economiche) nel sistema penale quali alternative alla detenzione;
3) trasformare la Polizia penitenziaria, rendendola la Polizia del Ministero della Giustizia, con giurisdizione, presidi, mezzi e risorse anche sui territori, oltre che nelle carceri e uffici ministeriali.
CITTADINANZA E POLITICHE SOCIALI
Diritti di cittadinanza
Esistono molti modi di declinare il concetto di cittadinanza. Nella sua dimensione giuridica, la cittadinanza rimanda al diritto di residenza sul territorio nazionale e ai diritti politici, in primis di elettorato attivo e passivo. Ma dal punto di vista della persona, altrettanto se non più importanti sono i diritti connessi alla cittadinanza sociale, che le permettono di emanciparsi dai bisogni e di partecipare a pieno titolo alla comunità politica di cui fa parte. Prendere sul serio la cittadinanza sociale vuol dire dare piena attuazione alla nostra Costituzione e in particolare al secondo comma dell’articolo 3, secondo cui: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Quali sono gli ostacoli alla fruizione dei diritti di cittadinanza a cui è urgente porre rimedio?
Partiamo dalla cittadinanza giuridica. In Italia, cittadini si nasce e non si diventa, almeno non facilmente. La legge 91/1992, attualmente in vigore, stabilisce che il diritto di cittadinanza spetta automaticamente solo a chi nasce da un genitore italiano (e per estensione, a chi ne viene adottato), secondo il principio nazionalista dello ius sanguinis. Le persone immigrate possono chiedere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo dieci anni di permanenza ininterrotta sul territorio italiano. I loro figli, anche se nati in Italia, devono aspettare il compimento della maggiore età per fare richiesta e crescono quindi in un limbo identitario in cui il paese in cui sono nati e cresciuti ‒ e spesso l’unico che conoscono ‒ continua a considerarli stranieri. Quali sono le alternative? Senza paragonarci ai grandi paesi di immigrazione come Stati Uniti e Canada, dove vige il principio dello ius soli (per cui chi nasce sul territorio nazionale ha automaticamente diritto alla cittadinanza), in molti paesi europei vige una versione temperata dello ius soli, che condiziona l’accesso alla cittadinanza per i minori a una relativa stabilità territoriale dei genitori. È il caso di Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda e Irlanda e, dal 2000, persino della Germania, dove pure i concetti di cittadinanza, nazionalità e appartenenza etnica hanno da sempre confini labili. In Italia, la discussione sulla riforma della legge sulla cittadinanza si protrae ormai da troppo tempo. L’alibi usato da molti partiti, secondo cui si tratterebbe di una battaglia di bandiera e non di una necessità improrogabile, si scontra con la vita quotidiana di più di un milione di minori stranieri residenti in Italia, di cui circa la metà sotto i sette anni. Il testo in discussione alla Camera a luglio 2022, su cui l’esecutivo Draghi non ha preso posizione e che difficilmente vedrà la luce prima della fine della legislatura, prevede il cosiddetto ius scholae (ex ius culturae), ossia il riconoscimento della cittadinanza italiana per i giovani nati in Italia o arrivati prima del compimento dei 12 anni che abbiano frequentato almeno cinque anni di scuola nel nostro paese. Pur con i suoi limiti, è fondamentale difendere questa proposta ed evitare l’ennesimo naufragio di una riforma sostanziale della legge sulla cittadinanza.
E per quanto riguarda la cittadinanza sociale? Parliamo qui in primo luogo dei diritti sociali di partecipazione, quali la libertà sindacale e di sciopero, che è bene non dare per acquisiti, alla luce delle crescenti pressioni, sia sul fronte legislativo sia su quello giudiziario, per limitarne il perimetro e l’efficacia. In secondo luogo, la cittadinanza sociale implica il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla previdenza sociale e a tutti quei servizi essenziali che caratterizzano il nostro quotidiano (cfr. scheda “Economia fondamentale”).
Fra le molte dimensioni coinvolte, forse la più pressante è quella che riguarda la povertà infantile. Nel 2020, un milione e 336 mila minori (13,5% di tutti i minori residenti) si trovavano in condizioni di povertà assoluta, ovvero nell’incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari per soddisfare i bisogni fondamentali (dati Istat). La situazione è particolarmente grave nel Mezzogiorno (anche se con la crisi pandemica si è registrato un netto aumento dei poveri anche al Nord) e fra le famiglie di origine immigrata, per le quali il rischio povertà è oltre quattro volte quello delle famiglie di soli italiani. Le condizioni di deprivazione materiale in cui così tanti bambini sono costretti a crescere segnano inevitabilmente il loro corso di vita e le opportunità di sviluppo futuro. Questi, proprio come le seconde generazioni dimenticate, sono i cittadini di domani. È doveroso (“È compito della Repubblica…”) operarsi al fine di ridurre rapidamente e drasticamente la povertà infantile.
La lotta alla povertà è necessariamente multidimensionale e chiama in campo molte politiche fra cui in particolare quelle per il lavoro, la casa, le famiglie e il Mezzogiorno (cfr. schede dedicate). Non basta quindi il Reddito di Cittadinanza per decretare la “fine della povertà”, come trionfalisticamente annunciato dai suoi proponenti. Attenzione, non basta, ma è necessario. L’Italia è stata uno degli ultimi paesi europei a introdurre una forma di sostegno al reddito, prima con la breve parentesi del Reddito di Inclusione (ReI) e poi, a partire dal 2019, con il Reddito di Cittadinanza (RdC): un sussidio a integrazione del reddito la cui copertura (numero di beneficiari) e generosità (livello del sussidio) sono inferiori rispetto agli strumenti di sostegno al reddito di altri paesi europei, ma comunque superiori rispetto al poco o nulla che c’era in precedenza in Italia (ReI compreso). Il RdC è rivolto a nuclei familiari molto poveri, anche se, paradossalmente, per come sono costruiti i criteri di accesso, tende a penalizzare proprio i nuclei più in difficoltà, ovvero le famiglie numerose e quelle immigrate. Il RdC può e deve sicuramente essere migliorato, sulla scorta delle dieci proposte emerse dalla commissione Saraceno nel 2021, completamente ignorate dal governo Draghi perché non difese dal ministro Orlando, che pure quella commissione aveva nominato. Ma non va abolito e non va tagliato. Il malinteso sulla sua efficacia deriva dal fatto che Il RdC è formalmente una politica attiva del lavoro, ma i suoi beneficiari sono difficilmente attivabili: non perché inamovibili dal “divano”, come vuole la vulgata, ma perché poco desiderabili dal mercato, in quanto disoccupati di lungo periodo, a bassa qualifica, o in molti casi addirittura inabili al lavoro. Preso per quello che è, ovvero una misura tampone rispetto a situazioni di grave disagio socio-economico, il RdC è invece un primo (o primissimo) passo nella direzione giusta.
Costo della vita
L’ondata inflazionistica che sta investendo il nostro paese evoca fantasmi del passato: un’inflazione all’8%, come quella registrata a giugno, non si vedeva in Italia dal 1996. D’altronde, è tutto il mondo occidentale a essere attraversato da un intenso aumento dei prezzi e, questa volta, le politiche monetarie delle banche centrali sembrano c’entrare relativamente poco. Secondo un recente rapporto della Fed di San Francisco, infatti, a contare è soprattutto l’assetto delle catene produttive globali, che lo scoppio della pandemia ha brutalmente spezzato e che ora, in fase di ripresa, scontano le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina, in particolare per quanto riguarda l’impennata delle materie prime energetiche. Una crisi di approvvigionamento delle risorse, insomma, che durerà nel tempo, anche perché si lega inscindibilmente alla crisi climatica, con la siccità che mette in ginocchio la produzione agricola mondiale e fa schizzare alle stelle i prezzi dei beni alimentari. Il tutto condito da una buona dose di speculazione da parte di chi se la può permettere, ça va sans dire: è sufficiente dare un’occhiata all’andamento dei derivati del comparto energetico per rendersene conto.
Se manteniamo un’ottica ampia e di lungo periodo, l’unica via possibile per uscire da questa spirale è intraprendere un percorso di deglobalizzazione delle filiere industriali, che rimetta al centro i contesti locali produttivi e i loro saperi diffusi.
Nel breve e medio periodo, però, è necessario proteggere il potere d’acquisto dei cittadini. Con l’attuale tasso di inflazione, una famiglia italiana con due figli spenderà in un anno quasi 3.200 euro in più, a parità di consumi. Ma è difficile credere che con l’aumento dei prezzi il livello dei consumi rimarrà invariato: molti taglieranno, dove possibile, e questo avrà conseguenze negative sul benessere delle famiglie, soprattutto dei nuclei a reddito basso o medio-basso, e sull’economia reale. Davanti a questo scenario, è evidente che il bonus 200 euro – da cui i soggetti con posizioni più frammentate sono stati comunque esclusi – è davvero poca cosa. Sarà per questo che il decreto Aiuti bis che il governo uscente sta delineando sembra abbandonare la strada del contributo una tantum e, seguendo le sollecitazioni delle forze sindacali, puntare piuttosto su una decontribuzione temporanea del lavoro dipendente e una rivalutazione anticipata delle pensioni.
Partiamo da qui per mettere meglio a fuoco il nesso tra lavoro, salario e costo della vita. Salvaguardare il potere d’acquisto delle famiglie è fondamentale e auspicabile, ma farlo solo attraverso misure temporanee di protezione di salari e pensioni – o, più in generale, agendo solo sulla leva del lavoro e del salario – ignora un’area importante di interventi possibili. Si dà per scontato il rapporto di necessità tra salario e sostenibilità della propria vita, secondo cui per vivere meglio, o anche solo per contenere entro livelli accettabili il peso delle nostre spese, dobbiamo necessariamente guadagnare di più, in modo da avere più soldi da spendere. In sintesi: una soluzione centrata su capacità e possibilità del singolo a un problema che invece ha una dimensione collettiva. E, oltre a questo, una soluzione che rischia di tagliare fuori tante e tanti: chi non lavora o è costretto a farlo in modo irregolare; chi è precario, autonomo o parasubordinato; chi è intrappolato in lavori con un salario talmente basso da rendere irrilevante un piccolo aumento percentuale.
Possiamo allora immaginare misure ulteriori, durature, inclusive, che preservino davvero nel tempo la sostenibilità della vita di individui e famiglie a prescindere dalle dinamiche internazionali e, almeno in parte, del mercato del lavoro? Per farlo, dobbiamo fare lo sforzo di scendere di scala e pensare a interventi complementari a quelli del governo centrale, che si definiscano a livello locale a partire dalle effettive esigenze della popolazione. Servono, in altre parole, investimenti diffusi nelle c.d. infrastrutture della vita quotidiana, dotazioni materiali e immateriali a cui accediamo ogni giorno e che definiscono in buona parte il nostro benessere come cittadini. Se queste sono presenti e accessibili a tutte e tutti, allora sì che siamo protetti dalle perturbazioni internazionali e, allo stesso tempo, abbiamo maggiori chance di cogliere le opportunità che possono definirsi nel mercato del lavoro. Un sistema efficiente di trasporto pubblico, diffuso sul territorio, garantisce il diritto alla mobilità contenendo le spese private destinate all’auto e al carburante; servizi educativi e di assistenza all’infanzia di qualità, disponibili vicino a casa, con modalità di fruizione compatibili con i tempi di vita e lavoro, limitano la necessità di ricorrere al mercato.
Questi due esempi – trasporto pubblico e assistenza all’infanzia – sono particolarmente significativi perché alcune ricerche condotte nel Regno Unito mostrano che, per le famiglie a basso reddito, il passaggio da un sostegno economico pubblico (come il nostro reddito di cittadinanza) a un lavoro retribuito spesso si accompagna a una riduzione del denaro che il nucleo ha a disposizione dopo aver sostenuto tutte le spese. Questo perché lavorare costa, e i costi principali rilevati sono proprio quelli di trasporto per recarsi sul posto di lavoro e di cura dei figli – o di altri soggetti non autosufficienti – mentre si è impegnati fuori casa. Se progettiamo percorsi di reinserimento lavorativo che non tengono conto di questi elementi, senza sviluppare un’adeguata rete di servizi alla popolazione, facilmente andremo incontro al fallimento: daremo lavoro, aumentando però il costo della vita.
Non è solo una questione di salario: la sostenibilità della nostra vita è una questione che va ben al di là di ciò che possiamo acquistare come individui.
Casa
L’Italia si caratterizza per un alto tasso di proprietari di casa e una bassa disponibilità di alloggi in affitto, specialmente di affitto sociale. Già a partire dagli anni Settanta il numero degli alloggi disponibili ha infatti superato il numero delle famiglie. Alcuni nuclei hanno anche consumi abitativi che possono essere definiti opulenti, disponendo di una o più abitazioni. Il dato sul surplus di abitazioni rispetto alle famiglie nella quota di alloggi pone due problemi. Il primo è quello degli alloggi non disponibili sul mercato in quanto utilizzati per il mercato degli affitti brevi. Questo tema è di particolare rilevanza nei contesti urbani. Una parte degli alloggi che potrebbero essere destinati al bisogno abitativo delle famiglie, in particolare nelle aree centrali delle grandi città d’arte, viene destinato all’accoglienza temporanea di turisti. Il secondo riguarda il patrimonio abbandonato sia in aree cittadine, gli alloggi vuoti in città, sia in aree non urbane, localizzato soprattutto nei Comuni montani, in parte non utilizzabile o poco appetibile per problemi di agibilità o carenza di manutenzione. Infatti, la maggioranza del patrimonio delle case ha più di 40 anni e ha, quindi, ampiamente superato la soglia temporale oltre la quale solitamente sono necessari interventi manutentivi importanti (e costosi) alle parti non strutturali dell’edificio (impianti tecnologici, sanitari, ecc.).
Alla maggiore diffusione del patrimonio (e della proprietà), si è affiancato un complessivo miglioramento delle condizioni abitative: si sono innalzati gli standard, la dotazione e la qualità degli impianti nelle abitazioni. Permangono, tuttavia, situazioni di disagio, più frequentemente per le famiglie in affitto e che provengono dagli strati più svantaggiati della popolazione.
Le politiche per la casa si trovano quindi oggi ad affrontare non più tanto la carenza quantitativa di alloggi ma la necessità di garantire a tutti l’accesso a una abitazione adeguata. L’adeguatezza delle abitazioni richiama due dimensioni fondamentali: la sostenibilità economica dei costi per l’abitare e il sovraffollamento. Entrambe queste dimensioni sono relative alla famiglia che risiede nella casa e non all’alloggio in sé. Nel primo caso gli affitti e le utenze sono troppo onerosi per la disponibilità economica dei nuclei, spesso aggravando situazioni di difficoltà economica. Nel secondo caso lo spazio abitativo è insufficiente per la convivenza di tutti i componenti del nucleo. Questo fa sì che non vi siano spazi adeguati per studiare, lavorare, riposare e aumenti molto la probabilità di incidenti domestici.
Un dato sulla gravità della situazione abitativa è rappresentato dalle richieste di accesso alle case di edilizia pubblica, ormai stabilmente assestate in centinaia di migliaia di domande. Sono nuclei che avrebbero i requisiti per accedere a un alloggio ma non ci sono case disponibili.
Cosa fare, allora? In primo luogo, non continuare a promuovere la proprietà come soluzione ai problemi abitativi. Ancora oggi, infatti, le politiche pubbliche promuovono l’acquisto degli alloggi attraverso l’assenza di tassazione e vari incentivi come le agevolazioni prima casa, in particolare per i giovani. Queste misure non offrono una risposta ai nuclei più fragili, ma al contrario riproducono le disuguaglianze, con la conseguenza di irrigidire ulteriormente il mercato immobiliare. Una revisione del sistema di tassazione delle case è necessario. Tassare maggiormente le proprietà immobiliari – in particolare quelle destinate agli affitti brevi – ha un elevato potenziale redistributivo, è meno recessiva rispetto alla tassazione sul lavoro o sui capitali e può limitare fortemente le speculazioni e le dinamiche dei prezzi. Certo, per poter essere adottate in maniera redistributiva, queste imposte necessiterebbero di un aggiornamento dei valori catastali, costante e preciso, e non è un caso dunque che, in mancanza di una reale volontà politica, la cosiddetta ‘riforma del Catasto’ sia ferma.
In secondo luogo, la casa va riportata al centro della sua funzione essenziale, soddisfare il bisogno abitativo. Le politiche per la casa non possono essere inserite nell’ambito delle politiche di edilizia. Le politiche abitative devono infatti essere una parte integrante delle politiche sociali, come parte centrale e integrante. In questo quadro una promozione e uno sviluppo delle Agenzie sociali per la locazione potrebbe fornire una risposta a rendere disponibili gli alloggi vuoti a prezzi accessibili, con la garanzia pubblica per le famiglie a basso reddito. Si tratta in sostanza di agenzie immobiliari pubbliche dove proprietari privati mettono in affitto a prezzi decisamente più bassi di quelli di mercato alloggi a cittadini in condizione di difficoltà. L’ente pubblico si occupa non solo di far incontrare la domanda e l’offerta ma anche di garantire ai proprietari un anticipo sul canone e una garanzia di pagamento di diversi mesi di affitto.
In questo modo le Agenzie sociali utilizzano il patrimonio immobiliare già esistente, incentivando l’affitto e riducendo il rischio di alloggi vuoti. In altre parole, le risorse pubbliche modificano una fetta di immobili per l’affitto a prezzi di mercato, in alloggi a prezzo calmierato. I tempi per la disponibilità degli alloggi è immediata, non si deve cioè aspettare il lungo intervallo che intercorre tra la definizione della politica e la realizzazione di nuove case (stanziamento risorse, bando, assegnazione, realizzazione). Non si incrementa il consumo di suolo e si incentiva indirettamente la manutenzione degli alloggi. La “garanzia pubblica” del pagamento del canone fa si che i proprietari siano propensi a rendere disponibili i loro alloggi a una fascia della popolazione diversamente non molto considerata in quanto più fragile, riducendo anche la propensione agli affitti senza contratto. Tuttavia, questa misura non è in grado di rispondere ai bisogni abitativi delle famiglie più povere, che possono però essere soddisfatti attraverso l’accesso – a questo punto residuale – agli alloggi di edilizia pubblica.
Famiglie
L’Italia è uno dei Paesi appartenenti all’Unione europea con più ampi squilibri se guardiamo alle famiglie. Si tratta di squilibri innanzitutto demografici, per i bassissimi livelli di fecondità (1,24 in media i figli per donna, contro valori medi europei superiori, per esempio, 1,8 di Francia), di squilibri sul versante del funzionamento del sistema famiglia-lavoro, per la bassa occupazione femminile e alti livelli di povertà. Nel 2019 (prima della pandemia), per la popolazione in età lavorativa il tasso di occupazione femminile in Italia è pari al 50,1%, 13 punti inferiore al dato medio Ue-27, in fondo alla graduatoria (dopo la Grecia). La partecipazione è particolarmente debole per le donne a bassa istruzione, che vivono nel Sud Italia o nelle cosiddette ‘aree interne’, oltre che per le famiglie con ridotte possibilità di attivare la rete sociale (come le famiglie straniere), in un Paese, come l’Italia, in cui i ‘nonni’ sono la principale risorsa di welfare per le madri che lavorano. Gli svantaggi per risorse culturali ed educative si sommano con gli svantaggi di genere e territoriali che si amplificano in corrispondenza di alcune fasi del corso della vita, come segnalano i dati relativi all’alto tasso di abbandono delle madri in corrispondenza della maternità. Nel corso del 2020-21, per effetto della pandemia, la condizione occupazionale e lavorativa delle donne italiane è ulteriormente peggiorata. Il nostro risulta un Paese dunque in cui rimane ampio il divario di genere non solo per la differente partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne, ma anche a causa di una scarsa partecipazione maschile al lavoro familiare. Infatti, mediamente il numero di ore dedicate dalle donne al lavoro familiare è quasi 3 volte superiore a quello degli uomini (5 ore e 30 min. per le donne dedicate al lavoro familiare contro 2,27 degli uomini). Più in generale, elevati appaiono i divari di genere nel nostro Paese, anche in altri ambiti di vita (come la politica o il tempo libero), come segnala il gender equality index pari al 63,8% in Italia versus una media europea del 68%.
Anche in conseguenza del basso tasso di occupazione delle madri, della lunga assenza di assegni universalistici per i figli (fino alla recentissima entrata in vigore dell’Assegno Unico Universale) e della concentrazione di povertà nel Sud, l’Italia è tra i Paesi dell’Unione europea con uno dei tassi di povertà tra minori più elevata. Secondo l’Istat sono 1.260.000 minori in povertà assoluta e uno su 4 si trova in povertà relativa.
Certamente tali squilibri sono da ricondurre alle caratteristiche dello sviluppo economico e ai modelli culturali familiari di genere prevalenti, ma anche alle caratteristiche del welfare state italiano e in particolare al modello di politiche familiari e di servizi per l’infanzia. L’Italia è entrata nell’emergenza sanitaria come uno dei Paesi appartenenti all’Unione europea con un quadro di trasferimenti monetari per le famiglie con figli e di sostegno della natalità assai limitato, frammentato e poco generoso, di politiche e servizi per la conciliazione famiglia-lavoro e di investimento per l’infanzia molto debole e inadeguato. Il lavoro gratuito delle donne, la solidarietà e gli scambi intergenerazionali (economici e di cura) sono state le principali strategie di welfare e di cura, per conciliare famiglia e lavoro in Italia. Nonostante l’investimento nella primissima infanzia sia, secondo l’ONU e tutta la comunità scientifica internazionale, quello più capace di prevenire le disuguaglianze nel corso della vita, in Italia, i servizi educativi per la prima infanzia (0-3 anni) e ancor più gli interventi di supporto per le famiglie con bambini sono accessibili solo da una ristretta minoranza e con ancora maggiori differenze territoriali: 3 bimbi su 4 non hanno accesso al nido, con un drammatico divario tra Centro-Nord e Sud, e una minima parte delle famiglie, quasi tutte residenti in Regioni del Centro-Nord e in aree urbane, ha accesso a servizi e percorsi di accompagnamento in una fase cruciale dell’esperienza genitoriale, quale quella che comprende il periodo prenatale e i primi due-tre anni di vita. Nonostante il PNRR abbia stanziato 2,4 miliardi destinati agli asili nido, le richieste di finanziamento da parte delle amministrazioni locali sono risultate molto limitate e hanno coperto solo la metà dei fondi previsti. Si tratta di una situazione in cui alle disuguaglianze prodotte dall’origine familiare si sommano quelle dovute all’assenza di servizi e di una vera e propria politica di investimento sociale: una politica che focalizzi l’attenzione sulla promozione del benessere e sulla tutela e lo sviluppo dell’infanzia, dell’adolescenza e più in generale delle ‘nuove generazioni’.
Proposta versante politiche sociali e servizi:
Potenziare i nidi d’infanzia, raggiungere l’obiettivo del 33% in modo omogeneo, in tutte le Regioni e in tutto il territorio nazionale, perché i nidi sono una risorsa educativa per i più piccoli, uno strumento essenziale per contrastare le disuguaglianze di origine familiare e la povertà educativa, oltre che una misura fondamentale di sostegno dell’occupazione femminile e di supporto per la conciliazione famiglia-lavoro. Rendere su tutto il territorio nazionale i nidi, più diffusi e accessibili, è dunque una delle sfide decisive nella lotta alla povertà economica ed educativa. Potenziare inoltre la rete (quasi inesistente) di servizi a sostegno della genitorialità. Infine, agire sul versante della redistribuzione del lavoro familiare tra uomini e donne prevedendo incentivi o ‘azioni positive ‘ per la partecipazione dei padri alla cura (potenziare ulteriormente e soprattutto da un punto di vista economico quanto previsto dal Family Act in termini di congedi per i padri).
È anche sul versante dei diritti delle ‘diverse’ forme familiari e dei riconoscimenti delle diverse identità sessuali e di genere che il nostro Paese sconta un’arretratezza quasi unica in Europa. Nonostante, la Convenzione europea (rivista) sull’adozione dei bambini del 2008 abbia apertamente dichiarato che le persone dello stesso sesso vanno considerate a tutti gli effetti come potenziali genitori adottivi al pari di quelle eterosessuali e, nonostante, la Corte europea dei diritti umani abbia dichiarato che gli stati che consentono ai single di adottare devono, in base al principio di non discriminazione, assicurare anche alle persone con un diverso orientamento sessuale di essere riconosciute come genitori, nel nostro Paese, le coppie dello stesso sesso non possono accedere né alla Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) né all’adozione né, con la legge 76/2016 (legge Cirinnà), alla stepchild adoption, creando così odiose discriminazioni tra figli a seconda dell’orientamento sessuale dei propri genitori, tra figli che hanno diritto a 2 genitori e figli a cui la legge riconosce il diritto ad un solo genitore. È in questo contesto che si inserisce ed è cresciuto in Italia, il fenomeno del turismo procreativo, quello realizzato allo scopo di realizzare quel progetto procreativo reso impossibile nel nostro Paese dalla legge 40 (la legge sulla Procreazione Medicalmente Assistita). Sul versante dei diritti e delle non discriminazioni resta inoltre ancora da lavorare per introdurre una legge contro l’omo-bi-transfobia, la misoginia e l’abilismo, dopo la non approvazione del DDL Zan.
Proposta sul versante dei diritti:
Introdurre una legge che riconosca ai figli delle coppie dello stesso sesso il diritto alla bi-genitorialità, a partire da una modifica della legge sulla Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) che consenta anche ai single e alle coppie dello stesso sesso di accedervi; mettere nell’agenda una nuova proposta di legge contro l’omo-bi-transfobia.
Le politiche sociali
Per affrontare la emergenza economica e sociale prevista nel prossimo autunno saranno necessarie ingenti risorse pubbliche e private, ma il loro utilizzo andrà accompagnato anche da un cambiamento di approccio politico e culturale in grado di scongiurare orientamenti meramente contenitivi e colpevolizzanti, di scaricare sulle famiglie, e quindi sulle donne, l’accudimento delle fragilità e di mettere a profitto la sofferenza delle persone più fragili. Mai come oggi è necessario non solo arginare e contrastare tali processi ma anche attivare una vera e profonda inversione di tendenza mirata a:
a) ripristinare un sistema welfare pubblico e universale che garantisca in modo uniforme sul territorio nazionale il benessere e il pieno sviluppo di ciascuno, attraverso una rete territoriale di politiche e servizi integrati che renda esigibili i diritti sociali fondamentali;
b) dar vita ad una nuova narrativa collettiva con la quale identificarsi, volta a ribadire che i trasferimenti di reddito e servizi verso i più poveri non sono spesa improduttiva ma consentono di operare risparmi futuri, in un’ottica di investimento sociale.
Come si è visto in occasione della introduzione del Reddito di Cittadinanza i discorsi istituzionali costruiti attraverso e attorno gli interventi sono elementi cruciali, che contribuiscono a dare forma alle rappresentazioni sociali degli oggetti delle politiche sociali, a definire i confini degli argomenti ammessi e a influenzarne il tono. È dunque quanto mai importante una nuova costruzione egemonica del discorso pubblico e una rivalutazione del ruolo del governo e della politica (tenendo presente che pubblico non significa solo statale). Ciò significa lavorare per una società mobilitata, vincere l’astensionismo di chi (categorie sociali o territori) non si sente più rappresentato, creare nuovi processi aggregativi per ridurre la disuguaglianza e promuovere la coesione sociale.
Negli scorsi decenni la distanza tra i più ricchi e i più poveri in Italia (così come in altri paesi) si è approfondita al punto da non poter essere misurata, e questa “incommensurabilità” ha interrotto ogni forma di patto sociale: i due gruppi hanno smesso semplicemente di confrontarsi e il conflitto sociale ha finito per spostarsi dalla dimensione verticale a quella orizzontale della “guerra tra i poveri”, o quantomeno tra poveri e quasi-poveri. La pandemia ha reso più scoperta questa distanza e messo a nudo l’esistenza di povertà e vulnerabili intollerabili in una società democratica.
Data l’ampiezza dei bisogni insoddisfatti nonostante le risorse aggiuntive del PNRR qualsiasi provvedimento sarà sempre una coperta troppo corta, che lascerà inevitabilmente qualcuno o qualche territorio senza protezione. Soprattutto in alcuni contesti occorrerà evitare di dar vita a guerre tra poveri, innanzitutto per ragioni di equità e di giustizia sociale, e in secondo luogo per il rischio, anzi più di un rischio, del radicamento ulteriore della criminalità organizzata e di formazioni di estrema destra pronte a soffiare sul fuoco. A questo riguardo è bene avere in mente che i quartieri centrali di molte città non corrispondono sempre alla rappresentazione corrente della ZTL dei ricchi e che nelle periferie problematiche tra il “male che avanza” e il “bene che resiste” vi è un’ampia area grigia di soggetti con i quali è necessario parlare, per capirne aspirazioni, bisogni e opportunità di riscatto sociale.
La logica incrementale di estendere i provvedimenti alle categorie di volta in volta escluse e con maggiore potere di advocacy seguita anche durante la pandemia riproduce i limiti della frammentazione propria del sistema italiano di welfare e va superata attraverso la costituzione di commissioni interassessorili e interministeriali che coordino i diversi interventi. Occorre creare zone educative speciali (ZES) in ambiti territoriali socialmente svantaggiati nelle quali le scuole, in coprogettazione con altri enti, agiscono come rigeneratori di legami sociali in un’ottica di welfare di comunità. Va poi rilanciata la proposta del Global Women Strike e della Piattaforma Green New Deal for Europe di un riconoscimento monetario del lavoro svolto per sopperire a carenze istituzionali nella cura delle persone e dell’ambiente (Care Income o Assegno di Cura). Per evitare i rischi di deresponsabilizzazione statale e di pura monetizzazione della cura è importante che questa proposta si inquadri in un progetto più ampio di sviluppo di un modello collaborativo e partecipato con i cittadini, gli enti locali, le imprese e le organizzazioni del Terzo settore in grado di recuperare il senso comunitario della protezione sociale e promuovere lo sviluppo sostenibile.
Qui di seguito si propongono alcuni interventi più specifici
Aree tematiche | Proposte di intervento |
Attività di programmazione e coordinamento territoriale | Nuovo coordinamento fra pubblico e privato sociale già in fase di programmazione degli interventi, non solo nell’ambito della cooperazione: in tal modo si passa dall’elemosina alla mediazione, con una scrittura collettiva del servizio pubblico |
Stipula di patti territoriali sociali relativi a territori ristretti (un rione, un isolato) e progetti di Adozione sociale familiare | |
Favorire programmazione strategica e non microprogetti | |
Interventi a sostegno di imprese e associazioni del Terzo Settore | Concessione di spazi pubblici per iniziative del Terzo settore sul modello dei commons |
Contributi a fondo perduto a valere sui fondi strutturali europei (Fondi Aiuti agli Indigenti; Fondi per il microcredito) alle organizzazioni con consolidata e comprovata esperienza e radicamento sul territorio. | |
Misure a favore di individui e famiglie svantaggiate e senza dimora effettivi e potenziali | Contributo pagamento utenze domestiche soprattutto per famiglie con figli che richiedono assistenza medica mediante apparecchiature elettriche |
Blocco degli affitti per le famiglie in condizione di disagio abitativo | |
Messa in rete delle attività di fornitura di beni alimentari con inclusione anche di privati disposti a dare continuità a iniziative di fornitura di pasti | |
Attività di contrasto delle diseguaglianze educative | Progetti contro la povertà educativa che prendano in carico l’intero nucleo familiare |
Riduzione divari territoriali nell’offerta di scuole a tempo pieno e con mensa scolastica | |
Fornitura agli studenti universitari a basso reddito di pen drive con giga gratuiti per la didattica a distanza e contributi per l’affitto per consentire la frequenza in presenza | |
Misure a sostegno dell’inserimento sociale e lavorativo | Piano straordinario per l’occupazione giovanile rivolta soprattutto a soggetti con scarse credenziali educative |
Formazione professionale innovativa rivolta a drop-out scolastici | |
Programmi di accompagnamento nella ricerca del lavoro (del tipo restart) per giovani madri e sostegno nella creazione di attività di microimpresa | |
Rafforzamento di misure alternative alla detenzione | |
Interventi a favore dei soggetti vulnerabili | Anagrafe delle situazioni più problematiche (famiglie in campi rom, famiglie con bambini con gravi patologie che richiedono controlli medici frequenti o ausili medici ad alto consumo di energia elettrica, grandi anziani che vivono soli, donne vittime della violenza, giovani vedove) |
Rafforzamento di presidi territoriali di prevenzione e cura per anziani e disagio psichico | |
Sistemi di supporto psicologico on line e in presenza e rafforzamento delle misure per donne vittime di violenza |